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08/02/2022

La ripresa e l’ennesima mazzata ai salari

Nella settimana in cui i riflettori dei media sono stati puntati esclusivamente sulla rielezione alla Presidenza della Repubblica di Mattarella, che di fatto comporta il congelamento del quadro politico esistente e la perfetta continuità del Governo Draghi, l’ISTAT ha pubblicato i dati sulla ripresa economica italiana. I numeri raccontano che, nel 2021, il prodotto interno lordo (PIL) è cresciuto del 6,5% rispetto al 2020. Si tratta, stando sempre ai numeri, del più alto tasso di crescita dal 1976. Commentatori e politicanti non hanno perso l’occasione per un’ennesima sviolinata al Governo dei competenti, esaltando il Premier e le sue straordinarie capacità di gestire i fondi del PNRR, nonché di rassicurare i mercati internazionali con la sua certificata competenza. Lo scorso 1° febbraio il Corriere della Sera ha evidenziato come Draghi stesso si sia detto soddisfatto dei dati sulla crescita, che sarebbero “il prodotto della ripresa globale, ma anche delle misure messe in campo dal governo, a partire dalla campagna di vaccinazione e dalle politiche di sostegno all’economia”.

Ma siamo davvero di fronte a un boom economico? Assolutamente no. Per prima cosa, il dato (+6,5%) deve essere letto alla luce della crisi indotta dall’emergenza Covid-19 esplosa ormai due anni fa. Nel 2020, in Italia si è registrata una caduta del PIL dell’8,9%, e la crescita del 2021 costituisce dunque un rimbalzo fisiologico: il semplice fatto di riaprire alcune attività, siano industrie o servizi, comporta un aumento della produzione. Tuttavia, nonostante questa ripresa, il nostro Paese non ha ancora raggiunto i livelli di attività precedenti all’esplosione della pandemia, a testimonianza dell’insufficienza delle misure introdotte dal Governo per uscire dalla crisi. Facciamo un esempio: ipotizziamo che l’economia italiana, prima dell’esplosione della pandemia, si attestasse ad un livello PIL di 1000; la batosta della crisi ci ha portato, dati alla mano, ad un livello di 911; ora, con questa ripresa, siamo risaliti a circa 970. Nonostante la crescita, siamo ancora ben al di sotto i livelli del 2019, quando la pandemia non era ancora esplosa.

Qualche entusiasta sostenitore del Governo Draghi potrebbe tuttavia controbattere che, di fronte a una crisi di dimensione globale, l’economia italiana ha effettivamente fatto registrare una crescita più sostenuta rispetto alle attese (a giugno la stessa ISTAT stimava una crescita più bassa, al 4,7%, per il 2021) e superiore alla media europea (intorno al 5,2% secondo Eurostat).

Ma cosa ci dice il dato sulla ripresa rispetto alla distribuzione dei benefici della crescita e, dunque, rispetto all’impatto che questa ha avuto sulla vita delle persone? Assolutamente nulla. Per analizzare le ripercussioni distributive della crescita fatta registrare nel 2021, quelle che più interessano lavoratrici e lavoratori, è necessario osservare altri dati pubblicati negli ultimi giorni da ISTAT, in particolare quelli sull’inflazione e sulle retribuzioni.

Il riferimento alla dinamica dei prezzi è fondamentale per comprendere l’effettivo potere d’acquisto delle retribuzioni: più che ‘quanti euro troviamo in busta paga’, ci interessa capire ‘quanti beni e servizi possiamo comprare con quella somma’. Un termometro dell’andamento dei prezzi ci viene fornito da due indicatori pressoché gemelli, quali l’indice dei prezzi al consumo per l’intera collettività (NIC) o, alternativamente, l’indice armonizzato dei prezzi al consumo (IPCA). La variazione di questi indicatori rappresenta il tasso di inflazione, e ci indica, in media, di quanto sono cresciuti i prezzi nell’ultimo periodo. Abbiamo infatti visto che se i salari non crescono, l’inflazione erode il potere d’acquisto dei lavoratori. Al riguardo, nel mese di gennaio 2022 il NIC ha fatto registrare un aumento del 4,8% su base annua, mentre l’IPCA del 5,3%. Si tratta di una crescita non consueta, che non si registrava dal lontano aprile 1996. L’accelerazione dell’inflazione, già iniziata nella seconda parte del 2021, è stata tuttavia trainata dai prezzi dei beni energetici, aumentati nell’ultimo anno del 38,6% (tra questi, una particolare accelerazione ha riguardato i beni energetici regolamentati, il cui prezzo è quasi raddoppiato). L’aumento dei prezzi dei beni energetici non è assolutamente un fenomeno da sottovalutare in quanto tali beni (gas, benzina, elettricità, etc.) rientrano nella produzione di moltissimi altri beni, ragion per cui le tensioni inflazionistiche si sono trasferite anche ad altri comparti: per fare un esempio, il prezzo dei beni alimentari e di altri beni di prima necessità per la casa e la persona è cresciuto, in media, del 3,2% nell’ultimo anno.

