Quotidiano “la Repubblica”, inserto Affari&Finanza, 5 agosto
2019, un lunedì. L’approfondimento firmato da Luca Pagni spiega come tra
le prima quaranta aziende quotate presso la Borsa di Milano (listino
Ftse Mib, quello più rilevante) un buon 40%, a livello di valore della
capitalizzazione, appartenga a società a controllo pubblico, cioè con il
socio di maggioranza rappresentato dal Ministero del Tesoro o da
qualche ente locale. Molte di queste, peraltro, sono attive in un
settore oggettivamente strategico: quello dell’energia.
“Bene!”, dovrebbe essere portato a pensare un sincero riformista,
valutando la notizia come una sorta di boccata di ossigeno rispetto
all’economia neoliberista, sempre più agonizzante: in fin dei conti si
parla di società pubbliche, “quasi-pubbliche”, “un po’ – pubbliche”
(senza esagerare, però: l’Enel, che ovviamente è tra le maggiori, ha
visto scendere la quota in mano al pubblico addirittura sotto la soglia
del trenta per cento). Si parla anche, però, di economia
finanziarizzata, sostanzialmente scollegata dai reali processi
economici, così da esorcizzare non solo lo spettro dello Stato
monopolista (neanche – anzi: meno che mai! – in settori fondamentali per
la vita collettiva), ma anche il ben meno “spettrale” ricordo delle
vecchie Partecipazioni statali, su cui la Prima Repubblica aveva
edificato la sua fortuna, per poi vergognarsene imbarazzata.
E invece no! Perché il tono di tutto l’articolo (a cui “la
Repubblica” attribuisce una certa importanza, dedicandogli le prime tre
pagine dell’inserto) va nella direzione opposta: l’ineffabile Luca
Pagni, infatti, inizia scrivendo che “A guardare i nomi e i numeri della
Borsa italiana si potrebbe dire che nulla è cambiato da vent’anni a
questa parte. E che le liberalizzazioni in Italia non ci siano mai
state”. Attenzione, però: si scrive ‘liberalizzazioni’, ma si deve
leggere ‘privatizzazioni’, perché il vero rammarico del giornalista
economico consiste nel fatto che lo Stato ancora controlli (con armi
spesso spuntate, tra l’altro) aziende redditizie, i cui profitti,
quindi, ancora non possono ingrossare il patrimonio della grande
borghesia italiana (sempre che ancora esista) oppure i conti delle
multinazionali. Questo fatto è considerato, dal nostro prode riformista,
inaccettabile: “un’anomalia molto italiana” (commento peraltro falso), e
va evidentemente sanato. A partire proprio da quel settore,
l’energetico, considerato il più profittevole, negli anni a venire (sarà
forse un caso l’improvviso investimento mediatico nell’ecologismo
compatibile?!), e quindi molto appetitoso agli occhi degli industriali,
che parlano di investimenti, ma sognano di continuare nel consueto ruolo
di succhioni di rendite varie.
Scarso risalto viene peraltro attribuito
a un altro dato, prodotto dall’Ufficio studi di Mediobanca e ricavato
dai bilanci dei primi 42 grandi gruppi industriali italiani (da cui, in
aggiunta, la notizia per la quale in Italia abbiamo quarantadue “grandi
gruppi industriali”!): le migliori performance economiche (anzi,
‘finanziarie’, perché in fondo di questo si parla) attribuite al settore
pubblico italiano, rispetto all’omologo privato, si sono accentuate con
la crisi economica e hanno investito tutti i settori, tanto che, per
continuare con la già menzionata classifica, Piazza Affari ha premiato
Enel e Poste, mentre ha sgridato Intesa San Paolo, nonostante si tratti
di un’azienda come è noto ben acquartierata nella politica italiana, a
tutti i livelli. Un lettore razionale, o forse solo ingenuo, sarebbe
portato a desumere che una sorta di placebo per la crisi economica (un
palliativo, certo, ma quantomeno qualcosa che ti faccia stare un po’
meglio) è rappresentato dall’investimento pubblico, invece che dalla
svendita in favore dei privati, ma i commentatori del “partito De
Benedetti” suggeriscono, incredibilmente, esattamente il contrario:
liberalizzare, privatizzare, vendere, meglio ancora svendere.
