di Michele Giorgio – Il Manifesto
Ha reagito con
sdegno il ministro della giustizia libanese Ashraf Rifi al
discorso pronunciato martedì da Hassan Nasrallah, segretario
generale del movimento sciita libanese Hezbollah. «Non
abbiamo parlato finora dell’Iraq, ma abbiamo una limitata presenza
(nel Paese) a causa della fase delicata che l’Iraq sta
attraversando», ha detto Nasrallah. Secondo Rifi questa ammissione
e l’esortazione del leader sciita a tutto il Libano ad unirsi alla
battaglia in Siria contro l’Isis e i qaedisti di al Nusra – «A
coloro che ci chiedono di ritirarci dalla Siria – ha affermato il
leader di Hezbollah — io dico: Andiamo insieme in Siria e in Iraq
e in ogni altro posto dove vi sia una minaccia per il futuro delle
nostra nazione» — confermerebbe un totale asservimento del movimento sciita agli interessi strategici dell’Iran. Il
commento di Rifi si unisce all’appello a ritirarsi dalla Siria che
l’ex premier sunnita e leader del partito antisiriano Mustaqbal,
Saad Hariri, ha rivolto a Hezbollah al suo rientro in Libano, in
occasione dell’assassinio del padre, Rafik, avvenuto 10 anni fa sul
lungomare di Beirut. E anche alla dura condanna del discorso di
Nasrallah pronunciata ieri dal deputato, sempre di Mustaqbal,
Ahmad Fatfat. Commenti che fanno sorridere. Come se il Libano, senza Hezbollah, fosse un paese libero dal controllo straniero.
Come se, una volta rientrati a casa i combattenti sciiti, non ci
fossero in Siria tanti altri libanesi, pagati da generosi
finanziatori del Golfo, che combattono contro l’esercito
governativo nei ranghi di al Nusra, dell’Esercito siriano libero e anche
dell’Isis.
Hariri e il suo partito sono l’espressione politica più
compiuta della longa manus dell’Arabia Saudita sul Paese dei Cedri.
Rappresentano gli interessi di Riyadh in Libano. E nonostante le sue recenti condanne del salafismo radicale, a Tripoli, storica roccaforte sunnita, Hariri
con i suoi soldi ha contribuito a tenere aperte non poche delle
moschee e delle scuole coraniche che hanno allevato gli avversari
(armati) degli alawiti libanesi e di non pochi jihadisti poi finiti
in Siria, nelle milizie schierate contro le forze armate
governative. L’attuale premier libanese Tammam Salam
non avrebbe potuto sedersi sulla poltrona che occupa senza l’appoggio
dell’Arabia Saudita. E non si può dimenticare l’influenza degli Stati
Uniti e della Francia sulle scelte delle forze politiche libanesi
dello schieramento filo-occidentale “14 marzo”. Non
pochi libanesi descrivevano come “il vero primo ministro” Jeffrey
Feltman, ex ambasciatore degli Usa a Beirut tra il 2004 e il 2008
(anni caldissimi per il Libano), poi assistente del Segretario di
Stato per il Medio Oriente. Da parte sua l’ex presidente francese Nicolas Sarkozy
impartiva veri e propri ordini agli amici libanesi, su cosa fare
o non fare nei confronti di Bashar Assad che, a sua volta, manovra
tante pedine nel Paese dei Cedri – ben oltre l’appoggio che gli
garantisce Hezbollah — nonostante le difficoltà enormi che deve
affrontare in casa a causa della guerra civile.
Le perenni rivalità, l’abituale scambio di accuse che segna
da 10–12 anni la scena politica libanese, hanno messo in ombra
passaggi del discorso di Nasrallah altrettanto interessanti oltre
quello sulla presenza dei combattenti sciiti libanesi anche in Iraq
(peraltro nota da tempo). Il segretario generale di
Hezbollah ha parlato «di cancelli di una soluzione politica che
dovrebbero essere aperti... l’opposizione non estremista... deve entrare in
un accordo con il regime, perché il regime è pronto per una
soluzione». Già in un precedente discorso, qualche mese fa,
Nasrallah aveva avanzato, sebbene in modo vago, l’idea di un
processo di cambiamento a Damasco nei prossimi anni. Nel quadro di
una soluzione ampia, di lungo termine e condivisa, e senza l’uscita
di scena immediata di Assad come chiede con insistenza l’opposizione
siriana. D’altronde anche l’inviato speciale dell’Onu per la
Siria, Staffan De Mistura, ora parla di Assad come parte della
soluzione per la Siria, almeno in una fase transitoria.
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