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14/08/2023

Covid-19: le archiviazioni non cancellino gli errori

Come associazione che riunisce familiari delle vittime del Covid di Bergamo e di diverse zone d’Italia non possiamo che essere grati delle dichiarazioni che il procuratore capo di Bergamo Antonio Chiappani ha rilasciato in un articolo pubblicato oggi (12 agosto 2023) su Il Giornale.

Da sempre la nostra Associazione #Sereniesempreuniti è vicina alla Procura di Bergamo che per tre anni ha condotto un’indagine storica grazie a professionisti competenti con il fine unico di restituire verità e giustizia.

Ora le archiviazioni dei diversi Tribunali non devono cancellare gli errori palesi nella gestione della pandemia e non devono far dimenticare le migliaia di morti, i nostri cari, come ha ricordato Chiappani:

“È come se i morti non esistessero più. Quando vedo la foto delle bare sui camion, penso al fatto che i morti di Bergamo al Tribunale dei ministri non hanno avuto voce. LA mia non è una censura giuridica, né procedurale, ripeto, ma nessuno ha pensato a loro. Nessuno lo ha fatto notare, neanche le Camere Penali, così sensibili a questi argomenti”.

Chiappani riporta anche l’attenzione alla Commissione parlamentare d’inchiesta, strumento previsto dalla Costituzione e da noi sempre rivendicato come necessario nel ricostruire l’impreparazione dell’Italia di fronte alla pandemia di Covid-19.

Auspichiamo dunque che la nuova Commissione indaghi tutte le responsabilità, al di là delle gravi dichiarazioni del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella che ha di fatto delegittimato uno strumento previsto dalla legge.

Come familiari infine non ci siamo fermati con l’accettazione delle archiviazioni e continuiamo a lottare in sede civile in attesa di sapere se gli indagati per la mancata attuazione del piano pandemico nazionale e del piano pandemico regionale saranno rinviati a giudizio dalla procura di Bergamo.

Il direttivo dell’Associazione familiari vittime Covid-19

#Sereniesempreuniti

Fonte

Nel frattempo, mentre si archivia, la gestione di quel che resta del Covid-19 continua ad essere portata avanti senza alcun criterio.

15/11/2020

Serve un piano nazionale per la scuola

Il quadro che, giorno dopo giorno, si sta delineando nella scuola italiana è chiaro quanto desolante. La scuola sta scivolando inesorabilmente verso una totale ripresa della didattica a distanza.

Al momento è persino impossibile stabilire quante scuole e classi stiano lavorando in presenza e quante a distanza, poiché all’arlecchinata delle regioni si aggiungono quotidianamente situazioni locali di chiusure di singole scuole o di piccoli gruppi di istituti.

Ciò che è chiaro, invece, è che la ripresa scolastica nelle forme previste dal Ministero è fallita, avendo retto poche settimane all’impatto della nuova ondata della pandemia. Settimane in cui, peraltro, l’attività si è svolta in modo caotico, con la mancanza di migliaia d’insegnanti e di collaboratori ATA, in spazi costretti e senza indicazioni chiare.

L’impegno del personale della scuola per una ripresa della didattica in presenza è stato indiscutibile, ma alla fine è accaduto quanto si è verificato per la sanità, vale a dire che la buona volontà dei singoli non può supplire alla disorganizzazione istituzionale.

Così, ci si trova oggi di fronte a una constatazione che non avremmo mai voluto fare: le scuole non sono sicure o almeno non lo sono abbastanza. Questo per almeno due ragioni: la scuola non è una bolla isolata dal contesto sociale, ma interagisce con tutti gli altri settori d’attività e di servizi; inoltre il Ministero ha completamente sbagliato politica ignorando che la scuola necessita che vengano avviati interventi strutturali e non palliativi.

Anzitutto, la ripresa scolastica avrebbe dovuto essere sostenuta dall’interazione con i servizi sanitari, per un controllo preventivo e con un pronto intervento sulle situazioni di positività.

Il tragico stato della sanità territoriale è sotto gli occhi di tutti ed è una delle cause della perdita di controllo sulla pandemia; un servizio in questo stato non può essere buon partner della scuola. Inoltre, mettere in movimento ogni giorno dieci milioni di persone che vanno a scuola, spesso anche con situazioni di pendolarismo, avrebbe richiesto trasporti pubblici efficienti e sicuri.

I trasporti pubblici sono invece diventati una delle più pericolose cause di contagio. Non serve a nulla cercare di garantire la sicurezza nelle scuole se studenti e personale rischiano di ammalarsi sui mezzi con cui ci vanno. La realtà è quindi chiara: ciò che non ha funzionato, a causa delle inefficienze governative, è la triangolazione scuola-sanità-trasporti che sola avrebbe potuto consentire una ripresa e un anno scolastico regolare.

Dal punto di vista degli interventi specifici del Ministero dell’Istruzione sulla scuola è mancata, non casualmente, una visione politica di prospettiva capace di contemperare emergenza e rilancio dell’istituzione nel suo complesso.

Scriviamolo con chiarezza: dopo trent’anni di definanziamenti, di politiche di sussidiarietà pubblico-privato, di riduzione degli organici, di innovazione ridotta all’asservimento alle imprese, nemmeno se Lucia Azzolina fosse stata Superwoman avrebbe potuto mutare la situazione in pochi mesi.

Però ciò che si sarebbe potuto utilmente fare sarebbe stato prendere atto dell’idiozia suicida delle politiche degli ultimi trent’anni e avviare un serio piano di interventi che invertisse la rotta.

Al contrario, la Ministra ha centrato tutto sull’emergenza a breve, prevedendo tra l’altro interventi che si sono rivelati inutili, simbolo dei quali è il tormentone estivo sui banchi a rotelle, sul destino dei quali è sceso un silenzio glaciale.

Il Ministero non ha fatto che riempire giornali e televisioni di chiacchiere e di rapporti inutili stilati dai diversi organi di volta in volta messi in piedi: la ”Commissione Bianchi” il “Comitato tecnico scientifico” e altri, come le “Conferenze regionali di servizio” che avrebbero dovuto stendere i “Patti educativi di comunità” che non hanno nemmeno visto la luce.

La linea guida del Ministero è sempre comunque stata quella di confermare le scelte verso la sussidiarietà, la presenza dei privati nella scuola e la famigerata autonomia scolastica, da anni cavallo di Troia dell’aziendalizzazione del sistema.

Il continuo ricorso alla delega alle regioni, ai Comuni (con l’attribuzione di inutili poteri commissariali ai sindaci) e persino alle singole istituzioni scolastiche, in mancanza di una chiara guida centralizzata e di precisi impegni politici e finanziari, ha portato a una situazione di caos gestionale che è diventata presto paralisi.

Scrivevamo che sarebbe servito dare avvio a un piano di impegni strutturali, per esempio nel campo dell’edilizia scolastica, ma si è preferito cianciare di lezioni nei musei, nei parchi, nei cinema senza fare nulla di concreto.

Quanto all’assunzione di nuovo personale, la Ministra Azzolina ha preteso di indire un pericoloso quanto inutile concorso per assumere in ruolo chi ne aveva già diritto per legge, che oggi si può solo sperare sia annullato verso una soluzione più ragionevole d’immediata immissione in ruolo dei precari.

Per quanto concerne la Didattica a Distanza, per la quale mi rifiuto di usare la locuzione Didattica Digitale Integrata, perché ciò presuppone appunto l’integrazione tra strumento digitale e insegnamento in presenza, che al momento è impossibile, è evidente che già da mesi il Ministero, in assenza di qualunque progetto valido, meditava un suo massiccio impiego almeno per le scuole medie superiori.

Questo è testimoniato da mille dichiarazioni rilasciate durante l’estate da esponenti del ministero, dall’obbligo per le scuole di inserirla nei PTOF, infine dalla stipula di un pessimo contratto integrativo degli insegnanti per la didattica digitale, sinora firmato solo dalla CISL, dalla CGIL e dall’ANIEF (l’associazione professionale di cui era attivista la Ministra Azzolina).

La verità è che il ritorno alla didattica a distanza, per le scuole superiori, era dato per scontato dal Ministero, in mancanza di spazi e di personale alla cui carenza non si è voluto porre rimedio.

Tuttavia, se nelle stanze del Ministero si dava per certo il ritorno alla didattica a distanza, nemmeno su questo punto è esistita una regia centrale che avviasse almeno la realizzazione di un adeguato strumento di gestione, vale a dire una piattaforma pubblica nazionale di cui le scuole possano servirsi.

Le scuole continuano così a usare, in nome dell’autonomia, cioè nel più completo caos decisionale, le piattaforme proposte dalla GAFAM[1], che lucrano su queste attività, s’impadroniscono di dati personali per utilizzarli ai propri fini commerciali e pubblicitari e impongono i propri software.

In pratica, la ministra Azzolina ha sprecato mesi preziosi e la scuola non ha fatto passi avanti da aprile a oggi. Non si è voluto avviare alcun progetto di riqualificazione della scuola pubblica e nessuna riflessione su decenni di obbrobri ormai palesi.

La pandemia richiama l’urgenza della fine della vergogna del precariato che costituisce non solo un oltraggio alla dignità dei docenti ma anche un limite alla qualità della didattica poiché ne riduce la continuità e fa perdere ogni anno settimane di scuola agli studenti. Inoltre è necessario avviare un grande progetto di edilizia scolastica in un paese in cui gli istituti sono alloggiati in edifici dalle condizioni troppo spesso precarie.

Ma ciò non è sufficiente poiché si deve anche riflettere sui guasti provocati dalla politica di aziendalizzazione delle istituzioni scolastiche seguita tra l’altro all’autonomia scolastica. Tale politica ha posto le scuole in competizione tra loro in una gara poco edificante per accaparrarsi studenti e finanziamenti, secondo criteri che hanno spesso poco a che vedere con la buona formazione del cittadino.

Tale politica ha anche scosso lo statuto professionale dei docenti, esposti ai ricatti commerciali e sottoposti a dirigenti-manager e non a coordinatori della didattica. Il rapporto con le imprese private ha condizionato, nelle scuole superiori, la didattica e la sperimentazione, con la riduzione del ruolo dei saperi a vantaggio dell’acquisizione di competenze immediatamente spendibili sul mercato del lavoro flessibile.

Tutto ciò ha indebolito il sistema formativo e aumentato le disuguaglianze tra regioni, città, scuole e infine tra i singoli studenti. Tali disparità non sono dovute solo alla didattica a distanza, ma quest’ultima le ha evidenziate e soprattutto accresciute.

Per questo, anche l’idea di un massiccio ritorno a questa modalità di didattica, che ormai è vista dal Ministero non solo come emergenza ma come prospettiva futura, non può non inquietare, perché è ben noto che essa tende ad aumentare il divario formativo e culturale dovuto alle differenze di classe.

Nella scuola si tratta quindi di riflettere su due piani. È evidente che siamo di fronte a un’emergenza immediata e che si prospetta una situazione drammatica, che potrebbe vedere gli studenti privati per mesi, forse per un intero anno scolastico, della vera scuola.

