Non è vero che l’8 settembre rimanga come un nodo irrisolto nella storia d’Italia: atti, ruoli, protagonisti, responsabilità sono chiari e restano incontrovertibili nel delineare l’identità del nostro Paese per una intera fase storica.
Mi permetto quindi di riproporre questo testo nell’idea che si possa fornire ancora un contributo a delineare ciò che è avvenuto nel momento più critico nella storia dell’Italia dall’Unità in avanti.
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Eventi grandi, eccezionali, pongono i popoli e le donne e gli uomini che ne fanno parte davanti alla necessità di scelte drastiche e decisive per l’avvenire della loro nazione, della loro entità collettiva e per loro stessi.
Si verificano passaggi storici che quasi “costringono” a prendere coscienza di verità che, in precedenza, apparivano come latenti o la cui piena consapevolezza sembrava riservata a pochi.
Uno di questi avvenimenti, forse quello davvero decisivo nella storia d’Italia (almeno per la sua parte più recente) fu rappresentato dal vuoto istituzionale creatosi con l’armistizio dell’8 settembre 1943.
In quel contesto emerse la necessità, per i singoli, di compiere scelte cui la gran parte non aveva mai pensato di dover essere chiamata.
In quel drammatico frangente emerse la necessità di esplicitamente consentire o dissentire: il sistema stava crollando e gli obblighi verso lo Stato non costituivano più un sicuro punto di riferimento per i comportamenti individuali.
Lo Stato non era più in grado di pretendere quei “sacrifici per amore” di cui parla Jean Paul Sartre nell’intervista rilasciata nel 1969 a Rossana Rossanda, a proposito della guerra in Vietnam.
In questo senso Claudio Pavone, nel suo fondamentale “Una guerra civile, saggio storico sulla moralità della Resistenza” cita opportunamente Hobbes, riferendolo direttamente all’Italia del 1943: “ L’obbligo dei sudditi verso il sovrano s’intende che dura fino a che dura il potere, per il quale esso è in grado di proteggerli, e non più a lungo, poiché il diritto che gli uomini hanno per natura di proteggere se stessi, quando nessun altro può proteggerli, non può essere abbandonato a nessun patto.” “Il Leviatano pag.216″.
La scomparsa della presenza statale, come si verificò d’improvviso l’8 settembre 1943, poteva essere avvertita con un senso di smarrimento o come un’occasione di libertà.
Però quando le truppe tedesche di occupazione cominciarono a dare un minimo di formalizzazione alla loro violenza e quando, subito dopo, i fascisti crearono la Repubblica Sociale, quando cioè nell’Italia occupata il vuoto istituzionale fu in un qualche modo riempito da un diverso sistema di autorità, la scelta da compiere divenne più dura e drammatica, perché la spontanea, umana solidarietà “tra scampati” dei primi giorni non poteva essere più sufficiente.
La scelta doveva, infatti, esercitarsi fra una disobbedienza per la quale apparivano altissimi i prezzi da pagare e le lusinghe della, pur tetra, “normalizzazione” nazifascista.
Il primo significato di libertà che assunse la scelta resistenziale fu implicita nel suo rappresentare un atto di disobbedienza.
Non si trattò tanto di ribellione a un governo legale, perché su chi detenesse la legalità non c’erano dubbi, ma di ribellione verso chi disponeva, in quel momento, della forza per farsi obbedire.
Era, cioè (come precisò poi, nel 1986, Franco Venturi nel corso di un seminario tenuto alla Scuola Normale di Pisa) “una rivolta contro il potere dell’uomo sull’uomo, una riaffermazione dell’antico principio che il potere non deve averla vinta sulla virtù”.
Per la prima volta nella storia dell’Italia Unita le italiane e gli italiani vissero, in forme diverse anche rispetto alle realtà territoriali nelle quali si trovarono a dover vivere e operare, un’esperienza di disobbedienza di massa.
Il fatto va ricordato come di particolare rilevanza proprio per quella generazione che, nella scuola, era stata educata a una sorta di “culto dell’obbedienza”.
Un secondo elemento da analizzare attentamente è rappresentato dal fatto che, davanti a scelte prima di tutto individuali, si presentò il nesso “necessità – libertà”, che proprio nella scelta resistenziale assunse, insieme, problematicità e limpidezza nello stesso tempo.
Una scelta da compiere ,citando ancora Sartre (“La repubblica del silenzio”) “nella responsabilità totale e nella solitudine totale, cercando la rivelazione stessa della nostra libertà”.
La solitudine, cioè la piena responsabilità individuale della decisione (“ho fatto di mia spontanea volontà, perciò non dovete piangere” scrive a 19 anni Vito Salmi, partigiano garibaldino, fucilato a Bardi il 4 Maggio 1944) è come esaltata e insieme riscattata dalla percezione dell’ineliminabile necessità di scegliere tra comportamenti che recavano iscritti valori che come ha scritto Massimo Mila portavano a una “rivelazione a se stessi di una nuova possibilità di vita”.
Questo senso della vita che “ricomincia da capo” (come scrisse “Risorgimento Liberale” il 23 Novembre 1943) sebbene avesse assunto sotto tanti aspetti la veste della politica, andava ben oltre quel “correre il rischio del politico” che Carl Schimtt indica quale conseguenza ineluttabile del fatto che “tutti i cittadini vengono obbligati a prendere posizione nella guerra civile”.