Non serve neanche ribadire, in questa sede, come il controllo delle
principali aziende nazionali sia un dato tutto sommato secondario, se
non incrociato con altri: anche solo rimanendo nel mondo della
produzione e del lavoro basta citare la capacità produttiva del Paese e
la dialettica tra capitale e lavoro nella distribuzione funzionale dal
reddito nazionale. Da un lato, infatti, pare irreversibile la
desertificazione industriale italiana (a meno di non voler credere che
possa essere bellamente compensata da una start-up di hipster che apre a
Porta Romana), dall’altro la diminuzione della quota del lavoro nella
formazione del reddito, a vantaggio del capitale, costituisce ormai un
trend costante a partire dagli anni Ottanta ed è associabile, anche
cronologicamente, alla caduta dei redditi da lavoro. Non solo: da anni è
in calo, tra l’altro, il costo totale del lavoro (cioè i salari e i
contributi previdenziali versati dai padroni): l’Italia già partiva
bassa, in questa classifica, perché le statistiche dell’ILO ricordano
come nel 2013 solo la nostra economia e quella australiana non
superavano il 55% di quota lavoro (in realtà c’era anche il Regno Unito,
ma lì il dato è spurio, perché le statistiche inglesi e quelle
statunitensi inseriscono nei redditi da lavoro anche i bonus attribuiti
ai “top manager”), adesso è ulteriormente scivolata in basso. Fatto sta
che Italia, Stati Uniti e Giappone sono i tre Paesi con la più forte
perdita di reddito da lavoro: il Giappone sta cercando di invertire la
rotta, gli Stati Uniti hanno fatto vincere Trump proprio sulla base di
questa promessa, in Italia ci siamo affidati al reddito di cittadinanza...
Il dato complementare a quello precedente, cioè l’aumento della quota
del capitale sul reddito nazionale, come è noto è in ascesa sin dalla
crisi degli anni Settanta: qui l’Italia, che partiva da un valore molto
alto, ha sofferto la congiuntura negativa del 2008 – dentro la crisi di
sistema – quasi “giustificando” la fuga degli imprenditori privati: un
meccanismo del genere è comune, ma di solito si rivela temporaneo perché
in breve tempo il capitale recupera sempre la sua quota di partenza
(era accaduto così anche con la crisi precedente, quella del 1992),
anche perché il padronato coglie la palla al balzo per chiedere alla
classe politica e prontamente ottenere ulteriori restringimenti ai
diritti dei lavoratori, senza peraltro ripristinare la situazione
precedente quando la produttività ricomincia a crescere. Infatti –
questa è la lezione di Piketty (ma anche dei report dell’Ocse) –
l’ultima crisi del 2008 è servita “solo” a sganciare definitivamente i
salari dagli aumenti di produttività (anche nello specifico della caduta
dei salari medi reali noi abbiamo la maglia nera, ma – grazie a Tsipras
– la Grecia cerca di toglierci l’avvilente primato). Ciò è avvenuto,
qui scivoliamo nell’ovvio, sia per i mutati rapporti di forza nel mondo
della produzione, sia perché – duole dirlo – oggi il padronato può
perfettamente sostituire il lavoro con il capitale, senza perdere
alcunché in termini di rendimento (utilizzando un tecnicismo: elasticità
di sostituzione tra capitale e lavoro superiore a 1). Detto da menti
più sapienti della nostra: “Negli ottanta anni che separano le due crisi
[quella del ’29 e l’odierna] c’è stata una crescita vertiginosa della
composizione organica del capitale. Cioè la stessa unità di lavoro vivo
(capitale variabile) oggi può essere utilizzata solo con una quantità di
lavoro morto (capitale costante) immensamente più grande di quella
necessaria negli anni ‘30” (Gianfranco Zoja e Franco Galloni, “Crisi,
tendenza alla guerra e classe”).
Un onesto riformista – si perdoni l’ossimoro – consiglierebbe di
agire su due livelli, per invertire la tendenza: sui redditi e sui
salari. Nel primo caso le soluzioni – ripetiamo: tutte nell’alveo della
presente forma di Stato – avrebbero la proposta di una progressività
delle imposte, di un aumento delle tasse di successione, di controlli
fiscali sulle imprese, dell’eliminazione di scappatoie e di sanatorie,
di un’armonizzazione fiscale europea che eviti le fughe all’estero dei
capitali (dove è l’Europa, quando serve?!!). Dal lato dei salari, il
ragionamento è ancora più immediato, ma non può essere sganciato –
neanche limitando la proposta a un quadro riformistico – dallo Stato
“interventista” in economia e programmatore dei cicli di produzione.
