La guerra è cominciata davvero. Commerciale, per ora, ma per davvero. Dalla mezzanotte di Washington (le 6 in Italia) gli Stati Uniti hanno cominciato ad applicare dazi di ingresso pari al 25% del valore di 818 merci cinesi, per un totale di 34 miliardi di dollari. La Cina farà lo stesso a partire dalle ore 18 italiane di oggi (mezzanotte per Pechino), colpendo 545 prodotti made in Usa.
Le cronache narrano di un Trump deciso ad allungare la lista dei prodotti sovratassati per altri 16 miliardi, entro il mese di agosto, portando così il totale a 50 miliardi. E di Pechino che ovviamente si prepara a fare altrettanto.
Perché ovviamente? Perché nessun paese può accettare di vedere le proprie esportazioni svantaggiate per una decisione politica, dunque è “costretto” a rispondere per non perde unilateralmente quote di mercato.
Identica sorte è stata annunciata da Trump per le merci provenienti dall’Unione Europea, legando in questo caso la minaccia al limitato contributo economico che gli europei darebbero al mantenimento della Nato. Nel caso della Cina, invece, la motivazione ufficiale parla di “sicurezza nazionale” messa in discussione da presunti “furti” di know how teconologico da parte di aziende cinesi.
Scorrendo le liste di prodotti sottoposti a dazi punitivi, però, la scena sembra esattamente opposta: gli Stati Uniti colpiscono in larga parte prodotti hi tech provenienti da Pechino (esclusi di smartphone Apple, che vengono prodotti alla Foxxcon di Shenzen), mentre la Cina punta a far male ai prodotti agricoli coltivati nel midwest, ossia gli stati che hanno maggiormente supportato l’ascesa di Trump. L’impressione è insomma che sia la Cina il paese tecnologicamente avanzato, e gli Usa quello “depresso”.
Non è complessivamente così, è ovvio, perché specie nel settore militare gli Usa mantengono un certa supremazia tecnologica. Ma se si guarda a quel che viene fabbricato negli Stati Uniti e poi venduto all’estero – armamenti a parte – effettivamente dall’America non è che parta più chissà qualche merce hi tech. La delocalizzazione della produzione, decollata all’inizio degli anni ‘90, dopo la caduta del Muro di Berlino e dell’URSS, ha svuotato la capacità produttiva degli Stati Uniti in moltissimi settori, tagliando drasticamente sia le esportazioni che l’occupazione (circa 100 milioni di cittadini statunitensi sono da parecchio tempo disoccupati, ma non rientrano nelle statistiche sulla disoccupazione in quanto classificati tra gli “scoraggiati”).
Si capisce facilmente, dunque, come la strategia di Trump sia quella di imporre una “rilocalizzazione” della produzione manifatturiera alle multinazionali yankee che oggi importano negli Stati Uniti i propri prodotti fabbricati altrove. In questo modo pensa di alleviare la disoccupazione reale interna, e dunque la povertà diffusa che ha reso alcuni quartieri delle grandi città una serie di tendopoli a cielo aperto, quindi anche il malessere sociale che alla fine ha trovato proprio in Trump il più improbabile dei “campioni”.
Ma le guerre commerciali si sa come nascono, non si sa mai come finiscono. Si sa, comunque, chi è che ci rimette: tutti quelli che vi partecipano.
Il primo caduto sul fronte è certamente il Wto, l’organizzazione mondiale del commercio che dagli anni ‘90 fino all’inizio dell’attuale crisi (2007-2008) era diventata la camera di compensazione e gestione dell’egemonia economico-politica degli Stati Uniti sul resto del mondo. Il modello di relazioni internazionali incarnato dal Wto – il neoliberismo mondializzato, chiamato anche “globalizzazione” – è quindi ufficialmente defunto, anche se molte delle politiche economiche regionali (per esempio nell’Unione Europea) sono fermamente inchiodate agli assiomi che l’hanno reso famoso. Basti pensare all’”austerità” che dovrebbe per motivi misteriosi generare “crescita solida e sana”...
Le prime proiezioni sulla distribuzione dei danni delle guerra commerciale, ora effettiva, sembrano smentire frontalmente le speranze di Trump.
«Al contrario di quello che sembra credere l’amministrazione Trump, il commercio non è infatti un gioco a somma zero – spiegano gli analisti di AWS –. Cercando di rinegoziare il Nafta (il North American Free Trade Agreement firmato da Stati Uniti, Canada e Messico) e minando la regolamentazione dell’ordine commerciale globale, l’amministrazione Trump sta già seminando molta incertezza. Continuando di questo passo, l’intero Nord America rischia di diventare il grande perdente, specialmente se il resto del mondo continuerà a mantenere l’assetto di libero scambio che a lungo ha permesso agli Stati Uniti di primeggiare».
Sembra insomma che questa guerra, specie se sviluppata fino al livello di 500 miliardi di dollari annui, vada a preparare un inedito “isolamento” del Nord America che lascerebbe paradossalmente spazio a Cina e persino Russia, se dovessero restare fedeli al principio del “libero commercio” con il resto del mondo, a cominciare dall’Europa.
Più di un osservatore fa notare che 500 miliardi annui sono più delle esportazioni statunitensi in Cina, il che renderebbe insufficiente una risposta di Pechino solo su questo terreno. A quel punto dovrebbero esser prese dai cinesi misure diverse – per esempio sull’acquisto di titoli di stati statunitensi – aprendo così fronti oggi inimmaginabili.
L’adagio è sempre lo stesso, ma su una scala dimensionale enormemente maggiore di quelle passate: le guerre simmetriche (tra paesi che possono vantare grosso modo le stesse dotazioni) si sa come cominciano, ma non come finiscono.
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