Però proprio per questo, è anche vero che i problemi posti dalla pandemia devono essere affrontati con una prospettiva di lungo termine, che restituisca centralità e impulso alla questione dell’educazione e della formazione nella nostra società, con il rilancio di un sistema nazionale unico e paritario di formazione che cancelli per sempre particolarismi ed egoismi regionali e locali.

Note:

1) Acronimo che raggruppa le più grandi società della rete: Google, Apple, Facebook, Amazon e Microsoft.

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12/11/2020

Una chiusura al giorno toglie il lockdown di torno...

Se guardiamo con occhio distaccato cosa stanno combinando governo, opposizione di destra e regioni (gran parte dell’azione della destra viene da lì), è difficile reprimere l’insulto che sale dal profondo.

Tutti dicono di non volere il lockdown completo, tutti lamentano che nei Dpcm sono state inserite misure “poco drastiche” prima di esser prese ma che diventano “esagerate” quando si decide di stringere una vite qua, un bullone là, un po’ a casaccio.

Di fatto, si va verso un lockdown morbidissimo per le aziende maggiori, molto duro per la popolazione, drammatico per le piccole attività commercial-turistiche (che non hanno alle spalle né grande liquidità, né un occhio di riguardo da parte delle banche, ma rappresentano una grande quota dell’occupazione reale, quasi sempre precaria o “in nero”).

Niente di nuovo rispetto a marzo-aprile, semmai qualcosa in meno. Anche a Palazzo Chigi avvertono l’insofferenza sociale per misure che distruggono la vita e i rapporti, ma che non servono a combattere il virus.

La “strategia” regional-governativa – al netto dei protagonismi individuali di mezze figure in campagna elettorale perenne – è quasi trasparente: evitare che esplodano gli ospedali, in primo luogo le terapie intensive e subintensive. Passato il momento critico, si cerca di tornare alla “normalità” il prima possibile...

Si tratta di interventi, insomma, fatti per “distanziare la fila”, per non superare i limiti, per “limitare il danno” o rinviare il collasso. Non per estirpare il coronavirus, ormai diffuso dovunque nel Paese.

È il risultato di una scelta fatta fin dal primo momento, in Italia, in Europa e nel resto del mondo occidentale: convivere con il virus, continuare con la produzione.

Ma se devono stare aperte le grandi aziende, oltre alla marea di attività indispensabili (alimentari, energia, rifiuti, sanità, ecc.), il traffico e gli assembramenti sono inevitabili. Dannosissimi, specie in una stagione in cui si deve stare in luoghi chiusi.

Non poteva funzionare, non ha funzionato, non funzionerà.

Con questa scelta governo e regioni hanno realizzato il disastro totale: il virus fa strage dappertutto (e non solo di “vecchietti non indispensabili allo sforzo produttivo”), e l’economia inchioda per la seconda volta in pochi mesi, moltiplicando i danni.

E continuerà così per molti mesi ancora, tra un allentamento natalizio a fini psico-microeconomici e una “terza ondata” dal peso imprevedibile, fin quando un vaccino non sarà disponibile nei quantitativi necessari per una popolazione di 60 milioni di abitanti.

E anche in quel caso, sentiremo addosso l’incredibile inefficienza di un sistema semi-privatizzato e regionalizzato in cui, in questo momento, mancano all’appello 15 milioni di dosi di vaccino antinfluenzale. Quello “normale”, di tutti gli anni, che si conserva quasi a temperatura ambiente e non ai -75°C della promessa di Pfizer.

Ma è quasi inutile prendersela con una classetta politica indecente – a livello regionale e nazionale – che prende decisioni sulla base delle telefonate che riceve dagli “imprenditori del territorio”, come avvenuto questa estate in Sardegna. Ma in Val Seriana, a marzo, non è che sia andata diversamente...

Perché, come andiamo ripetendo da mesi, la vera scelta non è tra “lockdown duro” e “lasciar perdere”, tra “allarmismo” e “nagazionismo”, ma tra il nulla attuale e il fare un lockdown serio il tempo necessario a testare tutta la popolazione, e poi isolare i contagiati fino a guarigione mentre si riprende a vivere normalmente.

Decidere chiusure temporanee e non fare un tubo per tracciare la popolazione significa solo rimandare il problema, alla “io speriamo che me la cavo”.

In tutto l’Occidente capitalistico le cose vanno però nello stesso modo, o anche peggio (Usa, Brasile, Regno Unito, Francia...). E allora il problema è di sistema, non del primo pirla che passa su una poltrona da cui si decide. O meglio: le decisioni vere sono prese da altri, non dalla “politica”.

E lo si capisce guardando gli Usa, la superpotenza mondiale dove un presidente in carica viene ormai quotidianamente censurato da media in mano a società private. Se lo merita, certamente, perché è un infame suprematista nazistoide. Ma non può passare in secondo piano il fatto che siano dei privati a silenziarlo, e non i “contrappesi di potere” tipici di ogni architettura istituzionale “democratica”.

Significa appunto che “il potere vero”, quello che determina decisioni e “svolte”, non sta più nel processo democratico e nei suoi riti.

Comanda l’impresa privata, non l’interesse pubblico.

Chiunque sia al governo, naturalmente.

Tutt’altro accade in quelle “dittature” così crudeli da porre la salute dei propri cittadini al di sopra della “libertà delle imprese”. E che – ma guarda un po’ che strano – ottengono due risultati completamente opposti: il minimo di contagiati e morti, il massimo di crescita economica dopo un semestre di recessione.


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07/11/2020

La battaglia contro il Covid si vince “prima” di arrivare in ospedale

Come noto, io faccio attività sindacale, politica e scientifica, ma sono soprattutto un Medico che vive tutte le difficoltà del momento legate all’epidemia, già vissute nella prima ondata, e che si stanno ripetendo nella seconda ondata per i pazienti e per tutti gli operatori sanitari. La nostra voce purtroppo rimane inascoltata ancora oggi, e questo, mi permetta è inaccettabile.

Personalmente oltre un mese fa, alla data del 21 Settembre, ho detto che la seconda ondata era arrivata e noi tutti, ancora una volta ci siamo trovati impreparati a dover sopperire alle carenze organizzative del Servizio Sanitario Nazionale e dei vari Sistemi Regionali.

Eppure siamo noi operatori che garantiamo la Salute, in condizioni difficili, stressanti, e con mancanza di rispetto dalle stesse Istituzioni. Siamo stati definiti eroi, ma da “eroi”, ”angeli”, in un attimo si è passati all’insulto, se non addirittura alla denuncia perchè le persone facilmente scambiano le responsabilità che sono tutte in capo alla politica, con la responsabilità degli operatori sanitari, che fanno quello che possono, ben oltre il loro dovere, mi creda, con quello che hanno a disposizione, che è soprattutto il loro “sapere”. Questo ovviamente riguarda tutti gli operatori, nessuno escluso, dagli ospedalieri, agli specialisti ambulatoriali, ai Medici di Medicina Generale, agli infermieri e OSS.

Un capitolo a parte merita il 118. Come vicepresidente area Centro-Italia, di una società Scientifica quale è la SIS 118, vorrei sottolineare poi che il nostro sapere di “ambulanzieri” come qualcuno si ostina a definirci, senza precisare che siamo professionisti con tanto di specializzazione, è quanto mai concreto, noi siamo coloro che arrivano ovunque, laddove altri non arrivano o non vogliono arrivare, siamo quelli che entrano nelle case delle persone, siamo quelli che hanno un contatto stretto coi pazienti, sempre, in condizioni difficili e siamo chiamati spesso a risolvere situazioni a dir poco imbarazzanti, oltre a quelle per cui siamo nati come 118.

Il Sistema 118 doveva essere la quarta gamba del Servizio Sanitario Nazionale, doveva servire da cerniera fra Ospedale e territorio, doveva garantire la tempestività d’intervento nelle patologie Tempo-Dipendenti, e ora, oltre a tutto ciò che ci è stato chiesto di fare negli anni (TSO, Constatazioni di Decesso, Liti familiari, codici verdi trattabili a domicilio a qualsiasi ora del giorno o della notte), siamo stati coinvolti a pieno regime nell’Epidemia da Sars2-Covid-19 e noi non ci siamo tirati indietro, anzi.

Eppure tutti i nostri sforzi, tutto il nostro sapere, viene vanificato riducendoci a meri esecutori di ordini calati dall’alto. Non veniamo mai convocati per ascoltare il nostro parere, il nostro Presidente Nazionale Mario Balzanelli ha proposto per primo, tramite i media, l’uso di un saturimetro gratuito per monitorare la Saturazione dei pazienti sospetti a domicilio, adesso a distanza di mesi ne parlano tutti, come elemento necessario per valutare i primi sintomi respiratori. Abbiamo presentato al Senato, grazie alla Senatrice Castellone del M5S, delle proposte ben precise sul riordino del 118, ma il disegno di legge è fermo, pur trovando appoggi trasversali, quali quelli dell’Onorevole Fassina alla Camera, dove ha cercato di incardinarlo in calendario. Nel contempo però tutti hanno voluto dire la loro su tale proposta e sono in genere persone che non hanno mai lavorato in strada, ma che pretenderebbero di governare il Sistema.

Abbiamo partecipato alle discussioni cliniche e scientifiche nel “gruppo dei 100.000 medici” con nostre proposte, e in quella occasione almeno il Ministro Speranza ha risposto, devo riconoscerlo... Ma intanto noi stiamo sempre in prima fila a soccorrere le persone e fra queste soprattutto le persone “fragili” che stanno nelle RSA/Case di Riposo, dove ci si chiede di portarli in Ospedale, anche contro il loro parere, appena risultano positivi ad un tampone, pur essendo asintomatici o paucisintomatici.

Ma non sarebbe più semplice attrezzare la RSA con stanze di isolamento, o addirittura interi piani di isolamento, con equipe Medico-Infermieristica e personale ausiliario h24, adatto a seguire i pazienti stessi, in quella che ormai, volente o nolente queste persone considerano la loro “Casa”? La violenza di un ulteriore strappo alle loro già fragili radici, deontologicamente è inaccettabile.

Così come è inaccettabile che stiano ore e ore sulle nostre barelle, per mancanza di posti letto e di spazi in Ospedale, assistiti dal personale del 118, che oltretutto rimanendo bloccati col paziente a bordo, non possono andare a soccorrere altre persone, per altre patologie (che non sono miracolosamente scomparse, ma che esistono e si rischia di non arrivare in tempo) come si è verificato in questi giorni, in tutta Italia.

Ecco, “l’uovo di colombo”, tutto il personale medico-infermieristico-ausiliario, che si è generosamente offerto per fare le USCA, potrebbe in parte essere deviato ad assistere i pazienti nelle loro “Case”, oppure si potrebbe utilizzare tutto il personale dichiarato “non abile” al Servizio attivo al 118, riservando un eventuale trasferimento in Ospedale solo ai casi gravi.

Tutti ormai sanno e sostengono che il trattamento precoce per bloccare la cascata infiammatoria abnorme scatenata dal virus, si può fare al proprio domicilio, l’importante è riconoscerlo, indipendentemente dall’esito del tampone, che magari arriva tardi, e il riconoscimento della fase precoce attiene prettamente alla clinica.

