Storia dell’ingegner Morandi, della Gronda, di una città
spaccata e di una privatizzazione. Perché per la manutenzione ordinaria
del ponte Polcevera sono stati spesi 24 milioni di euro dal 1982 ai
nostri giorni: il 98% prima del 1999, quando le autostrade erano
pubbliche.
Antefatto. Il ponte di Ariccia, crollato nel 1967; tre passi nel delirio
Il nuovissimo cavalcavia sul Polcevera fu inaugurato a Genova il 31
luglio 1967. Da Saragat. Sei mesi prima, in gennaio, era crollato il
famoso ponte di Ariccia, cittadina presso Roma, sull’Appia. L’aveva
costruito – o finito – papa Mastai, a metà del diciannovesimo secolo,
imitando i più arditi acquedotti romani a tre piani; Dopo quasi
cent’anni l’avevano distrutto una prima volta gli aerei angloamericani,
(1 febbraio 1944). Fu subito ricostruito, ma un po’ “alla romanella”,
come si dice nella capitale. Ci furono tre morti ad Ariccia, nel crollo
del 1967 che avvenne di notte. La circolazione tra Roma e il Sud fu
sconvolta. Se ricordiamo l’episodio non è per ricavarne amare
riflessioni sulle antiche malefatte dei pontefici e dei pontieri; non
erano errori degli architetti papalini – ma una causa diversa, una
questione di controllo successivo e di manutenzione, come si dice tra
gli addetti ai lavori. Dal canto suo lavoce.info elenca (in un articolo
di Angela Bergantino e Andrea Boitani) sei recenti crolli di ponti,
tutti Anas, tra 2013 e 2016.
Ricordare il ponte di Ariccia è l’occasione per citare un editoriale di Vittorio Gorresio apparso sulla Stampa
il 20 gennaio 1967 col titolo: “Nessuno in Italia controlla i ponti”
completato dall’occhiello “La legge li ignora”. Gorresio faceva notare,
con ammirevole buonsenso, lo scaricabarile tra le varie amministrazioni,
statali e locali, tutte maldisposte all’opera e alla spesa di
manutenzione e riparazione. Toby Dammit, protagonista del racconto Non scommettere la testa di Edgar Allan Poe, è il protagonista dell’episodio diretto da Fellini nel film collettivo Tre passi nel delirio. (gli
altri autori sono Malle e Vadim). Toby Dammit, interpretato da Terence
Stamp, scommette con il diavolo, secondo il racconto di Poe: nel film la
scommessa consiste nel saltare al di là del Ponte rotto con la sua
Ferrari: la lancia a tutta velocità, ma perde e ci lascia la testa che
ha scommesso, tagliata da un cavo d’acciaio. Morale: anche i proprietari
dei ponti scommettono la testa con il loro diavolo, il profitto: “niente
manutenzione; non avverrà niente. Scommettiamo”?
La Gronda democratica
Il lungo ponte fatto da Riccardo Morandi per connettere le due
autostrade esistenti a Genova, per Milano e verso la Costa Azzurra,
collega anche la città borghese con il Ponente operaio, sorvolando case
di abitazione, fabbriche, strade, binari ferroviari e il letto del
Polcevera. Il nuovo percorso è però subito utilizzato anche dal
crescente traffico pesante da e per il porto e si trasforma ben presto
in un imbuto che non libera Genova ma la mette in altre difficoltà.
Passano anni, s’intrecciano dibattiti sul che fare e all’inizio del
nuovo secolo una decisione è ormai presa dall’insieme delle autorità
pubbliche, stato, regione, comune di Genova. E’ opportuno costruire una
seconda via. Di fatto Genova mancava e manca di una strada-percorso che
consenta di separare il traffico locale da quello di attraversamento
della città, in modo analogo a quanto avviene per altre grandi
metropoli. Le alture sovrastanti Genova rendono tale strada al tempo
stesso difficile e in pratica indispensabile. Si sale e si scende dalle
colline, oppure ci si mette in fila sul Morandi (si comincia a
chiamarlo così).
Ecco che tra comune, regione e governo con tanto di passaggio al
CIPE, si decide, con una discussione che ha inizio nel decennio ottanta,
e si completa trent’anni dopo, di dare il via alla Gronda, nome del
percorso alternativo. Passano dunque anni e decenni. La mossa risolutiva
del CIPE è di rompere gli indugi e affidare il compito alla società che
gestisce le autostrade ed è ormai privata, mantenendo il vecchio nome.
