di Chiara Cruciati – Il Manifesto
Hanno bloccato l’aeroporto
di Najaf, minacciato di fermare la produzione di greggio. Sono scesi
nelle piazze di Bassora per arrivare fino a Baghdad: a due mesi dalle elezioni
parlamentari, gli iracheni portano in strada la frustrazione che quel
voto non ha assorbito.
Senza governo e senza vie d’uscita dall’impasse politica, con
il prezzo dei beni di prima necessità che cresce insieme al tasso di
disoccupazione, i continui blackout elettrici che rendono impossibile
sopportare i 48 gradi dell’estate irachena, da una settimana migliaia di
persone stanno protestando nelle grandi città sciite, Bassora, Nassiriya, Najaf, Baghdad, Karbala, Dhi Qar.
Ieri è stato il giorno peggiore: nella provincia di Maysan le forze
irachene hanno aperto il fuoco sulla folla che aveva preso di mira gli
uffici del partito di governo Dawa e quelli dell’organizzazione sciita
filo-iraniana Badr, uccidendo due manifestanti. Un’altra vittima si era
registrata venerdì.
A Dhi Qar i manifestanti hanno tentato di entrare nella casa del
governatore. E ieri il governo, ancora guidato dal primo ministro
al-Abadi, ha allertato l’esercito. Uomini del controterrorismo
sono stati dispiegati a Bassora a protezione dei giacimenti petroliferi,
nei giorni scorsi minacciati dalle tribù locali: o assumono i giovani
disoccupati al posto degli impiegati stranieri, è la richiesta dei capi
tribali della città, o fermiamo la produzione.
Lo hanno fatto per qualche ora: hanno bloccato le strade per il porto
di Umm Qasr e da giorni presidiano i giacimenti a Bassora, un’area dove
800 società petrolifere producono tre milioni di barili di greggio al
giorno ma dove non esiste una rete fognaria.
La risposta è debole: alla rabbia per l’assenza di intervento, di
elettricità nonostante le ricchezze energetiche, di lavoro nonostante la
presenza di compagnie petrolifere, Baghdad replica oscurando internet per impedire alle persone di organizzarsi e inviando l’esercito.
A dare solidarietà ai manifestanti è stato nei giorni scorsi
l’Ayatollah Ali al-Sistani, massimo leader sciita del paese: «Non è
giusto né accettabile che questa generosa provincia sia una delle aree
più miserabili dell’Iraq», ha detto tramite il suo portavoce per poi
chiedere al governo «di prendere seriamente le richieste dei cittadini».
Secondo produttore di greggio dell’Opec, sull’Iraq pesa un
tasso di disoccupazione di oltre il 20%, che si alza soprattutto tra i
giovani: un dato importante tenuto conto che il 60% della popolazione ha
meno di 24 anni.
E mentre le autorità sono impegnate dalla scorsa settimana nel
riconteggio dei voti delle elezioni del 12 maggio, bloccando di fatto i
tentativi di coalizione del vincitore (momentaneo) Moqtada al-Sadr, il
paese resta appesantito dalle politiche degli ultimi 15 anni, quelli
post-invasione Usa: corruzione diffusa, mancanza di servizi, carenze
infrastrutturali.
Non va sottovalutata la geografia della protesta: sta investendo l’Iraq sciita,
la maggioranza della popolazione che non ha subito la stessa
marginalizzazione della comunità sunnita dopo il 2003 ma che è
pienamente consapevole della disuguaglianza che attanaglia il paese.
Aveva provato a denunciarla con il voto. Ma per ora è tutto congelato.
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