Invece no! Invece fa ancora paura quello che viene definito “lo Stato
padrone”! Ci viene in aiuto, in tal senso, Ferruccio de Bortoli,
sull’inserto di Economia che è ideale alter-ego di quello de “la
Repubblica”, cioè quello del “Corriere della Sera”. Lo scorso 8 luglio
de Bortoli (anche qui ‘centro-sinistra puro’, evidentemente, come
testimoniato dalla nota polemica contro Berlusconi) lancia l’allarme
sull’invadenza dello Stato padrone, ricordando il pesante indebitamento
che suggerì allo Stato di dismettere enti e istituti a partecipazione
statale. Anche in questo caso, l’articolo si sviluppa secondo linee ben
intuibili: da una parte l’accenno – neanche troppo convinto – a presunti
vantaggi economici in favore dei cittadini italiani, derivanti dalle
suddette dismissioni (“i contribuenti erano soci, a loro insaputa, delle
finanziarie pubbliche ormai preda dei partiti”), dall’altro il vero
obiettivo del messaggio, vale a dire incentivare nuove privatizzazioni,
spiegando perché quelle precedenti si siano rivelate un vero flop. La
spiegazione è presto fornita: “le vendite di società statali colsero in
gran parte impreparati gli imprenditori privati”. Poverini, erano stati
presi di sorpresa, erano distratti, non glielo avevano detto in
anticipo. Altrimenti, sì che sarebbe stato un grande affare per tutti!!
D’altronde, sembra di leggere tra le righe dell’ineffabile de Bortoli,
gli enti statali impegnati in economia avevano funzionato finché c’erano
stati illuminati manager – gli stessi che li avevano inventati – come
Mattei, Sinigaglia, Reiss Romoli, Cova... Senza di loro, evidentemente,
quegli enti erano solo un lusso per lo Stato e un favore ai partiti. Il
capolavoro perfetto dello scriba de Bortoli consiste nell’unire la
retorica contro gli sprechi – cioè il mantra attraverso il quale il
neoliberismo cerca di rendere plausibile il taglio dei servizi pubblici –
a quella contro l’istituto del partito politico, con l’obiettivo ultimo
di espellere dalla mente dei cittadini l’immagine della politica come
organizzazione, in favore – invece – delle preferenze accordate sulla
base degli stati di animo, delle emozioni, delle paure, degli slanci
umanitari. Per farsi dare manforte, de Bortoli chiama in soccorso
Bernardo Bortolotti, economista di stanza a Torino, già fondatore del
“Privatization Barometer” della Fondazione Mattei e adesso presidente
dell’Osservatorio sui fondi sovrani della Bocconi: uno al di sopra delle
parti, quindi...
A parte la faziosità degli economisti liberisti, è
interessante l’opinione di Bortolotti sulla privatizzazione nel settore
bancario: non tanto il più che scontato avviso per cui, grazie alla
svendita del sistema creditizio pubblico “sono emersi due player
internazionali, come Intesa Sanpaolo e Unicredit” (omettendo gli
incalcolabili danni di essere diventato l’unico Paese al mondo
impossibilitato a intervenire direttamente nel settore in questione),
quanto l’interessante ammissione per cui “senza il capitalismo di Stato,
cinese, asiatico e dei Paesi del Golfo, Wall Street non sarebbe stata
salvata. (...) Senza quei 100 miliardi di equity dei fondi sovrani di
Paesi non democratici, la Storia avrebbe avuto esiti differenti”. Ma
pensa... si viene così a scoprire che un sistema economico così
competitivo ed efficiente deve la sua sopravvivenza ai petrodollari
(oltre alla già ben nota incidenza del portafoglio finanziario cinese).
Quale è, però, il problema che cruccia il nostro tandem (de Bortoli –
Bortolotti)? Semplicemente, il fatto che gli Stati autocratici
finanziatori non aprono ancora i loro mercati (che scemi, eh...),
rendendoli liberi come quelli di cui hanno salvato le chiappe, almeno
per il momento. L’assenza di concorrenza – con un riferimento anche ai
dazi di Trump, per completezza – inquieta i liberisti di casa nostra,
anche perché – ammettono a denti stretti – “dove lo Stato resta
azionista decide anche con poco (esempio Renault nel fallito per ora
approccio di Fca)”. Ecco il punto centrale: dal momento che noi abbiamo
fatto la cazzata di perdere qualsiasi peso nei mercati mondiali,
dovremmo sperare che anche gli altri Stati facciano lo stesso, così non
ci sarà più uno stupido, ma saremo tutti stupidi... Emerge, quindi, una
realtà che, pragmaticamente andrebbe descritta come segue: il nostro
Paese ha una classe politica che neanche si può dire cerchi di
implementare un modello economico, per quanto mefitico (il liberismo
esasperato e lo Stato “leggero”), ma che pretenderebbe, nonostante
recenti scelte clamorosamente sbagliate, di ritagliarsi ancora il
proprio spazio al tavolo dell’imperialismo economico.