Autostrade per l’Italia, Aspi, si fa convincere dalla giunta Vincenzi,
al governo della città. L’accordo prevede un percorso, a pagamento, di
un’ottantina di chilometri tre quarti dei quali in galleria. Il compito
di trovare una soluzione che concili i diversi interessi, ricade in
particolare sull’assessore alla cultura Andrea Ranieri. Il progetto è di
aprire (o consentire) una discussione cittadina per scegliere un
percorso, eventualmente diverso, alternativo a quello deciso dai
dirigenti dell’Aspi (Autostrade per L’Italia). L’Aspi accetta di aprire
la discussione, insolita in Italia, dove nella sola Toscana, ricorda
Ranieri, è prevista la discussione pubblica preventiva.
A Genova la discussione è solo parziale, perché una scelta zero –
nessuna Gronda – non è più possibile, dopo che il CIPE ha già deciso, con
l’affidamento ad Aspi. Si tratta di scegliere o addirittura cambiare il
percorso genovese, individuando quello meno impattante. Per risolvere il
compito, in inabituali modi democratici, Ranieri si rivolge a un
esperto politologo, Luigi Bobbio che raccoglie un gruppo di persone
competenti e ben accette che guidino il pubblico dibattito. La
discussione ha luogo a Genova nel corso del 2010 e si svolge nei
quartieri del Ponente, dove gli abitanti che cercano di evitare il
disagio della Gronda, si riuniscono e suggeriscono alternative. La
scelta varia tra tre vie che solcano in vario modo i quartieri. La
discussione è accesa; Ranieri nei suoi articoli, pubblicati da Huffigton Post e da Inchiesta,
osserva che i funzionari di Aspi che credono di cavarsela con un po’ di
chiacchiere si trovano a mal partito: alcuni tra gli abitanti ne sanno
più di loro e li costringono a studiare ancora. Quando vince il nuovo
sindaco, Marco Doria, la Gronda non fa più parte del suo programma e
viene accantonata, con poco o nullo dispiacere da parte di Autostrade.
L’opzione zero che molti genovesi preferivano negli anni novanta e
poi al tempo della grande discussione, contrasta con l’eccesso di
traffico evidente negli ultimi anni, tutto convogliato sul Ponte. Questo
non significa che se non ci fosse stata discussione o si fossero
evitate le lungaggini, il Ponte non sarebbe caduto e le vite si
sarebbero salvate. La Gronda comunque non sarebbe stata in funzione, nel
2018. Diverso l’esito con le necessarie manutenzioni, per tenere il
Ponte nelle migliori condizioni possibili e comunque sotto controllo
accurato.
Morandi spiega le manutenzioni che non si fanno perché costano troppo
Parla l’autore. Da un po’ di tempo, da quando è iniziata la
discussione sull’opera, molto prima del crollo, il viadotto sul
Polcevera ha cambiato nome; per brevità o per spregio lo si chiama
Pontemorandi. Riccardo Morandi, l’autore, era considerato allora un
ingegnere di prima categoria, un formidabile innovatore, ma anche, da
un’altra parte della professione, un visionario pericoloso. A pensarla
così forse era la sezione più conservatrice, esclusa dalle grandi opere
dell’Iri che guidava lo sviluppo autostradale senza alternative: senza
troppi concorsi né gare. Morandi era comunque un personaggio notevole,
una delle poche persone del secolo da ricordare. La damnatio memoriae che
gli è stata buttata addosso è ingiusta. Egli era un professionista
qualche passo avanti agli altri; ma non si accontentava di questo come
tanti archistar del giorno d’oggi. Dieci anni dopo la costruzione del
viadotto sul Polcevera, Morandi, in un’intervista rintracciata nelle
teche Rai da Canale Cronaca Nera mostrava il suo grande
buonsenso e il suo interesse per la città e per gli abitanti.
“L’atmosfera salina della città e il forte vento di scirocco carico di
umidità e di salsedine proveniente dal mare che è distante meno di un
chilometro in linea d’aria, devono essere considerati fattori di
rischio. L’aria di mare rischia di attaccare la struttura portante in
acciaio con maggiore aggressività: occorrerà dunque una manutenzione
scrupolosa e attentissima”.