Come anticipato, un aumento dei prezzi, a parità di salario, finisce per ridurre il potere d’acquisto dei lavoratori. Non a caso, quando i sindacati contrattano il salario su base nazionale (attraverso i contratti collettivi) tengono conto delle previsioni sull’inflazione, al fine di aumentare o preservare la capacità di acquisto dei lavoratori. In base all’accordo quadro di riforma degli assetti contrattuali stipulato dai sindacati confederali (a eccezione della CGIL) nel 2009, le parti sociali hanno concordato l’utilizzo di uno specifico indicatore dei prezzi come riferimento per gli incrementi retributivi contenuti nei rinnovi dei contratti collettivi: l’IPCA depurato dai prezzi dei beni energetici importati. Significa, per intenderci, che nel calcolare l’aumento dei prezzi non si fa riferimento a tutto il paniere di beni e servizi presenti nel NIC e nell’IPCA, ma si tolgono da questo ipotetico cesto della spesa i beni energetici.

Cosa vuol dire tutto ciò? Vuol dire che nel contrattare gli aumenti di salario in busta paga non si considera la crescita dei prezzi dei beni energetici, ma solo il ‘carrello della spesa’ depurato, appunto, dalle varie componenti di energia importata. Per questa ragione l’aumento dei prezzi dei beni energetici importati, iniziato nella seconda metà del 2021, rischia di compromettere i salari reali: gli aumenti retributivi previsti dagli accordi contrattuali sono infatti allineati alle attese sull’IPCA al netto degli energetici importati (IPCA depurato). Si tratta, tuttavia, di tassi di inflazione molto più bassi rispetto a quelli effettivi, proprio perché gran parte della crescita dei prezzi dipende dai beni energetici che importiamo da altri Paesi. La tabella sottostante, fornita dall’ISTAT nel giugno 2021, riporta le previsioni sui tassi di inflazione al netto degli energetici importati su cui si basano i contratti nazionali.

Rispetto al tasso d’inflazione con cui si confrontano ogni giorno famiglie e lavoratori (l’IPCA complessivo o il NIC), l’IPCA depurato, quello utilizzato per i rinnovi contrattuali, si attesta su numeri molto più bassi. Se, tra una previsione e l’altra, dovessero intercorrere repentini aumenti nel prezzo dei beni importati, come accaduto nel secondo semestre del 2021, la base di partenza per la contrattazione dei salari risulterebbe artificialmente più bassa e il potere d’acquisto dei lavoratori e delle lavoratrici ne risulterebbe eroso, più di quanto non sia già.

Se osserviamo i dati ISTAT sui contratti collettivi e le retribuzioni relativi al 2021 ne abbiamo la conferma. La crescita delle retribuzioni contrattuali orarie si è fermata al +0,6%. Alla luce della dinamica media annua dei prezzi al consumo (IPCA +1,9%), pari a circa tre volte quella retributiva, è proprio l’ISTAT a segnalare una significativa riduzione del potere d’acquisto nell’anno passato (-1,3%).

La riduzione dei salari reali significa una cosa sola: i benefici della crescita non sono divisi equamente e non vanno di certo ai lavoratori, che non avranno di che pagare le bollette, sempre più salate, e con sempre maggiori difficoltà metteranno insieme il pranzo con la cena. Quel che è peggio è che questa dinamica di erosione salariale riguarda un Paese che ha già fatto registrare la peggiore performance tra i membri dell’OCSE in termini di retribuzioni reali, risultando l’unico in cui si è registrata una diminuzione (-2,9%) dei salari reali tra il 1990 al 2020. A dimostrazione che non c’è limite al peggio, c’è da aggiungere che la dinamica stagnante delle retribuzioni si ripercuoterà negativamente sulla domanda interna, vero e proprio motore alla base della crescita economica del 2021 a detta dell’ISTAT.

L’andamento dei salari reali per il 2021, insieme alle previsioni per l’anno in corso, ci confermano che le misure di sostegno all’economia varate dal Governo, così come quelle contenute nel PNRR, sono disegnate per stimolare una crescita tutta a favore dei profitti e degli interessi privati. Se la conferma di Mattarella e Draghi ci racconta la storia del ‘cambiare nulla per non cambiare niente’, nuvole all’orizzonte attendono il mondo del lavoro anche per l’anno che, a detta dei media al servizio della propaganda, dovrà consacrare la ripresa.

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