di Mauro Gallegati – il manifesto 04/09/2019
Ormai è comune leggere che – oltre al debito pubblico – la malattia economica dell’Italia sia la bassa produttività. Questa non ha nulla a che fare con l’efficienza della produrre essendo misurata come rapporto tra il valore aggiunto (il prezzo moltiplicato per la quantità) e la quantità di lavoro – a rigore il costo di questo – impiegato nella produzione. Per aumentare la produttività esistono quindi due vie: produzioni avanzate o nuovi beni e servizi (che hanno prezzi più elevati) e/o ridurre il costo del lavoro. La prima misura è senz’altro più costosa: occorre inventare nuovi prodotti, investire in ricerca risorse che solo uno Stato può permettersi di mobilitare. L’altra via, almeno per le singole imprese, non ha costi diretti immediati sebbene – riducendo la domanda aggregata – diviene costosa per il sistema paese poiché aumenta la disoccupazione, la spesa delle famiglie e quindi, in un periodo più lungo, intacca i profitti delle imprese stesse.
È da 22 anni che da noi si insiste con la seconda via, con provvedimenti sul lavoro. Il mercato del lavoro in Italia è stato oggetto di riforme continue di ispirazione liberista che, identificando la riduzione del costo – soprattutto del salario – con la flessibilità, hanno finito per rendere precaria la vita lavorativa, annullare gli aumenti salariali e ridurre i diritti dei lavoratori, senza aver prodotto effetti apprezzabili sulla disoccupazione che oggi – secondo le statistiche ufficiali – è grossomodo quella di allora. Se misurata in modo appropriato – ad esempio contando per metà gli occupati part-time non per loro scelta e misurando nella forza lavoro anche gli scoraggiati di breve periodo – la disoccupazione è più vicina al 20% che al 10. L’onda liberista colpì anche la sinistra di governo, artefice delle prime riforme e favorevole al “fiscal compact” che ha ispirato lo sciagurato provvedimento del pareggio di bilancio introdotto come modifica costituzionale dal Governo Monti nel 2012.
Il problema dell’occupazione in Italia non è che il mercato del lavoro sia troppo rigido, quanto piuttosto che non ci sono nuovi lavori – per aumentare i quali occorrerebbe superare il modello di sviluppo degli anni '70 fatto di produzioni tradizionali e punte di eccellenza, a basso valore aggiunto, ora non più in grado di essere concorrenziali coi paesi di recente globalizzazione. Così se Lombardia, Veneto ed Emilia sono saltati sul carro giusto, il Sud è rimasto indietro ed ad esso si stanno avvicinando quelle regioni – come Marche ed Umbria – dell’area Nord Est Centro che non sono in grado di trasformare i vecchi distretti industriali. In anni in cui non c’è più relazione tra aumento dell’occupazione e del PIL, quando ormai è evidente che l’ambiente è stato sacrificato in cambio della crescita, e le disuguaglianze mettono a rischio i sistemi democratici e la vita stessa del pianeta, siamo chiamati ad un cambio di rotta, a proporre una alternativa.
E la sinistra deve farlo. Come? È ormai chiaro che dobbiamo investire in ricerca e sviluppo in produzioni meta-sostenibili e ad usare intelligenza artificiale e robot per vivere meglio – pagandoci le pensioni ed un reddito di base – e che i salari correnti – fermi agli anni Novanta – sono troppo bassi per avere una domanda interna sufficiente a produrre un livello adeguato di occupati. L’idea che la deflazione salariale sia efficace nell’aumentare l’occupazione è una idea alquanto farlocca di secoli fa, quando non si era ancora individuato il nesso tra domanda aggregata ed occupazione. Ora è chiaro che gli unici prodotti della deflazione salariale sono il fenomeno dei working poor, ormai un lavoratore su dieci lo è oggi in Italia, la precarizzazione del lavoro – e di conseguenza una pensione da fame – ed una nuova ondata di migrazione, soprattutto giovanile, che sopravanza quella che pare così tanto preoccuparci.
In un contesto simile occorre progettare il futuro per saperlo gestire: uno shock fiscale – a maggior ragione una flat tax – non serve che a peggiorare la distribuzione e a mettere a rischio il già nostro miserrimo welfare. Una società sempre più dematerializzata, dove l’industria è desinata a scomparire*, e la rivoluzione AI cambierà modalità e natura del lavoro, ci attende. Come gestire la trasformazione è la questione a cui siamo chiamati.
Fonte
* Magari sarebbe meglio dire che è destinata a trasformarsi... visto che i campioni in innovazione di oggi, Cina in testa, di industria ne hanno a profusione e ben solida.
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