Non mi stancherò mai di ripeterlo ed esorto i miei Colleghi tutti ad esercitarla la Cinica Medica, l’abbiamo studiata tanto, la pratichiamo tanto, abbiamo il polso della situazione, ma sempre dall’alto ci viene calato tutto, adesso è ora di ascoltare l’esperienza di chi vive insieme ai pazienti tutti i disagi non solo di questa epidemia, ma anche derivanti dalla carenza di organico, di posti letto, di territorio lasciato allo scoperto, di dipartimenti di Igiene e Prevenzione, pressoché scomparsi, di 118 che non è composto di semplici “ambulanzieri”.

di Francesca Perri, Dirigente Medico 118, Vicepresidente Area Centro Italia SIS 118, tavolo salute di Potere al Popolo

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25/10/2020

Déjà vu

Unire la prevenzione medica per il Covid-19 e la cura degli interessi economici, evitando il confinamento in casa e la chiusura della scuola e di molte attività economiche, sembra impossibile. L’indisciplina che si propaga sempre più ampiamente tra la popolazione restia ad attenersi alle misure di prevenzione virale, una tra tutte l’obbligo di indossare la mascherina full time, viene percepita come una restrizione alla propria libertà individuale. Ad essa si somma l’aumento della povertà che, rispetto ai mesi passati, risulta ancora più grave. Il rischio è quello di vedere aumentare la conflittualità sociale. L’incapacità e l’immobilismo della leadership di governo a gestire la situazione, lasciando il paese il balia dei vari opportunismi politici, è palese. Troppi i mesi buttati al vento senza far nulla e ora ci risiamo.

La linea attendista, nella speranza che la divina provvidenza salvasse l’Italia dalla seconda ondata epidemica, è stata un chiaro fallimento per il premier Conte che è corso ai ripari con un altro ennesimo DPCM fatto di soli divieti e senza ristoro alcuno per chi è già da mesi alla canna del gas con il lavoro. Di fatto sono stati bruciati gli effetti di due mesi di confinamento domiciliare privo di violenza e sommosse, ottenuti fortunatamente, senza il ricorso all’esercito. L’illusione tutta estiva di essere usciti dal tunnel virale, si è schiantata contro il virus risorto in autunno. I comportamenti virtuosi di buona parte della popolazione ligia al rispetto della profilassi anti contagio sono serviti a poco.

Certamente il lassismo mostrato troppe volte verso chi, a scapito degli altri, le regole non le rispettava, ha influenzato la diffusione del virus. Una specie di forma di alterazione, permanente o temporanea delle facoltà mentali, un delirio di onnipotenza e di immortalità o più semplicemente di incoscienza dalle nefaste conseguenze, ha caratterizzato i comportamenti della movida.

Ma se per un momento si lascia da parte quello che tutti hanno visto sulle spiagge, nelle piazze, nelle discoteche, negli aeroporti e porti, non si può non nascondere la situazione di gravissima lentezza, incompetenza, inefficienza, di pessima organizzazione, di stupida burocrazia di cui ha dato evidente dimostrazione tutta la classe politica nella gestione dell’emergenza. Dai vuoti e strumentali soliloqui di Salvini, alle considerazioni in doppio petto della Meloni, passando dalle guerre fratricide nei M5S, fino alla rassicurante tonda facciona di Zingaretti, sempre sorridente nonostante il doppio mandato di segretario nazionale PD e governatore del Lazio. Il risveglio del virus era cosa arcinota e attesa. Ma questa volta il richiamo alla solidarietà, alla coesione, all’unità serviranno a poco a fronte di tanta dimostrata inefficienza e di grave situazione economica in cui versa una buona parte del paese senza sostegno alcuno da parte del governo. La seconda ondata non si poteva fermare ma si poteva contenere senza ricadere nel deja vù dei reparti ospedalieri chiusi per covid-19, dei medici e infermieri che si infettano, delle strutture territoriali al collasso e di tutte le altre cose che si dovevano fare e non si sono fatte.

A tutt’oggi non è ancora efficace il servizio di gestione domiciliare di USCA (unità speciale di controllo assistenziale per covid-19) in grado di assistere le persone in quarantena e diminuire la pressione sulle strutture ospedaliere. I reparti di terapia intensiva in diverse città sono già al collasso in quanto non si sono potenziati adeguatamente. Continua a mancare personale medico e paramedico e strutture ospedaliere covid-free per gli altri malati, troppo spesso sacrificati al virus. Le assunzioni oltre che non essere state omogenee sono servite solo a coprire buona parte dei turn over. I trasporti non sono stati ponderati sul cronotipo delle varie necessità territoriali e cittadine considerando l’apertura contemporanea sia delle attività produttive sia delle scuole.

I soldi previsti lo scorso giugno per la sanità non sono stati per buona parte ancora spesi e comunque, anche se lo fossero stati, sono chiaramente insufficienti per una sanità ridotta a livello di sussistenza dalle politiche di contenimento della spesa pubblica. La scena delle chilometriche file di auto in attesa di tampone, testimonia lo stato dell’arte in cui ci troviamo. Per la scuola poi si è svolta nei mesi estivi una battaglia stupida sui banchi con ruote o senza ruote, del mantenimento della distanza bocca-bocca, delle mascherine da tenere o no in classe che, se non fosse drammaticamente tragica per le ricadute in termini di qualità e quantità del servizio scolastico e di diritto allo studio, rasenta il ridicolo.

Ad oggi nella scuola si continua a lavorare come prima, con le classi ancora troppo affollate, con turni doppi e lezioni fatte in qua e là nei fondi di negozio in affitto, senza nessuna uniformità organizzativa territoriale, per cui ogni regione alla fine, adotta quello che ritiene più opportuno a seconda dei tassi di contagio. L’offerta scolastica oltre che molto pasticciata e confusa non è per tutti uniforme.

Poi le favole sul virus decantate da vari virologi showman che si lanciavano in ottimistiche e iperboliche interpretazioni sul progressivo rincoglionimento del virus per l’arrivo della calda estate hanno legittimato un generalizzato abbassamento della guardia. Poi di tutto e altro ancora.

Oggi purtroppo si rivivono le esperienze passate in questo inverno e in primavera ma con una differenza: non si può ritornare a bloccare tutto il paese se non vogliamo scivolare definitivamente negli abissi della povertà e della rivolta popolare e fare la fine della povera Grecia. Dobbiamo invece cominciare a fare meno DPCM e più fatti. I cervelli sani in Italia ci sono, occorre solo farli parlare e dargli dignità politica. Basta con le ciance.

Occorre passare all’azione con determinazione e unione, con poteri di intervento immediato e libertà di spesa. Oggi, in tempo di virus ognuno di noi è torchiato da un continuo bombardamento mediatico di immagini, simboli, miti e complotti che premono sulle nostre identità sempre in bilico e alla continua ricerca di sponde stabili dove poter poggiare i piedi. Non ci faccia quindi specie se si affaccia il volto della ribellione sociale e della rivolta giovanile alle regole di profilassi medica. Sono i vincoli imposti dall’alto senza contropartita, senza servizi, senza assistenza, senza mediazione che vengono percepiti estranei.

La violenza e la rabbia sono i sintomi, non la causa di un malessere profondo che attesta l’esistenza di un vuoto da colmare, da riempire di contenuti che non possono essere certamente quelli proposti dalla civiltà dei consumi di massa e dello sfruttamento generalizzato in favore di pochi. Non basta la condanna, per altro scontata contro qualsiasi forma di violenza. Occorre focalizzare le cause del malessere e porvi, se possibile, rimedio.

Certamente l’ampia zona di tolleranza espressa dalle istituzioni fino a ieri verso i comportamenti che non rispettavano le regole di prevenzione non aiuta. Indubbiamente la responsabilizzazione delle nuove generazioni, da sempre ribelli verso i propri padri e madri, non si crea in una notte, ma testimoniando nel tempo con fatti e comportamenti concreti la bontà e l’utilità del rispetto delle regole anche di prevenzione medica.

Purtroppo, troppi sono stati i cattivi esempi messi in essere negli anni da chi doveva dare il buon esempio e la politica nostrana non ha certo dato negli anni una buona prova di sé, né tanto meno gli altri corpi e istituzioni dello stato e della società civile. Inoltre la globalizzazione azzerando diritti, tutele, servizi, antichi rituali, stati nazione, famiglia, sradicando popoli spingendoli ad immigrare, ha creato un contenitore propizio ad un ritorno reazionario e conservatore. Questo grazie anche alla notte perenne in cui è calata la sinistra che crea un senso di vuoto nelle classi popolari private di un’adeguata rappresentanza politica che ne curi gli interessi e le tutele.

È avvenuto un rovesciamento di valori, sono risorti miti e simboli che usano il caos, l’odio, la paura, la rabbia per ricostruire identità spesso xenofobe e offrire false risposte. Ma attenzione! Le nuove novelle ed il vuoto morale che gli fa da ombra, prodotto e sviluppato dal nuovo sistema produttivo che impone le nuove regole nel gioco dello sfruttamento di massa e della natura, ci impone l’obbligo di cercare di comprendere quali sono i veri dispositivi che producono senso, cultura, motivazioni, egemonia e dove si nascondono, che forma e che maschere hanno, chi li dirige, dove prendono vita e forma i nuovi centri di potere. Allora, forse, sarà molto più chiaro chi è il vero avversario a cui opporsi con tutte le nostre forze e poter così calibrare una strategia di resistenza per un futuro migliore.

Intanto Napoli ribolle contro il lockdown imposto dallo sceriffo di turno e in Val d’Aosta folle desiderose di neve e divertimento si addensano a Cervinia incuranti dell’alto tasso di positivi (50%) della regione, mentre il sistema sanitario ha il respiro sempre più corto.

Fonte

22/10/2020

Fuori controllo

In questi giorni sentiamo ripetere da varie fonti ufficiali (Micheli del Ministero della Sanità) che la situazione in regioni come Lombardia, Campania e Lazio è ormai “fuori controllo”.

Il presidente del Comitato Tecnico Scientifico, prof. Miozzo, ammette che “quando vedo le immagini di persone 8-10 ore in coda al drive-in per fare il tampone ho la sensazione che la risposta alla domanda sia drammaticamente negativa. Non abbiamo fatto tutto quello che avremmo dovuto fare. Non possiamo più perdere tempo, stiamo entrando in una fase estremamente critica”.

Da giorni la Fondazione Gimbe, che elabora numeri e modelli matematici, ci segnala che i contagi e i decessi da Covid 19 sono raddoppiati nella settimana dal 14 al 20 ottobre, che i ricoveri in terapia intensiva sono a +69% e i ricoveri con sintomi a +66%. Il rapporto positivi/casi testati è passato dal 7% al 10,9%.

Non solo. Secondo queste elaborazioni, l’argine del tracciamento del virus è saltato e i provvedimenti presi nei due Dpcm del Governo prima e dalle Regioni dopo sono insufficienti e tardivi rispetto al trend di crescita della curva epidemica. Secondo la Fondazione Gimbe servono immediatamente misure di contenimento più rigorose nelle aree a maggior diffusione del contagio, per evitare un nuovo lockdown generalizzato.

