Era solo questione di tempo, si sapeva... ma il guaio è successo subito.
Aver delegato alla “guardia costiera libica” il compito di “soccorrere” i gommoni alla deriva diretti verso l’Italia era la classica idea sbagliata che ritorna in faccia come un boomerang.
La “guardia costiera libica” è, nella realtà vera, una milizia teoricamente obbediente al “primo ministro riconosciuto dall’Onu”, Al Serraj. Il quale, di fatto, controlla poco più della città di Tripoli grazie alle truppe e alle navi dell’Occidente. Questa milizia tribale – la struttura sociale libica è fatta di tribù – è stata dotata di qualche guardiacosta di seconda mano regalato dall’Italia per svolgere quella funzione. Considerare questa roba alla stregua di un “esercito regolare” – che pure non è fatto di stinchi di santo – è un insulto all’intelligenza che solo la stampa di regime riesce ad avallare.
E’ successo quindi che una nave della Ong catalana Open Arms (“braccia aperte”) ha ripescato in mare una donna – Josephine – aggrappata a un relitto da due giorni. Insieme a lei due cadaveri, una donna e un bambino. Il racconto dell’unica superstite ha portato Oscar Camps, fondatore di Open Arms, a dire: “La Guardia Costiera libica ha detto di aver intercettato una barca con 158 persone fornendo assistenza medica e umanitaria, ma non hanno detto che hanno lasciato due donne e un bambino a bordo e hanno affondato la nave perché non volevano salire sulle motovedette”. Non volevano tornare in Libia, insomma, ossia dal posto da cui stavano fuggendo; e quindi tre esseri umani sono stati lasciati sui resti di un gommone distrutto deliberatamente, nella convinzione che nessuno mai avrebbe saputo di questo triplice omicidio.
Davanti all’enormità della cosa, il rodomonte che dovrebbe ogni tanto fare il ministro dell’interno non è riuscito a trovare difesa migliore che chiamarla “fake news”. Indifferente al fatto che i testimoni sono numerosi, altamente qualificati, più che attendibili in qualsiasi processo verranno chiamati. Incapace, soprattutto, di affrontare con serietà le conseguenze tragiche delle proprie decisioni (in buona parte ereditate da Marco Minniti e dai governi Pd, peraltro).
Non pago di questa fesseria, il ministro ha voluto far capire senza ombra di dubbio la sua idea di “responsabilità politica”, che non passerebbe al vaglio dell’esame del primo anno di università: “Sfido chiunque a trovare tweet dove invito a lasciar annegare qualcuno a mare, il mio obiettivo è salvare tutti, soccorrere tutti, nutrire tutti, ma evitare che tutti arrivino in Italia”. Come se davvero un ministro di polizia fosse solito dare ordini via tweet invece che per le normali linee di comando ministeriali; o come se davvero un ministro fosse così stupido dal diramare per iscritto un ordine del genere, con la certezza che – prima o poi – quel foglio sarebbe uscito dagli archivi o diventato normalmente consultabile.
Come se, insomma, l’aver delegato una banda tribale ad occuparsi del traffico di esseri umani gestito da un’altra banda tribale – o magari dalla stessa – esentasse il mandante dalle conseguenze tragiche che ne possono derivare. Di esempi potremmo farne a decine (nominare sceriffo il capo di una banda di rapinatori, ecc), ma preferiamo lasciare la parola ad Annalisa Camilli, giornalista di Internazionale, che era a bordo della nave di Open Arms.
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Omissione di soccorso o naufragio? Sopravvive solo una donna
Annalisa Camilli
Questo articolo fa parte della serie Cronache dal Mediterraneo, il diario di Annalisa Camilli sulla nave impegnata nel soccorso dei migranti nel Mediterraneo.
È una donna, si chiama Josephine, è originaria del Camerun. È stata trovata a pancia in giù attaccata a una tavola, quello che resta del fondo del gommone su cui viaggiava insieme ad altre decine di persone. Ha aspettato per due giorni che arrivassero i soccorsi, con i vestiti bagnati attaccati alla pelle, poi alle 7.30 di mattina del 17 luglio, dal ponte della nave Open Arms, a 80 miglia dalla Libia, qualcuno ha visto i resti del gommone.