Si trattò piuttosto , come scrive Hirschman, “della percezione improvvisa (o dell’illusione”) che posso agire per cambiare in meglio la società e che, inoltre, posso unirmi ad altre persone della stessa opinione”.
La politica irruppe così nella vita partigiana, allorquando la “banda” nata da un’iniziale spinta di rivolta antistituzionale, o almeno di supplenza all’eclisse delle istituzioni, evolvette rapidamente e in modi originali, secondo una linea che la portò a diventare, in termini weberiani, da una semplice “comunità” o “associazione”, vero e proprio “gruppo sociale” retto da un ordinamento in cui l’agire era orientato in vista di dotarsi di regole vincolanti ed esemplari.
Il tramite di quella che, sempre Claudio Pavone, indica come “la via di una nuova istituzionalizzazione” fu rappresentato dalla presenza dei partiti che, attraverso il CLN, avevano assunto il ruolo di punto di riferimento, di vera e propria “guida politica” dell’intero movimento resistenziale.
L’organizzazione di tipo militare non sarebbe stata da sola sufficiente a tenere unito un esercito partigiano, tanto variegato e geloso della propria autonomia.
I legami con i partiti fecero da contrappeso alle spinte autonomistiche e ribellistiche che pure erano ben presenti, come del resto a quelle localistiche.
Questi legami resero più omogenee al loro interno le singole formazioni, differenziandole dalle altre di diverso colore, ma nello stesso tempo operarono come fattore di unità perché non solo trasmisero alla base la politica unitaria del CLN, ma alimentarono la convinzione che fosse l’impegno politico in quanto tale a costituire il cemento sostanziale tra i partigiani.
La scelta individuale compiuta al momento del “prendere o lasciare” del momento dell’invasione tedesca e della subalternità fascista era così maturata nella prefigurazione di un futuro diverso dove l’anelito alla libertà trovava sostanza nei principi fondativi di un’appartenenza politica.
Il radicamento dei partiti nella società italiana del dopoguerra ebbe certo uno dei suoi presupposti in questa loro presenza resistenziale e si può affermare ancora adesso, con sicurezza e con orgoglio, che su queste basi fu possibile poi, nel corso di frangenti quanto mai difficili, scrivere la Costituzione Repubblicana.
Fu , però nelle scelte difficili e solitarie compiute all’inizio della lotta di Resistenza che si realizzò la saldatura tra chi aveva combattuto il fascismo nel Ventennio e chi era salito in montagna dopo l’8 Settembre: una saldatura che avrebbe formato una nuova classe dirigente, una “generazione lunga” che avrebbe, tra fatiche, contraddizioni, conflitti ricostruito una convivenza civile e una coscienza collettiva: ciascheduno per la propria parte, con le proprie convinzioni ma nell’idea di fondo che attraversò i resistenti italiani: non ci si poteva limitare alla disfatta tedesca, bisognava ricostruire prima di tutto un senso comune. Come scrisse Silvio Trentin “Vincere la guerra per vincere la pace”.
Si ricorda, infine, a futura imperitura memoria che il Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) nasce il 9 settembre 1943 a Roma. L’indomani della “fellonia” della casa reale e del governo Badoglio. È il momento più difficile della storia nazionale unitaria: il territorio italiano, dopo lo sbarco alleato in Sicilia, quello in Calabria e quello a Salerno – che avviene lo stesso 9 settembre – è diventato una delle aree di guerra in cui le truppe anglo-americane e quelle tedesche si affrontano direttamente. L’annuncio dell’armistizio, il giorno 8, non è stato preparato in alcun modo e le forze armate italiane si trovano completamente allo sbando.
Il CLN unisce in un unico organismo i diversi partiti dell’antifascismo storico, ognuno con un suo rappresentante. Sotto la presidenza di Ivanoe Bonomi (1873-1951), rappresentante di Democrazia del Lavoro antico socialista riformista e futuro presidente del Consiglio, ci sono esponenti del Partito Comunista (Mauro Scoccimarro e Giorgio Amendola), del Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria (Pietro Nenni e Giuseppe Romita), del Partito d’Azione (Ugo La Malfa e Sergio Fenoaltea), della Democrazia Cristiana (Alcide De Gasperi), della Democrazia del Lavoro (Meuccio Ruini) e del Partito Liberale (Alessandro Casati). Il Comitato, che fungerà da “direzione politica” della lotta di Liberazione, si prefigge il compito di «chiamare gli italiani alla resistenza» contro il nazifascismo e «riconquistare all’Italia il posto che le compete nel consesso delle libere nazioni».
Insomma l’Italia fu fatta, in quell’occasione, superando anche i limiti del Risorgimento ( la gramsciana “rivoluzione mancata”) dai tanto vituperati, in seguito, partiti: fra i quali i grandi partiti di massa, il cui modello è stato incautamente abbandonato per abbracciare l’idea dei partiti personali e della governabilità esaustivamente intesa quale unica cifra dell’agire politico nell’omissione della necessità di rappresentanza.
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