È questo il tormentone che sentiamo ripetere continuamente, e a questo punto colpevolmente. “Bisogna fare di tutto per evitare un nuovo lockdown”, diventato una sorta di incubo e di parola sbagliata, soprattutto per Confindustria e i membri più compromessi con il “Partito Trasversale del Pil”, che hanno più a cuore il fatturato che la salute pubblica.

Costoro preferiscono continuare a ricorrere a palliativi – con aspetti anche odiosi, come il coprifuoco nelle ore serali e notturne – pur di mantenere gli assembramenti su mezzi pubblici e luoghi di lavoro, continuando a negare il peso che hanno questi fattori sulla diffusione del virus.

Il risultato di questa “strategia” è, appunto, che la situazione è andata fuori controllo, perché si è intervenuti solo su alcuni fattori – spesso marginali – e non su tutti.

Eppure, in altra parte del giornale, abbiamo pubblicato una analisi del Fondo Monetario Internazionale che dice – in merito all'impatto dei lockdown sulla ripresa economica – cose ben diverse da quelle che sentiamo starnazzare in ogni telegiornale.

Quei feroci cani da guardia del neoliberismo, infatti, arrivando a sostenere che dei “lockdown ben gestiti e programmati” sono condizione indispensabile proprio per essere pronti al meglio a cogliere la ripresa dell’economia nella fase postpandemica. Spiegano che il “capitale umano” è il fattore fondamentale. Marx direbbe che è l’unico fattore a poter generare plusvalore, o “valore aggiunto”…

I paesi che hanno adottato questa linea – Cina su tutti – sembrano quelli meglio preparati a misurarsi con la ripresa. Anzi, stanno crescendo già ora, mentre qui si oscilla tra chiusure e panico.

Alcuni lettori ci rimproverano, a volte, dicendo: parlate bene e criticate sempre, ma voi cosa avreste fatto e cosa fareste in questa situazione?

Una attenta lettura degli articoli che abbiamo pubblicato nei primi mesi della pandemia permette di notare come alcune indicazioni le avevamo già messe nere su bianco: fare subito la zona rossa solo in Lombardia e nelle aree più colpite del nord; ricorrere massicciamente ai tamponi sulla popolazione per tracciare lo stato effettivo della diffusione del virus – come spesso hanno ripetuto gli scienziati più assennati, come Crisanti e Galli –; organizzare le risorse economiche per sostenere lavoratori e operatori danneggiati dal blocco delle attività; non cedere all’arroganza criminale di Assolombarda prima e Confindustria poi (con Carlo Bonomi passato da una presidenza all’altra...).

Ma questo è il passato. Adesso siamo in una situazione estremamente critica – fuori controllo appunto – e sulla quale pesa maledettamente il tempo perso non utilizzando i mesi di “tregua” della pandemia per agire in profondità sulla sanità territoriale, il tracciamento di massa tramite i tamponi, la pianificazione dei trasporti pubblici e degli orari delle attività.

Nella discussione pubblica, nella politica e nella interlocuzione con le forze sociali, ancora una volta si è dato più ascolto a Confindustria che agli allarmi che arrivavano dai territori e dalle strutture sanitarie.

Che fare dunque in una situazione nuovamente di emergenza e sotto certi aspetti più carogna di quella di marzo/aprile?

1) Preparare la logistica necessaria (anche requisendo il materiale indispensabile) per sottoporre a test affidabili tutta la popolazione di questo paese (tamponi, reagenti, macchine personale medico, infermieristico e tecnici di laboratorio);

2) Programmare un periodo, il più breve possibile, di lockdown totale (dipendente dalla preparazione precedente) e procedere ai tamponi di massa;

3) Rafforzare le strutture della sanità territoriale (dalle Usca agli ambu-Covid, all’aumento dei medici di famiglia). E questo significava prima e significa ancor di più adesso assunzioni di personale, medico e infermieristico; ma anche precettare per il periodo necessario il personale medico della sanità privata (“ognuno deve fare la sua parte”, no?);

4) Subito dopo la fase di test, i contagiati vengono messi in quarantena, com’è ovvio, e si predispongono controlli scientifici seri su ingressi e uscite dalle frontiere; tutto il resto della popolazione riprende a vivere e lavorare e divertirsi con un briciolo di attenzione, ma abbastanza liberamente;

5) Sulla base dei dati e delle esperienze accumulate nel precedente lockdown, stanziare le risorse (anche a deficit) per consentire rapidamente a lavoratori e operatori di resistere nei periodi di chiusura.

È fantapolitica? No è realismo, perché se la situazione è fuori controllo continuare a mettere pezze rischia seriamente di ipotecare il futuro.

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15/10/2020

Il nuovo Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri alla luce dei numeri

Il 13 agosto i “contagiati del giorno” erano 523, la percentuale di tamponi positivi era l’1%, le persone in terapia intensiva 55, le persone ricoverate 786, i morti 6

Il 3 settembre i contagiati erano 1397, la percentuale di tamponi positivi l’1,5%, le persone in terapia intensiva 120, le persone ricoverate 1505, i morti 10

Il 23 settembre i contagiati erano 1640, la percentuale di positivi l’1,6%, le persone in terapia intensiva 244, le persone ricoverate 2658, i morti 20

Il 13 ottobre i contagiati sono stati 5900, la percentuale di tamponi positivi il 5,2%, le persone in terapia intensiva 514, i ricoverati 5076, i morti 41

Questa grossolana interpolazione in quattro punti ci dimostra che i numeri principali che restituiscono il quadro clinico della pandemia nelle attuali condizioni di contenimento hanno un andamento esponenziale che con lievi oscillazioni raddoppia ogni venti giorni. Ovvero il numero di persone in terapia intensiva, il numero di ricoverati, il numero di persone decedute raddoppiano ogni venti giorni!

Una situazione che ci porterebbe a fine novembre ad un numero di morti quotidiano già dell’ordine delle centinaia di persone, a un numero di ricoverati per covid nell’ordine di ventimila, a un numero di persone in terapia intensiva dell’ordine di duemila. A fine novembre avremmo cioè lo stesso quadro clinico sanitario di fine aprile (lascio stare l’aspetto dei tamponi perché sappiamo che allora era maggiormente sottostimato). Per la fine di dicembre avremmo un quadro tragico e simile ai momenti di picco della pandemia nell’aprile scorso e un sistema sanitario vicino al collasso malgrado l’aumento di posti letto e terapie intensive attuato dalle regioni. Anche perché a differenza di marzo-aprile scorso ora ci sono più epicentri dell’epidemia e non solo la Lombardia.

A quel punto, con i mesi più freddi che devono ancora arrivare, un pieno lockdown, sempre che non sia stato già decretato, sarebbe inevitabile. Cosa che con buona pace dei complottisti questo sistema economico-politico vuole scongiurare perché economicamente e politicamente ormai quasi insostenibile.

Le cose potrebbero però peggiorare anche più velocemente per il terzo indice che ho considerato: la percentuale di tamponi positivi sul totale è aumentata lentamente fino al 20 settembre per poi triplicare negli ultimi venti giorni!

Questo significa evidentemente che col ritorno alla nostra vita metropolitana ordinaria, scuole, trasporti, luoghi di lavoro... la circolazione del virus si è molto velocizzata ed il nostro sistema di tracciamento e contenimento non riesce a stargli dietro.

A dimostrazione che forse il problema non era solo la “movida”...

È chiaro che la mancanza di riaperture differenziate durante il lockdown e poi la stagione turistica ci hanno impedito di diventare covid-free e la seconda ondata è ripartita dal trampolino dell’estate che doveva invece “asciugarla”.

Tutte queste pillole di pessimismo per dire che sicuramente si deve fare qualcosa.

Il punto però è che ancora una volta il Dpcm vede solo il dito dei comportamenti personali (pianificati in teoria fin dentro al cesso di casa) ma dimentica la luna dell’organizzazione sociale e delle risorse per garantirla. Cosa è stato fatto, cosa si sta facendo:

a) per mettere in sicurezza i corridoi di accesso delle Rsa per anziani e in generale per decongestionarle;

b) per impedire che il contagio arrivi negli ospedali, attrezzando sempre percorsi separati, triage esterni e magari ospedali dedicati;

c) per moltiplicare il numero di test, specie su determinati gruppi sociali (penso ad esempio agli studenti). Per implementare la capacità e soprattutto la velocità del tracciamento (su questo altro che “immuni”, proprio le tanto decantate esperienze cinesi e coreani dimostrano che occorreva assumere centinaia e forse migliaia di persone per svolgere questo compito in maniera efficiente senza puntare solo a spremere il personale delle Asl già esistente). Diagnosi tempestive, ormai lo abbiamo imparato, sono fondamentali sia sul piano epidemiologico sia su quello clinico;

d) per coinvolgere più e meglio la medicina di territorio che è stata latitante anche perché disorientata, senza indicazioni e senza strumenti di protezione nella prima fase della pandemia. Per non dire del fatto che mi pare manchino ancora dei veri protocolli terapeutici domiciliari per le persone pauci-sintomatiche;

e) rispetto all’organizzazione dei trasporti, alle strutture scolastiche, ai controlli sulle situazioni lavorative, alle tecnologie di sanificazione ecc. che si ritrovano nelle stesse condizioni deficitarie e promiscue di prima;

f) last but not least per una campagna di informazione e sensibilizzazione intelligente, pianificata e non terroristica nè affidata alle invenzioni e alle speculazioni elettorali di guitti e ducetti locali;

g) per sostenere economicamente le famiglie e persone in quarantena, soprattutto quando appartengono ai ceti più deboli della società, dissuadendole cosi dal violarla per necessità;

Per non dire più in generale del problema del sostegno dei redditi delle fasce deboli dentro questa crisi e del baratro che ci aspetta sul fronte dei tassi di disoccupazione e del diritto alla casa appena finirà il blocco degli sfratti. È evidente che solo una patrimoniale poteva probabilmente consentire una vera pianificazione della fase due.

Tengo fuori contraddizioni ancora più basilari del sistema come il problema di mettere in discussione l’intangibilità dei brevetti quando uno dei pochi antivirali che si stanno dimostrando efficienti (il remdesivir) è stato quasi monopolizzato ad uso interno dagli Stati Uniti. Perché qui andremmo purtroppo nella fantascienza.

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03/09/2020

Scuola: tutti i governanti sono colpevoli

La scuola è chiusa da sette mesi e le condizioni e persino i tempi della sua riapertura sono ancora nella totale incertezza.

Perché MANCANO insegnanti, tecnici, bidelli, servizi, aule presìdi sanitari, trasporti, organizzazione, informazione a studenti e genitori. E persino i tamponi mancano ancora.

Tagli di anni hanno distrutto la scuola pubblica come la sanità e la riapertura dell’anno scolastico sarebbe stata un macello anche senza il Covid. Però ci sono stati sette mesi per pensarci e darsi da fare e invece siamo ancora all’improvvisazione d’emergenza.

Mentre i guasti di fondo di vent’anni di “riforme” liberiste della scuola non vengono affrontati.

Mentre comincia la vergognosa caccia all’insegnante assenteista, quando i nostri docenti, causa Fornero, son i più anziani d’Europa e mancano all’appello centinaia di migliaia di assunzioni.

