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06/02/2012

Posto fisso: le ragioni di Monti

“I giovani devono abituarsi a non avere un posto fisso nella vita. E poi diciamo anche: che monotonia averlo per tutta la vita. È bello cambiare”. Questa frase di Mario Monti ha suscitato polemiche e ironie (è un discorso snob).

È chiaro che il premier tira l’acqua al suo mulino perché il governo deve varare una riforma del lavoro dove il posto fisso e garantito a vita non ci sarà più, però la sua notazione è assolutamente valida dal punto di vista esistenziale e psicologico. Scrive Nietzsche: “Amleto chi lo capisce? Non è il dubbio, ma la certezza che uccide”. I Paesi scandinavi, dove l’esistenza scorre garantita, lineare, prevedibile ‘dalla culla alla tomba’, hanno il più alto tasso di suicidi in Europa, cinque o sei volte superiore al nostro Sud dove sono in parecchi a doversi inventare ogni giorno la vita per far quadrare il pranzo con la cena. La necessità aguzza l’ingegno, la sicurezza lo ottunde.

Quando ero in Pirelli, alla fine degli anni Sessanta, ho assistito alla cerimonia che ogni anno l’azienda organizzava per gli “anziani Pirelli”, impiegati e operai che dopo quarant’anni di servizio andavano in pensione lasciandosi docilmente seppellire anzitempo. Era una cerimonia, nonostante tutti gli sforzi della Pirelli per renderla potabile, o anzi forse anche a causa di questo, di una tristezza senza pari, da film del primo Olmi, quello de Il posto (appunto). Si leggeva su quei volti l’asfissia. Per 40 anni erano stati garantiti, ma per 40 anni avevano vissuto nelle stesse stanze, negli stessi luoghi, visto le stesse facce, fatto gli stessi discorsi. “Una cosa da fare rincretinire un uomo per quanto può rincretinire” dice cinicamente lo stesso Adam Smith che pur è un primigenio fautore del lavoro parcellizzato e della catena di montaggio.

Cambiare quindi è vitale. Ma bisogna avere delle chance di poterlo fare, pur assumendosi qualche rischio. E la società di oggi è molto meno “aperta” di quella di ieri e non solo nel campo del lavoro. Oggi quelle che una volta erano strade e anche autostrade si sono ridotte a stretti viottoli. A mio parere la situazione non è particolarmente drammatica, come si strombazza per i giovani che non trovano il primo lavoro (intanto son giovani, beati loro, mi cambierei all’istante con un ventenne disoccupato), ma per gli uomini di mezz’età che lo perdono. Soprattutto per quelli che appartengono al ceto medio, borghese, intellettuale.

Giorni e nuvole, il bel film di Soldini, racconta la storia di un manager cinquantenne di un’azienda di Genova, troppo morbido, troppo umano. L’azienda va così così e vi entra un socio con meno scrupoli che licenzia il manager e un bel mucchietto di operai. Costoro – siamo a Genova, una città che conserva una tradizione operaia – riusciranno in qualche modo a cavarsela attraverso la rete di solidarietà proletaria. Il manager (Albanese nel film) no. Manda curriculum su curriculum, inutilmente. Nessuno oggi assume un uomo di 50 anni. Perché nella società attuale, con i rapidissimi cambiamenti tecnologici, diventiamo tutti presto obsoleti. Albanese, per sopravvivere, rinuncia allora a qualsiasi ambizione e si mette a far lavoretti d’occasione, si improvvisa tappezziere. Ma non ha il know how, gli manca la manualità necessaria.

Per questo trovo assai interessante l’iniziativa di Edibrico, una casa editrice di giornali di bricolage, che ha sponsorizzato gratuitamente l’insegnamento ai bambini, in varie sedi, di quella manualità che abbiamo quasi tutti perduto. Altro che farli chattare, già a due o tre anni, compulsivamente sull’iPhone. Della manualità, e non solo per sport, avremo presto tutti estremo bisogno. Quella manualità che consentiva all’uomo di Neanderthal di costruirsi empiricamente una stranissima, complicata ma efficacissima lancia (gli serviva per uccidere i mammuth) che oggi nessuna tecnologia sarebbe in grado di riprodurre. L’uomo Sapiens Sapiens deve fare qualche passo indietro.

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