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20/02/2015

Libia - L'ipocrisia di Washington e Londra

di Roberto Prinzi

La richiesta libica ed egiziana di armi per combattere lo Stato islamico – presentata mercoledì al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (CSNU) - sembra al momento non trovare sponsor. Mohammed ad-Dair – il ministro degli esteri del governo di Tobruq, quello riconosciuto dalla comunità internazionale – era stato chiaro due giorni fa: “se non ci vengono fornite le armi, verrà fatto il gioco degli estremisti”. Parole che, finora, non hanno convinto nessuno. Gli ultimi a unirsi pubblicamente al gruppo degli scettici sono stati gli Usa e la Gran Bretagna. Più armi in circolazione, secondo Washington e Londra, e più aumenta il rischio che le armi possano finire in “mani sbagliate”.

Durante una visita ufficiale in Spagna, il titolare del dicastero degli esteri inglese, Philip Hammond, lo ha detto esplicitamente: “il problema è che non c’è un governo in Libia che abbia un controllo effettivo del suo territorio. Non c’è un esercito libico che la comunità internazionale può effettivamente sostenere”. Prima che il governo di Tobruq possa ricevere armi, bisogna, secondo Hammond, formare un governo di unità nazionale e accettare la presenza Onu nel Paese. “Dare armi ad una fazione o ad un’altra, che è in pratica quello che è stato chiesto, non risolve la crisi libica e non renderà l’Europa più sicura. Anzi, la metterà più a rischio”. Un ragionamento corretto che però appare assai vago: con quali parti e voci islamiste del parlamento di Tripoli (non riconosciuto) si può arrivare a patti?

E soprattutto elude ipocritamente le responsabilità occidentali sul caos libico: se ingenti quantità di armi circolano nel Paese è perché Washington, Bruxelles e Paesi del Golfo quattro anni fa le hanno distribuite a gruppi di “ribelli”, salvo accorgersi ora trattarsi di “pericolosi terroristi”. La devastazione del Paese nasce dal fallimento dall’operazione Nato del 2011 anti-Gheddhafi il cui fiasco (o “missione non compiuta” come l’ha definito il presidente egiziano al-Sisi) è ormai inconfutabile. Nelle ore in cui la Libia ritorna a fare notizia in Occidente, c’è da chiedersi perché solo ora la comunità internazionale si mostra preoccupata per le sorti libiche e parla di crisi. I segnali che la deposizione del “rais” fosse stata controproducente erano apparsi da tempo. Due eventi in particolare avrebbero dovuto destare dal torpore la comunità internazionale: l’uccisione del console americano John Christopher Stevens a Bengasi in un attacco rivendicato da Ansar ash-Sha’ria (12 settembre 2012) e il rapimento (conclusosi poi con il suo rilascio) dell’ex premier libico Ali Zeidan a Tripoli (ottobre 2013). Una volta liberato, proprio il primo ministro aveva lanciato un allarme rimasto inascoltato: “la Libia è a rischio collasso”. Nessuno si preoccupò allora di parlare di governo di unità nazionale. Né di arrestare il flusso di armi (e di jihadisti) che continuava a scorrere indisturbato in Libia e da qui verso la Siria per combattere il “macellaio” al-Assad.

Il rischio, espresso ieri anche dalla portavoce del Dipartimento di Stato Usa Jen Psaki, che le armi possano finire tra “attori non-statali” è giusto, ma tardivo e ipocrita perché gli “attori” che ora preoccupano l’Europa (l’Italia in primis) sono gli stessi alleati protagonisti della “rivoluzione libica” che anche tanta parte della sinistra europea ha appoggiato. E se gli uomini dello Stato islamico sono ormai noti per essere pericolosi, le milizie che imperversano in Libia e la saccheggiano da 3 anni non lo sono di meno. Gruppi come il Libya Shield Force, la “Stanza delle operazioni dei rivoluzionari libici”, Ansar ash-Sha’ria non necessitano di molte lezioni in termini di barbarie dai presunti affiliati dello Stato islamico. Non parleranno di “califfato”, ma la loro idea esclusivista di stato islamico non è meno preoccupante di quella degli uomini di al-Baghdadi.

E mentre prosegue la coordinazione “ad alti livelli” tra il parlamento di Tobruq e il Cairo nella guerra contro le postazioni Is nel Paese, il Pentagono – tramite il suo portavoce l’Ammiraglio John Kirby ha fatto sapere ieri di non essere stato avvisato dall’alleato egiziano della sua intenzione di condurre raid aerei in Libia. “Non abbiamo partecipato né abbiamo sostenuto [i bombardamenti, ndr]. Né abbiamo preso una posizione su questo [aspetto]”. Nonostante la mancata cooperazione, Kirby ha voluto ribadire che l’Egitto è un partner regionale strategico riguardo al “terrorismo, la stabilità della regione inclusa la pace con Israele”. Insomma, lo sgarbo tra alleati c’è stato, ma “niente è cambiato”.

Ma se procedono (apparentemente) immutati i rapporti tra egiziani e statunitensi, continuano a restare tesi quelli tra Doha e il Cairo. Ieri l’emirato ha deciso di richiamare il suo ambasciatore in Egitto a causa delle parole di un diplomatico egiziano che aveva accusato i qatarini di sostenere il terrorismo. A differenza della Lega Araba che aveva espresso mercoledì la “sua totale comprensione” per la risposta militare egiziana al barbaro assassinio dei prigionieri copti, il Qatar non ha nascosto le sue riserve. Il suo ministro degli Esteri, Saad bin Ali al-Muhannadi, ha infatti dichiarato che le azioni unilaterali (come i raid egiziani in Libia) potrebbero colpire dei civili innocenti e avvantaggiare una sola delle parti coinvolte nel conflitto. La risposta risentita egiziana, affidata al suo rappresentante presso la Lega Araba Tareq Adel, non si è fatta attendere: “Il Qatar supporta il terrorismo”.

A provare a calmare le acque ci ha pensato (invano) il capo del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG) che ha preso le distanze dalle parole di Adel cercando di non riaprire il dissidio scoppiato lo scorso anno in seno al Consiglio quando Arabia Saudita, Emirati Arabi e Bahrein decisero di ritirare i loro ambasciatori da Doha a causa del sostegno di quest’ultima ai Fratelli Musulmani.

E mentre miliziani legati allo Stato Islamico hanno preso controllo dell’università di Sirte e di alcuni edifici governativi, continua l’esodo degli egiziani. Secondo quanto ha riferito all’Agenzia stampa Mena il Maggior Generale al-Anany Hamouda, negli ultimi giorni più di 1.770 persone hanno lasciato il territorio libico per ritornare in Egitto. Per anni la Libia è stata la principale destinazione per i lavoratori egiziani a causa dell’abbondante presenza di petrolio, per la sua vicinanza geografica e per i suoi confini aperti. Fino ad aprile del 2011 (in pratica fino all’inizio delle operazioni militari della Nato), infatti, gli egiziani potevano entrare e risiedere in Libia senza alcun visto. Secondo stime non ufficiali i lavoratori egiziani – impiegati soprattutto nel settore edile e delle costruzioni – erano al tempo di Gheddafi un milione e mezzo.

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