Poi rivolgeva l’attenzione all’Italsider, la siderurgia di Genova che
incombeva sul Ponente: “Gli scarichi delle acciaierie andranno studiati
e monitorati per verificare se e come interagiranno con la struttura
del ponte e i suoi componenti. Anche questo diventa un fattore
significativo”. Infine parlava della sua opera, del desiderio che
esistesse nel tempo e dei pericoli della corrosione: “Qualsiasi
ingegnere o architetto sogna che le sue opere gli sopravvivano se non
che siano addirittura eterne. Ma dobbiamo tutti essere ben consapevoli
che il nostro lavoro è al servizio dell’urbanistica e dei cittadini;
lavorare per finire sui libri o schiavi dei record non è serio. Il mio
ponte è un’ottima costruzione che con la giusta manutenzione si rivelerà
utile e duratura ma la corrosione è di fatto un pericolo per qualsiasi
opera costruita con qualunque materiale”. Ma la giusta manutenzione è
mancata. Il ponte sottoposto a un eccesso di traffico: l’unico ponte in
città.
Le autostrade passano di mano e diventano private
Gli anni novanta iniziano sostanzialmente con Tangentopoli – o meglio
con il suo antefatto, l’esaurimento del patto chimico tra stato e
mercato, sotto forma di Eni e Montedison, con l’imprevista vittoria del
primo e il passaggio all’Eni dell’Enimont, la società comune, in cambio
di 2.800 miliardi di lire. La Procura di Milano capì che era venuto il
suo momento e aprì il processo al mondo: quello alto, quello di mezzo e
quello basso: partiti, grandi imprese, persone. Di conserva anche il
capitalismo scelse la sua rotta: per salvare il salvabile bisognava
rovesciare i rapporti di forza nel sistema di potere. La nuova linea era
di ricompattare il sistema privato, facendo restituire al mercato tutti
i poteri capitalistici perduti. Lo Stato si sarebbe adattato; lo
slittamento era simile a quanto avveniva in vari paesi d’Europa. I
soliti partiti chiusero bottega: la loro forza era solo apparente.
Lo Stato cominciò a vendere pezzi d’industria e di servizi e a
eliminare interi sistemi di partecipazioni statali; senza considerare le
banche, la svendita principale fu quella delle autostrade e più tardi
dei telefoni. Il venditore – lo stato – si dette da fare per trovare un
acquirente, ma pochi erano disposti e la borsa – quanto dire il mercato –
era molto sospettosa. Dell’estero neanche parlarne, anche se si fecero
svariati tentativi, come quello, rimasto famoso, del Britannia,
il panfilo reale inglese affittato per metter a proprio agio il gran
mondo e vantare agli ospiti, finanzieri e banchieri internazionali, le
italiche e disponibili bellezze. Le decisioni in un primo tempo le
prendeva per tutti Bankitalia e in particolare il governatore Carlo
Azeglio Ciampi che avrebbe in seguito guidato tale politica direttamente
come primo ministro, come ministro del tesoro e responsabile
dell’economia e infine presidente della repubblica. Decisivo l’apporto
di Mario Draghi allora direttore generale del tesoro.
Le autostrade furono vendute dall’Iri che aveva dato inizio alla loro
costruzione alla fine del decennio cinquanta. Partendo da Milano,
l’Autostrada del sole doveva arrivare a Roma e poi a Napoli. Era più di
una via di comunicazione; era la modernità del paese che prendeva vita.
L’Iri aveva affidato un compito tanto arduo a Fedele Cova che per i
punti critici si era rivolto a un gruppo di professionisti tra i quali
spiccava Morandi. Era materia viva, Autostrade; una volta realizzata,
era la colonna vertebrale del Paese, ma se l’ordine era di vendere,
allora si sarebbe fatto. Non contava il prezzo che in effetti fu scarso;
bisognava fare presto. Si trattava di mostrare al mondo la maturità
capitalistica dell’Italia.
Quando la svendita ha inizio, alla fine degli anni novanta, in
pratica c’è un solo compratore, la famiglia Benetton che nel caso assume
il nome di Schemaventotto. Passa di mano il 30% del capitale di
Autostrade per 2,5 miliardi di euro. Metà prezzo è pagato dai Benetton
con soldi propri e l’altra metà, 1,2 miliardi, con soldi delle banche,
in buona parte uscite anch’esse dall’Iri. La seconda fase qualche anno
più tardi, è affidata a una Newco28 filiazione di Schemaventotto che
compera il 54% del capitale per 6,5 mld. e fa cassa vendendo subito il
12%. Alla fine del decennio ’90 i presidenti del consiglio sono Prodi
prima e poi D’Alema, mentre ministro economico è sempre Ciampi e Draghi
lo spalleggia come direttore generale del ministero. Il governatore di
Bankitalia è diventato Antonio Fazio. La decisione di vendere – giusta o
sbagliata che fosse – nasceva dal concerto di costoro.