Man mano che si avvicina la data della riapertura ricomincia il rimpallo di responsabilità tra governo e giunte regionali, esattamente come sulle mancate “zone rosse”, sull’apertura delle discoteche, su tutta la gestione sanitaria.

La verità è che il sistema italiano è fondato sul potere consociativo di governo e regioni e dopo sette mesi in cui dovevano predisporre la ripresa della scuola, da Conte a Bonaccini, da Fontana a De Luca, sono TUTTI egualmente colpevoli del caos che si annuncia.

Caos che purtroppo costringerà personale scolastico, studenti, genitori ad arrangiarsi e magari poi a sentirsi dire che sono eroi.

Dopo sette mesi non ci sono giustificazioni per tutta la classe politica di governo, comunque schierata, che ancora una volta mostra tutta la propria indecente incapacità ad affrontare la crisi.

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29/08/2020

Riaprire scuole e università: mille dubbi, nessuna certezza

A una settimana dalla fine di agosto, una delle poche certezze che si ha è che la breve estate avuta è in procinto di chiudersi. Una ovvietà che molti vorrebbero non fosse poi vera. Invece, ciò che si vorrebbe sapere per certo ma, purtroppo, non si conosce è cosa succederà nel mondo dell’insegnamento e della ricerca a partire dalla metà di settembre, per le scuole, e dalla fine di settembre-inizio di ottobre per le università italiane. Non che manchino linee guida o proposte su come ripartire, ma l’impreparazione in certi casi e, soprattutto, l’incertezza della crisi sanitaria in altri rendono impossibile dare un quadro chiaro della situazione che si prospetterà.

Partiamo dalla scuola: il Ministero dell’Istruzione si è premurato di aprire una sezione apposita in cui spiegare, sulla base di documenti ministeriali e indicazioni sanitarie, come avverrà il rientro a scuola[1]. Rientro considerato come un elemento importante dalla stessa ministra Azzolina, la quale ha dichiarato a suo tempo: «Siamo al lavoro da mesi per il rientro a scuola di tutte le studentesse e di tutti gli studenti. È una priorità assoluta del Governo perché è una priorità di tutto il Paese. Dal primo settembre le scuole apriranno per chi è rimasto più indietro. Dal 14 riprenderanno ufficialmente le lezioni». Innanzitutto, nel piano di ripresa delle lezioni, viene richiesto alle famiglie di misurare la temperatura a casa ai propri figli: un gesto utile che previene «la possibile diffusione del contagio […] nel tragitto casa-scuola, sui mezzi di trasporto, quando si attende di entrare a scuola, o in classe»[2], oltre a evitare, riprendendo quanto espresso da Azzolina, che con scuole di migliaia di alunni a misurare la temperatura all’ingresso si creerebbero file della durata di ore all’entrata[3]. Ciò, se può esprimere in parte un ragionamento di buon senso – il tragitto da casa a scuola, specie nei luoghi pubblici, può certamente trasformarsi in un luogo di diffusione del contagio – non evita le critiche di chi, dal mondo scientifico, evidenzia la necessità anche di strumenti, come i termoscanner, che permettano di avere una valutazione della temperatura uguale per tutti gli studenti e non lasciata esclusivamente all’azione delle singole famiglie[4].

L’altro punto saliente, al di là dell’entrata, è la presenza effettiva in classe. Il ministero ha puntato a garantire la presenza fisica degli alunni, al punto da affermare: «si tornerà in classe e il servizio scolastico sarà erogato con le lezioni in presenza. La didattica digitale potrà essere utilizzata in modo complementare e integrato solo nella scuola secondaria di secondo grado […]. Solo in caso di una nuova sospensione delle attività in presenza, dovuta a motivi emergenziali, si renderà necessario il ricorso alla Didattica digitale integrata per tutti gli altri gradi di scuola»[5]. La ripartenza in aula tuttavia richiede il rispetto di determinate misure di sicurezza, quali soprattutto il distanziamento di almeno un metro fra i banchi di scuola, come previsto dal Comitato Tecnico Scientifico. L’evitare classi pollaio sovraffollate richiede tuttavia, ovviamente, una diminuzione del numero di alunni per classe e, di conseguenza, la ricerca di ulteriori spazi – e insegnanti – per garantire le attività didattiche. Si tratta di un problema enorme – quello dell’edilizia e degli spazi scolastici, divenuto negli anni sempre più problematico ed ormai endemico del sistema scolastico nazionale, espressione di una tendenza di lungo termine di continui tagli ai finanziamenti per la scuola e di trascuratezza degli edifici adibiti all’insegnamento. L’anno scorso, uno studio pubblicato dal Sole 24 Ore ipotizzava, solo per rinnovare e sistemare gli edifici attualmente utilizzati, un costo di circa 200 miliardi di euro[6], una cifra enorme rispetto ai 6 miliardi stanziati quest’anno per la scuola (di cui 2,9 miliardi specificatamente per «edilizia scolastica, arredi, assunzioni di docenti e ATA, igienizzanti e tutto quello che servirà per la ripresa»[7]).

Di fronte a questo, il Ministero ha promosso, nel caso della scuola secondaria di secondo grado, l’utilizzo complementare della didattica a distanza in un quadro generale poco chiaro che rischia di creare notevoli diseguaglianze nell’insegnamento nelle diverse zone del paese e tra scuola e scuola.
Ancora una volta nei documenti ministeriali si fa leva sull’autonomia scolastica come mezzo di flessibilità, che da sempre è sinonimo di differenziazione dei livelli d’istruzione. Saranno, infatti, le singole scuole a decidere possibili metodi per affrontare l’emergenza (una riconfigurazione del gruppo classe in più gruppi, una frequenza scolastica in turni differenziati, una diversa modulazione settimanale del tempo scuola, ecc.[8]). Il governo scarica dunque sulle singole scuole la necessità di provvedere alla gestione della riapertura coprendo con la retorica dell’autonomia scolastica l’assenza di un vero piano nazionale per la ripartenza delle lezioni.
Se nel mondo della scuola vi è la ricerca, per quanto possibile, dell’insegnamento in presenza, le università italiane si sono mosse in direzione della didattica mista: promuovere l’insegnamento sia in presenza sia in via telematica, chiedendo direttamente quali studenti preferiscono essere in aula e quali a casa e organizzando una turnazione delle presenze ove necessario. Una soluzione – la didattica mista – resa necessaria se si vuole garantire il distanziamento minimo di un metro: già da anni si denuncia il sovraffollamento delle aule universitarie, che già negli anni passati mostravano evidenti problemi di capienza, al di là di necessari interventi di ristrutturazione in alcuni casi[9]. Anche in tal caso, ci si trova di fronte ad una pezza appiccicata su un sistema universitario colpito da continui definanziamenti negli anni. Pezza che pone numerosi dubbi: si può veramente garantire la stessa offerta a chi è presente in aula e chi lavora da casa? L’accesso alle biblioteche e ai laboratori non sarà reso più difficoltoso per chi lavorerà telematicamente? Su quest’ultima domanda va aggiunta la riflessione per cui molti alunni fuori sede, di fronte alla possibilità di lavorare telematicamente, preferiranno starsene a casa e non pagare l’affitto, con la difficoltà però di accedere alle strutture del proprio ateneo. Inoltre, come verrà affrontata la questione della tassazione universitaria? Se alcuni alunni usufruiranno ben meno delle strutture di ateneo rispetto ad altri o non saranno totalmente presenti, ci sarà qualche riduzione o adeguamento delle tasse? Su questo tasto dolente, molte università non hanno dato una risposta fino ad ora o si sono mosse in modo limitato – come, ad esempio, l’Università statale di Milano, che ha innalzato la no tax area da 14.000 a 20.000 euro e ridotto la tassazione (con previsto risparmio di 450 euro sulla seconda rata) per chi ha un ISEE inferiore a 75.000 euro[10].
Sia sulla scuola sia sull’università, al di là delle singole misure varate o proposte in vista della ripresa, rimane poi il dubbio più grande: come ci si ritroverà a settembre-ottobre con l’emergenza sanitaria. Se la crisi dovesse ripresentarsi ancora con forza, potrebbe diventare necessaria, in assenza di soluzioni alternative, una nuova chiusura degli edifici e la ripresa con forza della didattica a distanza, con tutte le difficoltà che essa porta rispetto alla didattica in presenza.
Questa rischiosa eventualità dovrebbe evidenziare l’importanza di arrivare all’apertura delle scuole col minor numero di contagi, affinché i giovani non solo diventino un mezzo di diffusione del contagio, ma abbiano garantito il diritto all’istruzione. Il modo confuso con cui si è mosso il governo, sotto le pressioni del mondo economico e industriale, per affrontare l’emergenza sanitaria nel periodo estivo[11] ha tuttavia mostrato come, purtroppo, per quanto si parli spesso dei giovani come la migliore arma per un futuro migliore, essi siano invece sempre fra le prime categorie lasciate inascoltate e trascurate.

Francesco Pietrobelli

Note:

[1] https://www.istruzione.it/rientriamoascuola/index.html.

[2] https://www.istruzione.it/rientriamoascuola/domandeerisposte.html.

[3] https://www.corriere.it/scuola/primaria/20_luglio_20/rientro-scuola-settembre-2020-azzolina-la-febbre-si-misura-casa-c90c4f86-ca70-11ea-b15c-cd9b33ddf899.shtml.

[4] https://www.lastampa.it/topnews/primo-piano/2020/08/21/news/bufera-sulla-misurazione-della-temperatura-a-casa-o-a-scuola-1.39215202.

[5] https://www.istruzione.it/rientriamoascuola/domandeerisposte.html..

[6] https://www.ilsole24ore.com/art/scuola-sistemare-40mila-edifici-servono-almento-200-miliardi-euro-ACdfxU1.

[7] https://www.istruzione.it/rientriamoascuola/domandeerisposte.html.

[8] https://www.miur.gov.it/documents/20182/2467413/Le+linee+guida.pdf/4e4bb411-1f90-9502-f01e-d8841a949429?version=1.0&t=1593201965918.

[9] https://www.universita.it/inchiesta-espresso-sovraffollamento-aule-universitarie/.

[10] https://www.unimi.it/it/node/39784.

[11] Per approfondire: https://www.lordinenuovo.it/2020/08/18/covid-19-tra-movida-turismo-e-interessi-economici/

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18/08/2020

Covid-19. Tamponi in entrata in Italia. Lombardia assente

Come è noto, da alcuni giorni è obbligatorio per chi rientra dalle vacanze o comunque arriva in Italia da alcuni paesi “a rischio” effettuare un tampone di controllo dell’eventuale contagio.

Già dai primi giorni, la Regione Lombardia si dimostra incapace di garantire tali controlli. Negli aeroporti di Malpensa e Linate dei tamponi non si ha notizia e nemmeno nessun medico, infermiere o funzionario è presente anche solo per dare indicazioni ai viaggiatori che rientrano.

Tutto è quindi affidato ai singoli che devono contattare individualmente l’ATS di riferimento per fissare l’effettuazione del tampone, che dovrebbe avvenire entro 48 ore.

