In altri tempi, un vertice Usa-Russia era un evento da cui poteva dipendere tutto. Nel mondo diviso in due serviva a decidere se prevalevano i venti di pace o quelli di guerra (condotta in paesi terzi, visto il reciproco stallo nucleare). In quello unipolare della “globalizzazione” vincente, dopo la caduta dell’Urss, consolidava l’idea che ormai la Storia era finita e il mondo sarebbe sempre andato avanti in quel modo.
Quel mondo non esiste più.
Trump arriva a Mosca per vedere Vladimir Putin lasciandosi alle spalle la solita intervista-choc in cui demolisce un altro pilastro del vecchio ordine unipolare: l’eterna amicizia tra Europa e Stati Uniti. Per chi ha qualche nozione di storia, questa “amicizia” ha avuto per 70 anni i tratti del protettorato militare, in funzione anti-sovietica prima e apertamente espansionistica poi. Un protettorato – una “sovranità limitata” – entro cui l’Unione Europea poteva crescere economicamente, integrarsi progressivamente tramite i trattati, fino a competere clamorosamente con l’economia statunitense, senza che i rapporti si guastassero mai sul serio. L’“ombrello Nato” assicurava che quella competizione era tollerabile, non strategica, visto l’interesse superiore (conservare e rafforzare l’alleanza dell’Occidente capitalistico contro il resto del mondo, comunque in buona parte integrato).
«L’Unione europea è nemica degli Stati Uniti» non è una frase che si può far finta di ignorare (ci prova il povero Donald Tusk, definendola “fake news” mentre tutti i giornali del mondo riportano per esteso le dichiarazioni del presidente col ciuffo). E’ persino banale constatare che, come sempre, Trump la spara grossa per trattare da una posizione di forza e quindi avanzare “una proposta che non si può rifiutare”.
Ma la natura del contendere tra Unione Europea e Stati Uniti va ben al di là dei 150 miliardi di disavanzo commerciale a sfavore dei secondi. L’accusa, rivolta soprattutto alla Germania, è di fare i furbi lasciando agli Stati Uniti il compito di spendere per la difesa mentre l’Europa accumula surplus commerciali mantenendo rapporti anche con chi è teoricamente sottoposto a sanzioni (la Russia, con il gasdotto North Stream, l’Iran, ecc), finendo così per danneggiare soprattutto gli interessi di parecchie multinazionali basate negli Usa.
Colpisce di più, nei commenti degli esterrefatti analisti mainstream, la classifica dei “nemici” secondo i criteri di The Donald: anche la Russia come un nemico «in certi aspetti», e la Cina «economicamente», precisando che «Non vuol dire che sono cattivi. Non vuol dire nulla. Vuol dire che sono concorrenti».
Sembra, senza volerlo, un sintetico trattato di critica dell’economia politica: il conflitto è fondamentalmente basato sugli interessi economici, visto che nessuno dei soggetti indicati mostra apprezzabili differenze di sistema. Ma con la fine della globalizzazione neoliberista si sono andate formando aree continentali che competono apertamente tra loro. Dunque non ha più senso considerare alcuni “amici” e altri “nemici” (a parte i regimi progressisti dell’America Latina, che oltre a limitare gli interessi delle multinazionali Usa presentano anche qualche tratto di “sistema più popolare”). Tutti sono sia una cosa che l’altra, senza più veli ideali o morali a nascondere questa brutale realtà.
In effetti, per gli ideologi dei nostri media mainstream, è una mazzata da cui non sarà facile riprendersi. Hanno passato 70 anni ad indicare gli Usa come modello, amici, protettori e garanzia di libertà (di impresa). Ora stanno diventando orfani...
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