Un soccorritore spagnolo di 25 anni, Javier Filgueira, si è buttato in acqua dalla lancia di soccorso quando ha visto che Josephine poteva essere ancora viva. L’ha raggiunta a nuoto tra i detriti sperando che non fosse uno sforzo inutile. “Quando le ho preso le spalle per girarla speravo con tutto il mio cuore che fosse ancora viva”, racconta Filgueira, un volontario di Madrid, ancora scosso.
“Dopo avermi preso il braccio, non smetteva di toccarmi, di aggrapparsi a me”, racconta il ragazzo. Era viva Josephine e lo ha guardato negli occhi come per supplicarlo, poi gli ha preso il braccio, lo ha stretto. Altri soccorritori sono arrivati a prenderla per trasportarla sul gommone di soccorso. L’hanno sollevata e portata sulla lancia, al sicuro. Almeno lei ce l’ha fatta. Gli occhi di Josephine guardavano nel vuoto, mentre una volontaria le teneva la testa e provava a riscaldarla. È stata portata a bordo della nave spagnola con la diagnosi di ipotermia.
La temperatura del corpo stava scendendo così tanto che se i soccorsi avessero tardato ancora non ce l’avrebbe fatta. Come non ce l’ha fatta un bambino di circa cinque anni che è morto per ipotermia a fianco di una donna, presumibilmente sua madre. Anche lei è stata trovata morta ricurva su una tavola, la pelle delle braccia bruciata dal gasolio fuoriuscito dalle taniche del gommone su cui viaggiavano. Per loro non c’è stato niente da fare. Il corpo del bambino senza vita e quello della donna che gli è stata trovata affianco sono stati portati a bordo della Open Arms e giacciono sulla prua della nave avvolti in due sacchi bianchi. Per la dottoressa di bordo Giovanna Scaccabarozzi la donna era morta da diverse ore mentre il bimbo era deceduto da poco. Nessun dettaglio per il momento su cosa sia successo agli altri passeggeri del gommone.
Omissione di soccorso?
Riccardo Gatti, portavoce dell’organizzazione Proactiva Open Arms, ricorda che il 16 luglio, mentre era al timone del veliero Astral, navigando nel canale di Sicilia, per tutto il giorno ha ascoltato alla radio una conversazione tra un mercantile e la guardia costiera libica, parlavano di due gommoni in difficoltà a circa 80/84 miglia dalle coste libiche.
Il mercantile Triades diceva di essere stato allertato dalla guardia costiera italiana e chiamava la guardia costiera libica per intervenire in soccorso dei gommoni. Le imbarcazioni con i migranti a bordo sembravano partite da Khoms, una città a est di Tripoli. La conversazione tra il mercantile Triades, diretto a Misurata, e la guardia costiera libica è andata avanti per molte ore. I volontari della Open Arms hanno ascoltato la conversazione alla radio.
Poi in serata la guardia costiera libica ha detto al mercantile di ripartire perché sarebbero intervenute le motovedette libiche. “Quello che ipotizziamo è che i libici siano intervenuti, ma non riusciamo a spiegarci cosa sia successo perché abbiamo trovato i resti di un gommone affondato, due morti e solo un sopravvissuto”, dice Gatti. “Non sappiamo che pensare: chi ha distrutto i gommoni in questo modo? E perché queste persone sono state lasciate morire di freddo attaccate a una tavola?”.
Oscar Camps, fondatore dell’organizzazione umanitaria, non ha dubbi: si è trattato di omissione di soccorso, la responsabilità della morte della donna con il bambino è dei libici che hanno rivendicato nelle stesse ore di aver compiuto un salvataggio nella stessa zona e di aver soccorso 158 persone. La guardia costiera libica in un comunicato ha detto di aver intercettato un gommone con 158 persone a bordo più o meno nella stessa zona in cui sono stati trovati i morti e la donna sopravvissuta.
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