Tuttavia, sia sui giornali che sui social si susseguono le proteste di cittadini che non riescono a contattare l’ATS, rimanendo incollati ore al telefono “per non perdere la priorità acquisita” che non significa nulla perché nessuno risponde.

Per i pochi fortunati, che riescono a parlare con qualcuno, la delusione è forte perché l’atteso tampone, nelle 48 ore successive, non si riesce a ottenere. Ciò è aggravato dal fatto che, in attesa del tampone (e del suo risultato), il cittadino interessato dovrebbe rimanere in isolamento domiciliare fiduciario. Ma a questo punto, non si sa per quanto.

A sbrogliare la situazione, ci ha pensato, come sempre, l’assessore Gallera che ha rilasciato dichiarazioni radiofoniche e televisive in cui ha detto che in attesa del tampone non è davvero necessario rimanere a casa, basta ridurre i contatti sociali e si può anche andare al lavoro, ma con la mascherina.

Ora ci chiediamo se andare in un posto di lavoro, dove magari ci sono decine o centinaia di persone a stretto contatto, sia “ridurre i contatti sociali”. Ma ancor più, ci sembra fuori da ogni regola sanitaria di prevenzione far andare a lavorare persone che possono essere contagiose, possibilità che purtroppo, per i rientri da alcune località turistiche si sta dimostrando tutt’altro che remota. E la mascherina non fa miracoli.

Non si può quindi non concludere che l’indicazione di Gallera, poi ripresa in un comunicato ufficiale della Regione Lombardia, che ha del grottesco perché si contraddice nello spazio di tre righe: “le persone (…) sono sottoposte all’isolamento fiduciario” e poco dopo “in attesa (…) non devono sottostare all’isolamento fiduciario” rivela l’ennesima incapacità della Regione Lombardia a garantire qualunque prevenzione.

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30/05/2020

L’emergenza per cambiare la scuola in peggio. Per sempre

Il Senato ha finalmente approvato l’emendamento scuola che ora passerà, senza apprensioni, anche alla Camera, visto che si userà ancora lo strumento della fiducia al governo.

Si tratta di un compromesso tra le forze di maggioranza che non fa contento veramente nessuno. Primi tra tutti scontenta i precari, che tali restano e che se immessi in ruolo avrebbero potuto dedicarsi da subito ai propri studenti quando invece dovranno pensare a un concorso durante l’inverno. Non sono contenti nemmeno gli studenti e le famiglie, né gli insegnanti di ruolo che in tale emendamento non trovano risposte chiare ai problemi che sta vivendo la scuola.

In effetti, tra decreti ministeriali ed emendamenti, pareri del Comitato Tecnico Scientifico del governo, Comitato di Esperti del Ministeri dell’Istruzione è difficile trovare certezze. Quest’ultimo comitato, peraltro, ha consegnato il suo rapporto alla ministra, senza che emergessero grandi scostamenti riguardo a quanto avevamo anticipato.

In questa grande confusione, alcune linee di tendenza e qualche idea-chiave si possono decifrare. Idee chiave che si possono riassumere in meritocrazia, valutazione, destrutturazione del lavoro dell’insegnante, decisionismo dei capi d’istituto, collaborazione con il privato.

Anzitutto, la scuola a settembre riaprirà in condizioni nuove e avrà l’esigenza di classi meno numerose e di spazi adeguati. Per raggiungere questi due obiettivi le risorse non ci sono. Su questo il Comitato Tecnico Scientifico è stato chiaro poiché nel suo documento sulla riapertura delle scuole si legge: “Ulteriore elemento di criticità risiede nell’insufficienza delle dotazioni organiche del personale della scuola nella previsione di una necessaria ridefinizione della numerosità delle classi per esigenze di distanziamento”.

Infatti non si deve dimenticare che i 32.000 precari che saranno riconfermanti non si aggiungono ai docenti attualmente in servizio, poiché già lo erano, quindi non ci sarà un vero aumento del personale docente, che comunque dovrebbe essere incrementato in modo ben più massiccio.

All’assunzione diretta dei precari si oppone il concetto meritocratico, tante volte evocato dalla senatrice Granato, fiera sostenitrice della necessità di accertare con un esame le competenze professionali di persone che nella scuola lavorano da anni. Inoltre la scuola non si regge solo sui docenti ma proprio in questo momento avrebbe bisogno di più personale ATA, vale a dire segretari e collaboratori scolastici, indispensabili per il rispetto del distanziamento, delle norme sanitarie e per l’igiene dei locali.

Eppure, dopo avere fatto una tale affermazione il comitato prosegue nel suggerire una serie di provvedimenti che sembrano non tenerne conto, riguardanti non solo il ridimensionamento delle classi ma tutti i momenti della vita scolastica, che, si sostiene, dovrà svolgersi su un orario più esteso, gestito non si sa da quale personale.

Sul versante dell’edilizia scolastica, il governo ha stanziato dei fondi, apparentemente insufficienti, che saranno gestiti dai comuni, con un passaggio di competenze che allungherà i tempi decisionali.

Singolare che nessuno sembri ricordare che sarebbe decisivo per la prevenzione nelle scuole e per l’assistenza al personale ripristinare le cosiddette sale mediche, un tempo obbligatorie in tutte le scuole di grandi dimensioni, in cui era costante la presenza di un infermiere e, in alcuni giorni, anche di un medico.

Nel momento in cui ci si rende conto che la dismissione delle strutture territoriali e di prevenzione è stato uno dei punti deboli nel fronteggiare la pandemia, la riapertura di un servizio di medicina scolastica sarebbe almeno da prendere in considerazione.

Ma veniamo al piano più propriamente pedagogico. Anzitutto la questione valutazione. Nell’emendamento scuola c’è l’elemento positivo dell’abolizione del voto numerico nella scuola primaria, ma solo dal prossimo anno (perché si devono aggiornare i registri elettronici!). Il voto sarà sostituito da un giudizio.

Sembra un passo avanti, ma potremo pronunciarci solo quando il Ministero avrà stabilito come dovrà essere tale giudizio e su quali elementi dovrà basarsi. Per il resto in tema di valutazione restano rigidità insostenibili. Se è vero che (quasi) tutti gli alunni verranno ammessi all’anno successivo, coloro che lo saranno con delle insufficienze dovranno svolgere un percorso di recupero per cui i docenti stenderanno un piano individuale, con un ennesimo aggravio del lavoro burocratico. Inoltre appare singolare la norma per la quale i genitori degli alunni disabili potranno richiedere la reiscrizione dei propri figli alla stessa classe frequentata quest’anno.

Un’implicita ammissione che la didattica a distanza, tanto esaltata dal Ministero, per questi alunni non funziona e una strana delega alle famiglie a prendere decisioni che spetterebbero anche agli insegnanti. Peraltro, del fatto che la didattica a distanza escluda molti studenti, testimonia, se ancora ce n’è bisogno, una ricerca della Cgil secondo la quale solo il 30% degli insegnanti riesce a raggiungere tutti i propri studenti per via telematica, con percentuali ancora più basse nel sud e nelle isole.

Quanto al lavoro degli insegnanti, l’allungamento dell’orario scolastico, l’ormai quasi certa riduzione dell’ora di lezione a 40-45 minuti, il conseguente e probabile aumento del numero di classi in cui prestare servizio preludono a una destrutturazione del loro lavoro, a una totale messa a disposizione rispetto alle decisioni dei Dirigenti, accompagnata da una costante presenza telematica, iniziata durante gli ultimi mesi di emergenza.

Proprio qui si apre un capitolo inquietante, cioè il tentativo di sfruttare l’epidemia per imporre surrettiziamente cambiamenti che andranno ben oltre il periodo dell’emergenza e che con essa non hanno nulla a che fare. Ne è un esempio lampante il tentativo del Ministero di istituzionalizzare la didattica a distanza, rendendola permanente quando invece è una didattica emergenziale.

In questo dibattito è entrata con decisione anche l’Associazione Nazionale Presidi con un documento pubblicato il 25 maggio che, al di là del titolo (Le proposte dell’ANP per la riapertura della scuola) sembra proporsi appunto come una proposta di riforma complessiva delle relazioni pedagogiche e sindacali nella scuola, ma anche dei rapporti con gli altri enti pubblici e con i privati.

Tale documento propone, in sostanza, di eliminare dalla scuola ogni forma di democrazia per dare il totale potere al capo d’istituto, attorniato da un middle management di docenti evoluti che avrebbero una carriera (e una retribuzione) diversa dagli altri insegnanti.

Ciò prefigura una frammentazione del corpo docente attraverso carriere diverse e separate e riorganizzate su basi gerarchiche. Evidentemente, a tale cambiamento epocale nella condizione professionale degli insegnanti, si dovrebbe accompagnare una revisione (o abolizione?) del contratto nazionale di lavoro, reso più agile e flessibile.

Inoltre, per rafforzare la decisionalità dei capi d’istituto, si propone l’abolizione degli organismi di partecipazione stabiliti dal Decreti delegati del 1974, ritenuti superati e d’ostacolo alla possibilità di prendere decisioni rapide.

Quanto alla valutazione, il documento dell’ANC introduce, quasi naturalmente, l’idea che rispetto alla valutazione delle conoscenza apprese, ci si concentri piuttosto sulla certificazione delle abilità e delle competenze. Un’impostazione che dà la priorità a ciò che serve per il lavoro e le imprese rispetto ai saperi. Fatto peraltro coerente con l’idea che la scuola debba “servire i cittadini e le imprese nel miglior modo possibile”.

La scuola deve avere “una funzione generativa all’interno del welfare generale, “facendo rete” con tutti i soggetti portatori d’ interesse”. Questa concezione del welfare, cioè il partenariato tra pubblico e privato, è esattamente ciò che è stato fatto nella sanità, segnatamente in Lombardia, e che ha portato ai disastri che tutti noi constatiamo. Purtroppo nelle “riforme” istituzionali nel nostro paese, scuola e sanità sono quasi sempre appaiate.

Concludiamo con qualche nota sui prossimi esami di maturità. Sempre nel suo delirio meritocratico e valutativo, il Ministero non ha preso in considerazione alcuna possibilità di formalizzare tale esame che, anche se ridotto a un solo orale, si terrà in presenza. Le linee guida sono tuttavia piuttosto vaghe. Si parla di accurata pulizia quotidiana di tutti i locali, cosa che dovrebbe essere effettuata comunque anche in periodi normali, di mascherine e di distanze.

Sul fatto che esistano forti dubbi sulla sicurezza di un esame così condotto, testimonia la richiesta dei dirigenti scolastici di depenalizzare gli infortuni sul lavoro. Ammalarsi di Covid-19 è considerato infortunio sul lavoro, quindi in caso un insegnante s’ammalasse, potrebbe chiamare in causa il dirigente. Inoltre agli insegnanti verrà richiesta un’autocertificazione sul non avere avuto contatti con persone contagiose, che non ha evidentemente alcun senso perché non si può esserne certi e appare quindi come un tentativo di scaricare sui singoli le responsabilità del governo e delle amministrazioni.

Infine, purtroppo, anche sulla questione scuola, il governo non vuole considerare che la situazione di rischio è assai diversificata sul territorio nazionale, dove ci sono regioni come la Lombardia che ha ancora oggi centinaia di contagi quotidiani e altre dove la situazione è migliore.

