di Andrea Berneschi
Civil War (2024) di Alex Garland. Perché andare al cinema a vedere un film su una nuova guerra civile americana, ambientata ai nostri giorni?
Basterebbe la ricerca di un senso del meraviglioso declinato in negativo: siamo curiosi di vedere nel dettaglio uno sconvolgimento che la nostra memoria collega di preferenza ad altre parti del mondo, più povere e meno sicure. Ma se accadesse da noi, o in paesi simili al nostro? James G. Ballard nel bellissimo racconto Teatro di guerra (1977)[1] già immaginava che una guerra civile dividesse il Regno Unito, descrivendo freddamente le conseguenze per la popolazione civile, tra bordelli riservati alle truppe occupanti e mercato nero... ma la vera sorpresa stava nel finale, con l’autore che suggeriva di avere cambiato solo l’ambientazione, mentre quegli orrori e dialoghi erano avvenuti davvero, o sarebbero potuti accadere, nel Vietnam a lui contemporaneo, lacerato dalla guerra. Da qui lo shock per noi lettori, finalmente consapevoli (e inorriditi) di essere assuefatti alle notizie di morte e deportazione di contadini di un remoto paese asiatico (“la normalità”), mentre se certe cose accadessero a delle persone più vicine e più simili a noi, come dei rispettabili cittadini britannici, sarebbe una distopia, pura fantascienza.
Un’altra possibile motivazione per l’acquisto del biglietto è quella di vedere come questa volta i registi hanno immaginato la discesa verso una possibile, locale, apocalisse. E Civil War
di Alex Garland anche in questo senso non delude: è un film di
Godzilla, anche se manca il lucertolone atomico. Qui il kaiju non si
vede, ma non per questo non avvertiamo le conseguenze della sua
presenza; la sentiamo sempre più, mentre scena dopo scena ci avviciniamo
alla sua ombra. Sì, perché oltre i riferimenti ad Apocalypse Now, quelli più numerosi a Full Metal Jacket (anche nel modo di usare la colonna sonora, con la musichetta orecchiabile di Say no Go dei De La Soul che parte all’improvviso dopo una fucilazione, come già a suo tempo Surfin’ Bird dei The Trashmen) alcune scene del finale richiamano da vicino quelle dello scontro urbano coi carri armati di Cloverfield (Matt
Reeves, 2008). Ed ecco laggiù la schiena del kaiju-guerra, il suo
fetore di morte: il messaggio, incredibilmente chiaro, lontano da ogni
retorica e da ogni possibile tentazione edulcorante, che la guerra per
gli uomini sarà sempre un abisso, una sconfitta, una caduta nella
barbarie. Oltre alla rappresentazione del conflitto col suo cumulo di
morti e rovine e soldati affetti da disturbo post-traumatico o resi
folli dalla violenza, il regista ha la forza per creare dei personaggi
tridimensionali, credibili e delineati con pochi tratti sicuri, come
raramente se ne vedono, e non solo nei film di fantascienza distopica.
Due fotografe di guerra, la veterana Lee Smith (una Kirsten Dunst
nell’interpretazione della sua vita) e la giovane Jessie Cullen (Cailee
Spaeny) che l’ha presa a modello e vorrebbe imparare da lei. Due
giornalisti, uno vecchio ed esperto, che forse vorrebbe solo morire in
azione (Stephen McKinley Henderson) e uno giovane, disposto a tutto pur
di portare a termine l’intervista dei suoi sogni (Wagner Moura). I
quattro viaggiano attraverso i brandelli degli U.S.A. sconvolti da una
guerra civile (California e Texas alleati nelle cosiddette Western
Forces, più la Florida e stati confinanti, insieme contro il governo di
Washington) non parteggiano, non esprimono mai la loro opinione sul
conflitto in corso. Volontà del regista di non dare adito alle polemiche
dei fedeli di Trump? No, c’è un’altra ragione.
Man mano che la
pellicola va avanti sentiamo che il loro atteggiamento è l’unico
possibile: in quello scenario nemmeno chi combatte capisce perché lo fa.
Molti, o forse tutti, si approfittano della situazione che si è creata
per sfogare la propria rabbia o per privati progetti di pulizia etnica o
di vendetta personale. Oppure semplicemente sparano su tutto ciò che si
muove. Sgusciare tra le schegge impazzite di un’America in lotta con se
stessa a volte può essere facile, altre è mortalmente pericoloso.
Come i
protagonisti anche noi spettatori non parteggiamo per le forze
governative o per i ribelli, siamo uno sguardo che cammina, uno specchio
portato per la strada principale di un paese, che nessuno può accusare
per quello che riflette (l’immagine che Stendhal usò nel capitolo XIX
del secondo libro de Il Rosso e il Nero per descrivere cos’è un romanzo[2])
ma nemmeno può intervenire per migliorare il mondo attorno.
La nostra
volontà di vedere è la stessa dei protagonisti del film. Vedere dà
dipendenza, è una vertigine, fa dimenticare a noi e a loro i pericoli
che corre il corpo fisico e perfino l’anima (nel cammino verso l’abisso
ognuno perderà quello che aveva di più caro, l’innocenza, l’ironia, il
ricordo di un passato dignitoso e umano). Non è forse ciò che ci succede
ogni giorno? Abituati a leggere notizie sul declino della civiltà, su
nuove guerre sempre più vicine a noi, sul surriscaldamento del pianeta,
sulle microplastiche ormai diffuse nel liquido amniotico e nel nostro
sangue. Serviti di migliaia, milioni di immagini e di dati da internet e
dagli altri media, eppure paralizzati. Come il protagonista dei Quaderni di Serafino Gubbio operatore (1916)[3],
romanzo di Pirandello tra i primi a rappresentare un cameraman incapace
di intervenire nei confronti di ciò che vede, obbligato per riflesso
meccanico a filmare tutto, anche un massacro, ridotto a mera appendice
della macchina da presa.
Ecco dunque il terzo motivo per cui dovete assolutamente vedere questo film, probabilmente il più potente e profondo dell’anno: la catarsi. Il mondo è sempre più cupo, scisso in schieramenti opposti e apparentemente inconciliabili; all’orizzonte per noi restano scarse speranze non solo di miglioramento ma anche di sopravvivenza; eppure vogliamo vedere, scaricare le nostre angosce reali osservando ancora una volta quelle di personaggi appartenenti a uno scenario fittizio. Dobbiamo vedere. Vedere tutto, fino alla fine, fino al fondo del calice, alla caduta di tutti gli idoli e allo smascheramento di tutte le finzioni. Se poi dalle ceneri potrà rinascere un mondo nuovo... questa è un’altra storia.
Note
[1] J. G. Ballard, Tutti i racconti 1969 – 1992, Fanucci Editore, Roma, 2007, p. 281
[2] “[…] un romanzo è uno specchio che passa per una via maestra, e ora riflette al vostro occhio l’azzurro dei cieli, ora il fango dei pantani. E l’uomo che porta lo specchio nella sua gerla sarà da voi accusato di essere immorale? Lo specchio mostra il fango e voi accusate lo specchio! Accusate piuttosto la strada in cui è il pantano, e più ancora l’ispettore stradale che lascia ristagnar l’acqua e formarsi le pozze”. Stendhal, Il Rosso e il Nero, BUR, Milano, 1993, pp. 350- 351.
[3] Inizialmente pubblicato da Treves col titolo Si gira...
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