Ma se c’è da produrre, rischiare, inventare, beh, da tempo hanno alzato bandiera bianca e venduto i gioielli di famiglia a società estere. Anche del made in Italy più famoso, ormai, non è rimasto granché. Si salvano piccoli gruppi di giovani “startuppari”, che almeno provano a inventare qualcosa, ma – se bravi – presto cannibalizzati da multinazionali con sedi altrove.
Eppure si continua a raccontare che “il privato è più efficiente del pubblico”, con seriosissimi giornalisti “democratici” che vanno a registrare le molte inefficienze della pubblica amministrazione, ma senza azzardarsi mai a mettere il naso negli affari dei privati (al massimo leggono i mandati di cattura, quando scoppia l’ennesimo scandalo).
E invece “il pubblico” – inteso come industria, residuo di quello che era l’immenso patrimonio dell’Iri (smantellato dai “grandi democratici” come Prodi, D’Alema, Bersani, Berlusconi, Bossi, ecc) – è praticamente rimasto l’unica “eccellenza italiana in grado di competere sui mercati globali”.
Questa sintetica ricostruzione postata da Giuseppe Masala, accorpando le “buone notizie” industriali degli ultimi giorni, chiarisce la questione meglio di tanti slogan.
Ci si vede in piazza...
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Apro il Corriere e vedo un articolo dove si illustra la trattativa in dirittura d’arrivo tra Leonardo e la società aerospaziale cinese statale Comac per la costruzione di un aereo civile da 280 posti. Notizia che arriva dopo quella di ieri dell’accordo tra ENI, British Petroleum e la statale libica Noc per riattivare le esplorazioni petrolifere nel paese.
Tornando indietro alla settimana scorsa poi pensiamo alla vittoria dell’appalto miliardario in USA per la fornitura di elicotteri militari AgustaWestland. Non so se ci avete fatto caso ma c’è un qualcosa che unisce queste tre notizie: tutte le aziende italiana interessate o sono pubbliche o ad azionista di maggioranza pubblico. Nessun privato.
Ecco, basta un po’ sfogliare i giornali all’indietro nei giorni e si nota che le uniche aziende vincenti a livello mondiale – o comunque in grado di competere – sono a gestione pubblica. Le private non pervenute. E anzi, forse è arrivato il momento di dire un’altra verità: dopo trenta anni di sbronza liberale e privatizzatoria siamo di fronte ad un enorme fallimento industriale, produttivo e finanziario.
Tutto ciò che è stato privatizzato – e che eccelleva durante la gestione pubblica – è finito male. L’industria agroalimentare l’abbiamo persa sommersa anche dagli scandali finanziari (ricordate i bond cirio di Cragnotti?), l’acciaio italiano è stato distrutto dopo 20 e passa anni di gestione Lucchini, la Telecom è distrutta dopo 25 anni di cure di vari capitani coraggiosi (ma coraggiosi in che senso?), l’Alitalia è in balia di un fallimento dopo le cure Ethyad-Montezemolo.
Poi mi viene da pensare all’industria dell’alluminio sarda, dopo decenni di cura privata è tutto chiuso e l’Italia non produce più un grammo di alluminio, ma possiamo enumerare all’infinito una giaculatoria di disastri senza soluzione di continuità.
Possiamo dirlo che la sbronza liberale e privatizzatoria si è dimostrata un vero è proprio terremoto per il nostro tessuto produttivo. E alla fine di questo le uniche aziende che brillano nell’agone internazionale sono quelle poche rimaste pubbliche. Questo è quanto. Spero di non passare troppo per comunista, fascio-corporativo, statal-tangentista e chissà cos’altro. Ma questo è il punto: il frutto peggiore assieme a quell’altra leccornia dell’Euro che ci lascia la Seconda Repubblica è il disastro delle privatizzazioni. Se vogliamo andare avanti facciamo. Continuiamo su questa strada.
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