Si continua con la politica adottata a marzo quando il governo, su pressioni degli industriali e degli amministratori regionali del nord, non volle adottare il criterio di stabilire alcune zone rosse e altre di minor pericolosità, trasformando tutta l’Italia in una zona “arancione”. Una scelta che è costata cara e che dovrebbe essere riconsiderata anche per la riapertura delle scuole, dove i provvedimenti e le precauzioni sanitarie potrebbero essere graduati in base al rischio effettivo in ogni territorio.

Fonte

29/05/2020

Brancaccio - Crisi nuova, vecchie idee

RAI Radio Uno – Speciale GR1 sulla relazione annuale di Bankitalia – 29 maggio 2020 – Dalle considerazioni finali del governatore Visco emergono spunti condivisibili, come l’esigenza di favorire l’aggregazione delle banche italiane. Ma si traggono soprattutto i limiti di un discorso ancorato a una vecchia concezione della politica economica, inadeguata a questa crisi inedita e “mostruosa”. Il commento dell’economista Emiliano Brancaccio.


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23/04/2020

Impediamo a Fontana di rifare tutto

“Rifarei tutto quello che ho fatto”. Con questa stentorea e rodomontesca frase il Presidente della Lombardia, Fontana, ha commentato il piano regionale per l’avvio della Fase 2 dell’emergenza sanitaria, che dovrebbe arrivare al suo pieno sviluppo dal 4 maggio, ma con anticipazioni importanti, quale la riapertura dei cantieri edili, già il 27 aprile.

Tuttavia, la frase di Fontana va presa molto sul serio, poiché contiene una verità: un effettivo piano lombardo per la Fase 2 non c’è, dal punto di vista sanitario ci sarà invece continuità con la Fase 1, naturalmente con i rischi accresciuti dalla riapertura di tutte le attività produttive.

Una riapertura totale, dopo che il non avere fermato a tempo un numero sufficiente d’attività – in Lombardia più della metà delle imprese ha sempre continuato la produzione – ha provocato un numero enorme di contagi e di morti.

È bene ricordare che la Lombardia, regione dove secondo Fontana si dovrebbe rifare tutto ciò che è stato fatto, è la zona di concentrazione di decessi da Covid-19 più grande del mondo.

Di fronte alla totale capitolazione del sistema sanitario regionale, dovuta soprattutto alla mancanza di prevenzione e assistenza territoriale, alla carenza nell’isolamento dei positivi e dei sospetti e al tracciamento dei contatti dei malati nei giorni d’incubazione, ci si sarebbe attesi che per la Fase 2, dove la prevenzione e l’igiene saranno fondamentali, la Regione mostrasse attenzione a tali settori d’intervento.

Al contrario, nessuna intenzione in tal senso è stata dimostrata e questo accresce le preoccupazioni di una riapertura incondizionata mentre ancora i contagi sono migliaia e ogni giorno in Lombardia si registrano circa 200 decessi.

Inoltre desta preoccupazione la situazione a Milano, dove la Regione continua a sostenere ci siano 16.000 malati, escludendo dal calcolo quelli che sono a casa e nelle Rsa, che raddoppierebbero la cifra.

L’inconsistenza del piano per la Fase 2 ha scatenato anche l’ira della sezione lombarda della Fimmg, la Federazione Italiana Medici di Medicina Generale che ha emesso un duro comunicato in cui denuncia l’insipienza della giunta regionale.

Infine, la questione dei test sierologici, sui quali la Regione conta molto, ma su cui esiste la più grande confusione. Tali test, sulla cui attendibilità gli scienziati continuano a nutrire fondate perplessità, dovrebbero partire nei prossimi giorni, ma non è ancora chiaro esattamente in quali città e in quali settori della popolazione.

L’ipotesi più probabile è che siano scelte alcune tra le aree che hanno subito precocemente e in modo più duro l’impatto dell’epidemia, ma nella questione saranno coinvolti anche i comuni, quindi ci potranno essere dei cambiamenti.

Per esempio, il sindaco di Brescia, Del Bono, ha proposto i dipendenti del suo comune come campione per i test, mentre il milanese Sala lo ha proposto per i ferrotranvieri dell’Azienda Municipale dei Trasporti. Avendo ricevuto un diniego, sembra che farà da sé, in accordo con l’Università Statale.

Insomma, caos sugli obiettivi dei test, mancanza di coordinamento e collaborazione tra istituzioni al di là, forse, della sola cosa chiara; servirsi dei test per selezionare manipoli di lavoratori che possano andare in fabbrica senza rischio. Cosa tra l’altro per nulla certa, secondo i medici.

Infine, resta il dubbio su come i pazienti che devono sottoporsi al test sierologico e su come arriveranno nei laboratori, dato che i positivi potrebbero usare i mezzi pubblici, diffondendo il contagio ed in seguito portarlo nei laboratori stessi.

Nel caos totale, si è introdotta la singolare iniziativa della sezione di Fratelli d’Italia di Ghedi (BS) che il 24 e 25 aprile (e ti pareva...) proporrà il test sierologico a tutti coloro che lo desiderano: è sufficiente registrarsi presso la sezione e pagare la somma di 45 euro a persona. Insomma, un’anticipazione della speculazione privata che già s’annuncia sui test sierologici, sfruttando le legittime ansie dei cittadini lasciati soli di fronte all’epidemia.

Un ultimo problema che la regione Lombardia sembra ignorare è quello dei trasporti pubblici. La Lombardia è una regione ad alto tasso di pendolarismo e la riapertura di tutte le attività comporterà un forte aumento della mobilità, gestita dalla Regione per tutte le tratte non di pertinenza comunale.

Non è noto quali provvedimenti Fontana intenda assumere per evitare che ogni carrozza di Trenord o dei bus regionali diventi un potenziale microfocolaio.

Per il bene di tutti, via questa giunta e commissariamento della regione Lombardia!

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19/04/2020

I malati oncologici ai tempi del coronavirus

Una bomba esplosa all’improvviso, senza che quasi nessuno abbia avuto un’idea rapida ed efficace per gestire la situazione. Questo è stata l’epidemia di coronavirus in Italia: una sorpresa colpevolmente inattesa, perché quello che stava succedendo in Cina era evidente, e chi amministra la cosa pubblica, sopratutto la sanità, deve sopratutto essere in grado di prevedere.

Il governo e le amministrazioni regionali hanno commesso una serie di errori gravi, che all’inizio sono stati annacquati con la retorica dell’“andrà tutto bene” e la narrazione degli “eroi”. Ma è vero, un popolo che ha bisogno di eroi è un popolo sfortunato, e la dimostrazione l’abbiamo tutti sotto gli occhi.

Quello che emerge è che l’impatto del coronavirus in Italia è stato gestito male, tardi e senza prospettiva. Ci sono migliaia di morti che probabilmente potevano essere evitati: ma non solo.

Le ricadute di quello che non è stato fatto, o di quello che è stato fatto (vedi aziende lasciate criminalmente aperte) impattano su tutti, a partire dai più fragili. Un esempio pratico è quello del destino dei malati oncologici che si sono trovati di fronte ospedali ed ambulatori spesso nel caos più totale. E per un malato oncologico, un ambulatorio chiuso può rappresentare la differenza tra la vita e la morte.

L’Associazione Codice Viola, che si occupa di tumori al pancreas, preso atto della situazione ha deciso di proporre un sondaggio, aperto anche ai malati di altre patologie oncologiche. Il risultato – rilanciato anche da importanti testate di stampa estera – è sconfortante: il 36% del campione che ha risposto al sondaggio si è visto cancellare la prima visita, un complessivo 19% si è visto cancellare le terapie.

Parliamo di chemioterapie e radioterapie: alcune rimandate di qualche giorno, altre rinviate a data da destinarsi, altre ancora addirittura cancellate. Il 50% delle visite di controllo, poi, ha subito ritardi: i più fortunati se la sono vista rinviare di pochi giorni, tanti “a data da destinarsi”, i più sfortunati hanno visto il controllo cancellato per “impossibilità di avere in tempo esami diagnostici”. E a proposito di diagnostica, il 36% complessivo degli appuntamenti è saltato: o rinviato o annullato.

Il dato peggiore riguarda gli interventi chirurgici: il 62% è stato rinviato a data da destinarsi. Stiamo parlando, è utile ripeterlo, di pazienti oncologici: persone per cui il tempo è un elemento centrale. Avere una diagnosi prima o dopo, subire un intervento prima o dopo può fare la differenza tra la vita e la morte.

Abbiamo raccolto alcune testimonianze, che riassumiamo in poche battute: “Sento dire sempre ‘faremo, ora faremo, ora faremo’. Ma la situazione è di una urgenza indifferibile, bisogna risolvere questo problema subito”, ci ha raccontato Alessandra Capone, una paziente che ha deciso di metterci la faccia e raccontare il problema: “Raccolgo testimonianze allucinanti, storie drammatiche. I pazienti oncologici stanno diventando veramente l’ultima ruota del carro”.

Dura anche Francesca Pesce, dell’associazione Codice Viola: “A regime, il sistema delle cure oncologiche già opera sotto stress. Spesso prossimo al limite della sua capacità. Non è in grado di far fronte facilmente alle emergenze”, spiega.

“I problemi emersi durante questo periodo di dura crisi richiedono subito soluzioni percorribili ed efficaci, non vuote parole di comodo, perché il prossimo autunno i problemi si ripresenteranno e in forma più acuta”.

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29/03/2020

Il mattatoio virale tra attesa, speranza e morte


Senz’altro verrà l’alba, ma per ora siamo in piena notte e nel buio cerchiamo oracoli che la abbrevino. Al tempo dell’attesa è avvinghiata la nostra unica speranza che tutto d’incanto passi e si possa tornare alla vita.

Personalmente, sono incline alla sfiducia verso la politica messa in campo per contrastare l’epidemia e che continua, nell’attesa messianica della prossima venuta del picco, a sfornare ogni giorno nuovi decreti. Mi pare di assistere ad un opera di fascistizzazione dello Stato, che si palesa con la maschera rassicurante dello stato di emergenza. Nel frattempo si mandano al fronte schiere nude di medici, infermieri e lavoratori scortati da fanfare, canti e inni che celebrano la liturgia dell’eroe e del suo santo sacrifico sull’altare della patria aggredita dal virus.

Parafrasando V.Flusser in “La cultura dei media”, le immagini che si estendono sulle superfici bidimensionali dello schermo, anziché mostrare il mondo lo velano. Queste immagini diventano il motore dell’agire politico e la lingua vittoriosa della sua comunicazione. Nel nostro caso, in piena epidemia tale pensiero è particolarmente azzeccato.

Le immagini descrivono scene, catturano subito l’attenzione, riescono ad addestrare comportamenti, gusti, scelte, ammaestrano a nuove abitudini e bisogni, anzi, spesso creano quest’ultimi. Esse rappresentano il potere dei media. Come un potente mago, questo tipo di informazione riesce a dare della realtà e degli eventi una rappresentazione formattata con una distinta matrice interpretativa.