Dopo essersi assicurati il controllo di Autostrade si sviluppa per i
Benetton una fase finanziaria decisiva che ha il suo punto di forza nei
caselli e nei pedaggi. Il controllo è esercitato da una catena di
società: In teta Edizione, braccio operativo, probabilmente finanziaria
di famiglia è padrona di Sintonia che detiene le azioni di controllo
della società operativa, Atlantia. Quest’ultima è proprietà di Sintonia
ma solo per il 30%, mentre altri grandi soci, rappresentati nel
consiglio di amministrazione di Atlantia sono il Fondo sovrano di
Singapore, nome d’arte Gic Pit con l’8%, il Fondo della Cassa di
risparmio di Torino con il 5% e la Holding HBC cui fanno capo una decina
di altri fondi e altre banche con un altro 5% complessivo. L’altra metà
del capitale è distribuita nella finanza mondiale e Atlantia spiega
volentieri che si tratta di capitali inglesi, europei, americani,
mondiali.
Vendendo le azioni di Atlantia, Sintonia fa cassa e si consente di
investire negli aeroporti di Roma e di Nizza, in altre autostrade in
Italia e in vari paesi d’Europa nonché fuori continente, poi in catene
di ristoranti per viaggiatori, ecc., ecc., per finire con il sistema
autostradale rivale e parallelo spagnolo, Abertis. La finanza
internazionale così collegata serve per ottenere il capitale per la
diversificazione, ma anche per rendere più forte e pressoché
inaccessibile il potere di Atlantia e delle sovrastanti società dei
Benetton. Per rendere ancora più sicura Autostrade per l’Italia Aspi, la
base di tutta la piramide finanziaria, i padroni hanno scelto di
venderne una parte 7% ad Allianz, ultrapotente assicuratrice tedesca e
5% a Silk Road, gruppo finanziario cinese dal nome evocativo.
Riassunta così la forza sorprendente della catena di controllo su
Aspi occorre aggiungere un particolare: tutti coloro che hanno speso
molto e si sono in qualche forma associati ai padroni di Aspi, aspettano
fiduciosi di ricavarne profitti. Aspi è stata indicata come la gallina
che produce oro, non a furia di uova miracolose ma a manciate di umili
monetine, eurini, quelli dei pedaggi, raccolti nei caselli. C’è l’inchiesta del 2004 di Report
condotta da Milena Gabbanelli. Risultava un divario eccessivo tra
proventi dai pedaggi e spese per gestire le tratte autostradali. La
domanda rimasta senza risposta era perché lo Stato che ha fatto un così
cattivo affare in partenza e poi dovrebbe parametrare i pedaggi al
traffico, non limita gli aumenti dei pedaggi visto che il traffico è
aumentato in modo imprevisto? Non impone almeno, da concedente delle
autostrade, una manutenzione paragonabile a quella delle autostrade
esistenti altrove in Europa? Ma forse lo Stato temeva e teme la
possibile disaffezione dei soci stranieri di Aspi e di Atlantia. Quieta non movere et mota quietare.
Dati inverosimili
Scarsa voglia di fare manutenzione ordinaria. I dati ufficiali di
Aspi-Atlantia sembrano inverosimili. Per la manutenzione ordinaria del
Ponte Polcevera sono stati spesi 24 milioni di euro dal 1982 ai nostri
giorni; per la precisione 24.610.500. Il 98% della cifra è stato
utilizzato prima del 1999 quando le autostrade erano pubbliche. Abbiamo a
che fare con due periodi di durata simile, come dire due metà tempi.
Nel primo tempo la spesa è del 98%, nel secondo tempo del 2%. Il secondo
tempo è quello amministrato da Atlantia. Per dirla in altri termini:
nel primo periodo la spesa di manutenzione è stata di 1,3 milioni di
euro all’anno, in tutto 24 milioni circa. Negli anni seguenti la spesa è
precipitata a 23 mila euro l’anno per un totale, nei 19 anni tra 1999 e
2018, di 470 mila euro. Riccardo Morandi si sarebbe rammaricato di una
manutenzione così, tutt’altro che “scrupolosa e attentissima”. D’altro
canto, come turbare un flusso tanto imponente di auto, camion, rimorchi,
Tir? Come imporre rallentamenti e ritardi a Genova e a tutta la
struttura economica del Nord Italia, al turismo ligure, alle famiglie?
L’unica cosa da fare era scommettere, ogni giorno, la propria testa;
scommettere con il diavolo che non sarebbe capitato niente.
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