di Tania Careddu
In dieci anni di crisi,
diecimila notizie di casi criminali e undici notizie sui bambini
soldato. Centoquarantatre notizie sul royal baby in sei mesi e zero
notizie sulla Repubblica Centrafricana. E’ il risultato, esposto nel
"10° Rapporto. Le crisi umanitarie dimenticate dai media" di Medici
Senza Frontiere e Osservatorio di Pavia, di un’analisi sulla
rappresentazione, nei telegiornali italiani, delle crisi umanitarie
internazionali. Di un decennio, dal 2004 al primo semestre del 2014,
importante dal punto di vista degli sconvolgimenti geopolitici avvenuti
in molte aree del mondo.
E, di fronte all’inasprirsi di alcune
crisi, il trend è apparso di segno opposto: dalle agende dei
telegiornali di prima serata, le crisi scompaiono progressivamente. E'
sempre peggio: milleseicento notizie che si occupano di crisi umanitarie
internazionali nel 2013 versus le cinquemilasettecento del 2004. E a
sparire sono quelle crisi umanitarie che non soddisfano i requisiti di
notiziabilità, ossia che non hanno le caratteristiche tipiche dei grandi
eventi epocali, con tutta la loro portata di drammaticità e gravità.
Guerre,
malattie endemiche, emergenze sanitarie, carestie, malnutrizione,
riaffiorano sui nostri schermi solo al verificarsi di eventi speciali e
specifici che li rendono (momentaneamente) “veri” e “reali”. La loro
visibilità viene occultata da scenari di conflitti che coinvolgono i
principali attori della politica internazionale o che accadono in aree
regionali strategiche (per chi le racconta).
Per l’eccezionalità dell’evento, per la prossimità, la possibile
minaccia per l’Italia e il coinvolgimento di occidentali - più il
contesto di crisi è vicino all’occidente per ragioni politiche,
geografiche e culturali o perché è sede di sequestri e attentati ai
danni di cittadini occidentali, tanto più alta è la possibilità che
trovi spazio tra le notizie nei nostri tg - oppure per la presenza di
testimonial vip che la descrivono.
Il record di attenzione spetta
ad una zona ben definita: Israele, Libano, Palestina, Iraq e poi
Afghanistan. Si, perché quando si parla di crisi nell’occhio del tubo
catodico, in due terzi dei casi, con ventitremila e rotti notizie in
dieci anni, ci si riferisce a scenari di guerra con, però, un’attenzione
marginale alle condizioni dei paesi teatri dei conflitti, alla
situazione della popolazione civile, al coinvolgimento di vittime
minori, alla difficile posizione delle donne.
Si
privilegia, piuttosto, la “cronaca degli attacchi e degli attentati”
che si esaurisce nel resoconto dell’accadimento. Con un focus
particolare sulla partecipazione dei militari italiani nelle missioni o
sulle strategie internazionali per risolvere i conflitti.
Va da
sé che fra le crisi più citate ci sono quei contesti che godono di una
“visibilità continua” oppure quelli che attirano l’attenzione in
concomitanza di eventi tragici, secondo una logica informativa
catastrofica, la quale da spazio agli eventi spettacolari, provocando
una “telegenia dell’orrore”.
Cioè, tanto più un evento rompe la routine di fallimenti a cui siano
abituati, tanto più entra a gamba tesa nei telegiornali. Oppure hanno
una “visibilità a singhiozzo”, quando i riflettori si accendono su
quell’emergenza in coesistenza di alcuni fatti significativi. Vedi le
crisi umanitarie connesse alle calamità naturali. Che sono state
affrontate in duemilacinquecento servizi; fra questi il triste primato
di visibilità va allo tsunami del sud est asiatico, seguito dal
terremoto di Haiti e dalle alluvioni in Indonesia, Pakistan e Filippine.
E poi, esistono le crisi invisibili. Dimenticate eppure gravi. Ma
immobili tanto da rimanere silenti fino all’accadere di eventi più
idonei a essere urlati nei tempi delle ‘rap news’ dei telegiornali
sincopati.
E’ il caso della Repubblica Centroafricana assente in dieci anni di
analisi, dei conflitti in Uganda e in Sierra Leone, nel Mali e in Congo -
nominato solo nelle nove notizie relative al blocco delle adozioni
internazionali a seguito degli scontri tra ribelli e forze governative,
ma nessun riferimento al conflitto cronico che infiamma il paese da
oltre venti anni.
E’ questo un caso di “provincializzazione” e di
“decontestualizzazione” delle notizie che, insieme alla
“personalizzazione”, finisce per riservare maggior spazio al nostro
Belpaese piuttosto che a quello in cui è in corso la crisi umanitaria,
la quale rimane sullo sfondo perché il suo approfondimento richiede
tempi poco compatibili con i notiziari. Che preferiscono aprire a
tabloidizzazione e infotainment.
Via,
dunque, a elementi di intrattenimento, cronaca rosa e gossip:
trecentottanta notizie in sei mesi dedicate alle nozze di William e Kate
contro le undici dedicate alle condizioni drammatiche dei bambini
soldato; nel 2007 l’estate di Paris Hilton merita l’attenzione di
sessantatre notizie mentre la Repubblica democratica del Congo tre; le
vacanze della coppia Briatore-Gregoraci trentatre notizie versus dodici
per un mese di colera nello Zimbabwe.
E ancora: per il caldo torrido del 2009 sono state scritte
duecentoquarantasei notizie contro le centosedici per un anno di fame;
nel 2012 impazza la fine del mondo secondo la profezia Maya riportata in
trentanove notizie e zero per le malattie tropicali, nel 2013 otto
notizie riservate ai disordini decennali del Sud Sudan e settantatre
alle nozze e alla maternità di Belen Rodriguez.
E così cadono
nell’oblio, con una media di trenta notizie all’anno, la povertà, la
malnutrizione e le emergenze sanitarie. A meno che l’Ebola non
oltrepassi i confini nazionali.
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