La narrazione dell’accadimento nel suo passaggio all’informazione viene trasmessa unidirezionalmente dalle stazioni emittenti a quelle riceventi, monocraticamente, senza alcuna possibilità di dialogo o istanza critica da parte del soggetto ricevente. Il mittente si trova in una condizione di estrema passività e non può fare altro che impregnarsi come una spugna di ciò che gli viene dato da bere come verità.

Il fatto non viene mai rappresentano nella sua vera realtà. La sua integrità è drogata. Esso si trasforma in un commento. I fatti dovrebbero essere depurati da incrostazioni interpretative e resi per quello che sono.

Se usciamo al di fuori del cerchio mediatico dell’informazione di una “società di massa omologata e totalitaria”, ci sposteremo su un altro panorama. Pertanto lanciamo uno sguardo dietro il sipario delle apparenze mediatiche per mettere in primo piano, per quanto irritante per la legittimazione sociale delle elitè egemoni, un altro copione.

Il sonno eterno, la morte è poco presente nella rappresentazione mediatica dell’epidemia. Il suo volto duro e terrificante è avvolto dalla maschera aritmetica delle cifre smarcate ogni giorno dal bollettino di guerra dalla protezione civile. La sua immagine è occultata dai camion militari che coprono le numerose bare di Bergamo. I morti non si vedono, i lutti non si celebrano per salvaguardare la sicurezza nazionale. Si vedono solo di sfuggita ogni tanto, ammassi di bare che è meglio non mostrare per evitare il panico. Il volto della morte testimonia la sua presenza triste che eccita la paura. La sua ombra greve si avverte anche sé è edulcorata più per necessità biopolitiche che per pietà. La morte ci spinge ad aprire gli occhi sulla caducità e precarietà della vita. Vita che fino a ieri si credeva ben protetta e schermata dall’illusione che potessimo controllare tutto.

Oggi la malattia, domani la sofferenza e l’invecchiamento, la morte si presenta con i suoi cavalieri terribili annunciando che il nostro sistema non è, come credevamo, il migliore possibile. Questa epidemia è un’epidemia democratica colpisce tutti. Essa ha una preferenza per le persone anziane già colpite da altre patologie. La morte colpisce, ma prima infetta poi soffoca.

I dati sulla ricaduta sul personale sanitario sono molto forti (circa il 10% dei totale). Questi Lavoratori non sono eroi, sono i martiri di un paese che sforna decreti su decreti e si indebita, ma che non è ancora stato capace di fornire le attrezzature adatte a far stare in sicurezza sul fronte dell’epidemia medici e infermieri.

Anche sul fronte dei medici di famiglia le cose non vanno meglio. Questo è un altro fronte caldo, privo di mezzi di protezione, depotenziato nel suo agire, imbrigliato in una camicia di forza burocratica che impedisce di poter avere gli strumenti necessari per fare il proprio lavoro. Dalla impossibilità di segnare certi farmaci a quella di non avere kit per fare tamponi e altro.

Si palesa in tutta questa vicenda un impreparazione cronica del paese del suo gruppo dirigente che fa sgomento. Sono passati 45 giorni dal primo contagio e ancora non ci sono né le mascherine, né il disinfettante. Si continua ad applicare la clausura come mezzo principale di intervento e si lasciano scoperti gli altri fianchi del fronte lamentandosi poi del continuo incremento dei contagi.

Un altro fronte drammatico è quello dei malati o positivi messi in quarantena e lasciati soli a se stessi. Il tampone si fa solamente quando i sintomi si fanno evidentissimi (febbre maggiore di 37,5°) e cioè quando spesso è troppo tardi. Mancano dispositivi da distribuire alle famiglie per il monitoraggio della ossigenazione del sangue e le bombole di ossigeno. A questi si aggiunge la situazione critica delle RSA, spazi che sono stati esclusi nelle prime fasi e che adesso mostrano il crudo potenziale di morte che celavano.

È ovvio che i numeri in queste condizioni non calino. I rinforzi promessi agli ospedali sono stati recuperati richiamando pensionati o giovani medici non ancora preparati a cui fanno da contraltare le assenze non giustificate della classe politica con la messa in part-time del parlamento. In tempo di guerra le istituzioni dovrebbero dare prova di esserci a tempo pieno. A questo mancato atto di buon senso e di responsabilità istituzionale rispondono lavoratori, medici e infermieri molti dei quali già colpiti dal virus. Si parla di risorse miliardarie recuperate a debito ma non si vede ancora un euro e i respiratori continuano a mancare.

L’assurda e rigida burocrazia prende la veste di un modulo di autocertificazione che muta aspetto come il virus e da riempire dichiarando di non essere positivo. Ma come fai a dichiarare per vero qualcosa che non puoi sapere se nessuno ti ha fatto ancora il tampone? Poi c’è il grande panopticon che scende in campo con tutto il peso della tecnologia informatica per attuare il coprifuoco totalitario nella speranza che, con la primavera e la clausura, la cosa finisca da sé.

Ma ci sono anche altri luoghi che l’informazione camuffa come la morte, sono le carceri. La situazione carceraria italiana è tra le più mal messe d’Europa. Le carceri strutturalmente cadono a pezzi e sono sovraffollate al 131%. Non sono adeguatamente fornite di servizi e di nuove tecnologie. Qui si paga il prezzo di anni di mancati investimenti in questo settore che è stato lasciato andare alla deriva. Una buona giustizia, come sappiamo, costa ad un paese da sanatorio economico-finanziario come il nostro. Ebbene di questi luoghi dimenticati da Dio poco o niente sappiamo. Sono certamente spazi ad alto rischio di contagio se non altro per la forte promiscuità della vita carceraria.

Cosa fare? La soluzione dopo anni di disinteresse non si può certamente trovare in due minuti ma qualcosa si potrebbe fare. Ma cosa? Intanto per i reati minori potrebbero essere assegnati gli arresti domiciliari ed il braccialetto elettronico per i casi più gravi. Inoltre si potrebbe pensare ad aprire prima le celle per quei detenuti prossimi ad aver scontato la pena. Si potrebbe poi eseguire i tamponi a tappeto ai detenuti e guardie carcerarie per avere il quadro della situazione reale anche a protezione delle famiglie. Poi si dovrebbero reperire eventuali luoghi di quarantena alternativi al carcere. Di più credo non si possa fare, troppi sono stati i guasti accumulati negli anni. Certamente comunque si deve iniziare da qualche parte a voltare pagina.

Prevale, in questo settore, il populismo penale delle destre che penetra in ampie fasce della popolazione e imbottiglia l’azione del governo sui rigidi binari di un poco intelligente rigore forcaiolo. Ciò per non dare il fianco al capitano al comando di orde di ruspe e forconi o a redivivi postfascisti ringalluzziti dall’ultimo successo elettorale entrambi tormentati dalla sete di poltrone.

Il coprifuoco o zona rossa è argomento spinoso ed espone a molte critiche. Per coprire i ritardi e i molti errori che si sono fatti all’inizio e che si continuano a fare, nel tentativo di poter arginare il contagio, si è imposto il coprifuoco con l’eventuale l’ausilio di dispositivi di controllo e di sorveglianza che vanno dai droni, alle telecamere, al controllo delle celle telefoniche con cui è suddiviso il territorio. In questo modo si è traslata la responsabilità della situazione epidemica, da Stato e Regioni, al cittadino incosciente ed egoista promosso a nuovo untore.

La filosofia del capro espiatorio funziona perfettamente, sposta l’attenzione sul vicino creando un clima di sospetto, di delazione e insicurezza generalizzato. Per di più, dal punto di vista strutturale, il covid-19 ha messo a giorno gli effetti rovinosi dei tagli ai servizi e delle strutture sanitarie perpetuate negli anni per far fede al patto di stabilità e ai precetti totalitari ordoliberisti della BCE e soci.

La terra bruciata che negli anni si è fatta a livello di strutture sanitarie territoriali e di personale certamente non ha reso più facile il trattamento e contenimento dell’epidemia né tanto meno la sua regionalizzazione.

La classe lavoratrice è un altro fronte critico che sta combattendo in prima linea. Anche su questo fronte troviamo situazioni allucinanti, nessuna distanza di sicurezza, nessun dispositivo di protezione personale, nessun test per verificare la presenza di possibili portatori sani del virus, nessuna sanificazione degli ambienti. Il nostro sistema produttivo, afflitto da decenni dal cronico fenomeno delle morti bianche, è completamente impreparato a produrre in condizioni di massima sicurezza, figuriamoci in situazioni di epidemia. L’unica cosa di buon senso da fare era quella di chiudere le fabbriche a salvaguardia della salute dei lavoratori e per limitare le occasioni di trasmissione del virus. Questo assicurando salari e stipendi o altre forme di sostegno. Ma per gli operatori economico-finanziari chiudere costa troppo. Il sistema produttivo si espone ad un pericoloso cedimento per cui è meglio sacrificare un po’ di “carne da cannone” ma tenere aperte le fabbriche, evocando lo stato di necessità con correlata liturgia della patria aggredita e minacciata dal nemico invisibile e dalla crisi economica che comunque seguirà la nuova“peste”. Tra i nuovi eroi, molti si infettano e muoiono, nessuno riconoscerà loro indennità o risarcimenti alle famiglie come morti bianche sul lavoro nell’esercizio delle proprie funzioni sanitarie e produttive.

L’ influenza spagnola, che poi spagnola non era, fu contrassegnata da tre ondate e la seconda fu la più funesta. Noi ora abbiamo un virus mutaforma e la popolazione potrebbe non raggiungere la cosiddetta l’immunità di gregge. Però su questi punti nessuno al momento dispone di informazioni scientifiche sufficienti e comprovate sperimentalmente. Come potrebbe trattarsi di una falsa speranza anche l’attesa che il virus sparisca da solo durante l’estate per l’innalzamento delle temperature.

Certamente, finita la lunga e terribile notte, per il futuro potrebbero attenderci altre oscure e lunghe notti e la prossima riguarderà sicuramente l’economia. Già in questo momento ci sono stati alcuni episodi di assalto ai supermarket e furti della spesa. Tant’è che si parla di mettere l’esercito a presidio dei centri commerciali.

Pertanto occorre metterci prima possibile nella condizione di pensare ad un salto di paradigma, un mutamento profondo che coinvolga con una partecipazione democratica molte strutture del nostro paese: economiche, politiche, sociali, usi e costumi, urbanità.

Infine l’UE potrebbe aver decretato, con il suo sciagurato ed egoistico comportamento tra nazionalismi, la propria morte, con l’arroccamento su politiche economiche teutoniche ordoliberiste, con il pericolo di farci fare la fine della Grecia e mangiarci tutto quello che abbiamo. Ciò alla luce del fatto che siamo da sempre un paese molto allettante e ricco di opportunità speculative e particolarmente apprezzato dagli appetiti insaziabili dei coccodrilli della finanza globale.

Ma la questione di un eventuale moratoria del nostro debito pubblico e del suo impossibile pareggio emergerà con forza trascinato dalla marea della prossima crisi economica consecutiva la fine della prima ondata di epidemia, ma questa è un’altra storia che poi affronteremo.

Spagnola

Spagnola 2

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