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19/09/2014

Crisi umanitarie dimenticate

di Tania Careddu

In dieci anni di crisi, diecimila notizie di casi criminali e undici notizie sui bambini soldato. Centoquarantatre notizie sul royal baby in sei mesi e zero notizie sulla Repubblica Centrafricana. E’ il risultato, esposto nel "10° Rapporto. Le crisi umanitarie dimenticate dai media" di Medici Senza Frontiere e Osservatorio di Pavia, di un’analisi sulla rappresentazione, nei telegiornali italiani, delle crisi umanitarie internazionali. Di un decennio, dal 2004 al primo semestre del 2014, importante dal punto di vista degli sconvolgimenti geopolitici avvenuti in molte aree del mondo.

E, di fronte all’inasprirsi di alcune crisi, il trend è apparso di segno opposto: dalle agende dei telegiornali di prima serata, le crisi scompaiono progressivamente. E' sempre peggio: milleseicento notizie che si occupano di crisi umanitarie internazionali nel 2013 versus le cinquemilasettecento del 2004. E a sparire sono quelle crisi umanitarie che non soddisfano i requisiti di notiziabilità, ossia che non hanno le caratteristiche tipiche dei grandi eventi epocali, con tutta la loro portata di drammaticità e gravità.

Guerre, malattie endemiche, emergenze sanitarie, carestie, malnutrizione, riaffiorano sui nostri schermi solo al verificarsi di eventi speciali e specifici che li rendono (momentaneamente) “veri” e “reali”. La loro visibilità viene occultata da scenari di conflitti che coinvolgono i principali attori della politica internazionale o che accadono in aree regionali strategiche (per chi le racconta).
Per l’eccezionalità dell’evento, per la prossimità, la possibile minaccia per l’Italia e il coinvolgimento di occidentali - più il contesto di crisi è vicino all’occidente per ragioni politiche, geografiche e culturali o perché è sede di sequestri e attentati ai danni di cittadini occidentali, tanto più alta è la possibilità che trovi spazio tra le notizie nei nostri tg - oppure per la presenza di testimonial vip che la descrivono.

Il record di attenzione spetta ad una zona ben definita: Israele, Libano, Palestina, Iraq e poi Afghanistan. Si, perché quando si parla di crisi nell’occhio del tubo catodico, in due terzi dei casi, con ventitremila e rotti notizie in dieci anni, ci si riferisce a scenari di guerra con, però, un’attenzione marginale alle condizioni dei paesi teatri dei conflitti, alla situazione della popolazione civile, al coinvolgimento di vittime minori, alla difficile posizione delle donne.
Si privilegia, piuttosto, la “cronaca degli attacchi e degli attentati” che si esaurisce nel resoconto dell’accadimento. Con un focus particolare sulla partecipazione dei militari italiani nelle missioni o sulle strategie internazionali per risolvere i conflitti.

Va da sé che fra le crisi più citate ci sono quei contesti che godono di una “visibilità continua” oppure quelli che attirano l’attenzione in concomitanza di eventi tragici, secondo una logica informativa catastrofica, la quale da spazio agli eventi spettacolari, provocando una “telegenia dell’orrore”.
Cioè, tanto più un evento rompe la routine di fallimenti a cui siano abituati, tanto più entra a gamba tesa nei telegiornali. Oppure hanno una “visibilità a singhiozzo”, quando  i riflettori si accendono su quell’emergenza in coesistenza di alcuni fatti significativi. Vedi le crisi umanitarie connesse alle calamità naturali. Che sono state affrontate in duemilacinquecento servizi; fra questi il triste primato di visibilità va allo tsunami del sud est asiatico, seguito dal terremoto di Haiti e dalle alluvioni in Indonesia, Pakistan e Filippine.

E poi, esistono le crisi invisibili. Dimenticate eppure gravi. Ma immobili tanto da rimanere silenti fino all’accadere di eventi più idonei a essere urlati nei tempi delle ‘rap news’ dei telegiornali sincopati.
E’ il caso della Repubblica Centroafricana assente in dieci anni di analisi, dei conflitti in Uganda e in Sierra Leone, nel Mali e in Congo - nominato solo nelle nove notizie relative al blocco delle adozioni internazionali a seguito degli scontri tra ribelli e forze governative, ma nessun riferimento al conflitto cronico che infiamma il paese da oltre venti anni.

E’ questo un caso di “provincializzazione” e di “decontestualizzazione” delle notizie che, insieme alla “personalizzazione”, finisce per riservare maggior spazio al nostro Belpaese piuttosto che a quello in cui è in corso la crisi umanitaria, la quale rimane sullo sfondo perché il suo approfondimento richiede tempi poco compatibili con i notiziari. Che preferiscono aprire a tabloidizzazione e infotainment.

Via, dunque, a elementi di intrattenimento, cronaca rosa e gossip: trecentottanta notizie in sei mesi dedicate alle nozze di William e Kate contro le undici dedicate alle condizioni drammatiche dei bambini soldato; nel 2007 l’estate di Paris Hilton merita l’attenzione di sessantatre notizie mentre la Repubblica democratica del Congo tre; le vacanze della coppia Briatore-Gregoraci trentatre notizie versus dodici per un mese di colera nello Zimbabwe.
E ancora: per il caldo torrido del 2009 sono state scritte duecentoquarantasei notizie contro le centosedici per un anno di fame; nel 2012 impazza la fine del mondo secondo la profezia Maya riportata in trentanove notizie e zero per le malattie tropicali, nel 2013 otto notizie riservate ai disordini decennali del Sud Sudan e settantatre alle nozze e alla maternità di Belen Rodriguez.

E così cadono nell’oblio, con una media di trenta notizie all’anno, la povertà, la malnutrizione e le emergenze sanitarie. A meno che l’Ebola non oltrepassi i confini nazionali.

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