Oltre al rapporto “orizzontale” – con gli altri governi – c’è però
anche quello “verticale”, funzionale al consenso per far passare le
peggio porcate che hanno caratterizzato l’ultimo quarto di secolo
dell’economia pubblica italiana. Qui si gioca il ruolo di analisti,
opinionisti, giornalisti, blogger, la cui ultima frontiera consiste nel
continuare a negare l’opportunità che lo Stato intervenga in aiuto delle
aziende in perdita, ammettendo al massimo, nei suoi confronti, il
compito di “investitore di ultima istanza in attività strategiche per il
futuro del Pese” pur non avendo più – sarebbe il caso di ricordare – le
strutture e forse neanche le competenze per farlo. Tutto è rimesso,
infatti, alla Cassa Depositi e Prestiti – divenuta oggi una specie di
ministero permanente, che risente solo in minima parte dei cambi di
governo – su cui pure si posano le preoccupazioni dei nostri liberisti
di accatto: “Se [la Cdp] fosse solo l’antidoto pubblico ai fallimenti di
mercato, oltre a snaturarsi investirebbe male i risparmi postali di cui
è depositaria”.
Insomma, la legge del mercato – anche dopo un decennio di fase acuta
di una crisi economica da tempo in essere – continua a dominare, mentre
il fronte dell’economia riformista non accenna a smentire la teoria
della mano invisibile, quasi fossimo ancora negli anni Ottanta. Se tanto
ci dà tanto, persino Keynes continua a essere considerato alla stregua
di un rivoluzionario eretico, una sorta di Robin Hood di cui si narra
nei racconti serali di fronte al fuoco. Addirittura, l’unico orizzonte
progressista che sia lecito sperare. Tanto la teoria economica, quanto
soprattutto la storia del movimento operaio ci dice l’esatto opposto,
ovviamente: ci dice che l’odierna impraticabilità del keynesismo non
costituisce affatto un problema, ma è – paradossalmente – una fortuna.
La teoria di Keynes, infatti, oggi non solo è improbabile, ma
addirittura non auspicabile: negli anni Trenta dello scorso secolo ha
rappresentato – almeno in apparenza – la soluzione all’“altra crisi”
(con il particolare non secondario di aver avuto bisogno di un conflitto
mondiale per riuscirci...) perché era tarata sul capitalismo degli anni
Trenta, non su quello attuale. Quando Keynes invocava lo Stato
interventista lo faceva perché era consapevole di come solo questi
poteva trasformare larghe porzioni di risparmio in investimenti (tanto
in infrastrutture, come le famose buche che poi sarebbero state
riempite, quanto in armamenti), partendo dal presupposto che il debito
sovrano – con cui lo Stato finanziava il proprio intervento – non
costituisse affatto un problema (altra macroscopica differenza rispetto
all’attuale fase politica). L’unica reale preoccupazione dell’economista
inglese consisteva nell’inserire nel circuito della produzione quella
particolare forma di merce, rappresentata dalla forza-lavoro, che
giaceva inutilizzata, perché disoccupata: Keynes agisce sul numero dei
salariati, non sul livello dei salari o sui diritti dei lavoratori. Chi
lo esalta, giudicandolo come la panacea di ogni male, dimentica come la
sua riflessione prevedeva un livello salariale molto basso: gli operai
assunti per scavare le famose buche e poi ricoprirle avrebbero dovuto
essere pagati poco, il minimo indispensabile per attivare un circuito di
consumo, ma non a sufficienza per prevedere forme di risparmio o di
accantonamento di salario.
Di tutto questo nel dibattito pubblico odierno non c’è traccia: si
vola molto più in basso e si omettono alcune evidenze che non vennero
prese in considerazione neanche negli anni Novanta, quando si diede vita
allo spolpamento della mano pubblica.
Parliamo del fatto che la stagione più profittevole dell’industria
privata italiana si giovò non poco della presenza di quella pubblica e
dei suoi servizi forniti a basso prezzo (si pensi a come il settore
automobilistico lucrò sulla costruzione del sistema autostradale e sulla
realizzazione degli impianti di distribuzione della benzina);
parliamo del fatto che i “coraggiosi” imprenditori italiani – quando
si profilò la prima concorrenza globalizzata – pensarono bene di
rifugiarsi in quei settori meno esposti all’internazionalizzazione (che
però fino a quel momento erano stati appannaggio delle aziende
pubbliche, le quali ne risultarono seriamente danneggiate);
parliamo del fatto che la “mano pubblica” abbia spesso salvato, in
passato, il privato in difficoltà (anzi, che sia nata, negli anni
Trenta, proprio con questo scopo), anche in virtù di una maggiore
professionalità e competenza del “manager” pubblico, rispetto
all’imprenditore medio italiano: virtù più elevate, insomma, che nel
tempo si sono perse;
parliamo del fatto che la dipendenza dalle banche non è una
condizione irreversibile, dato che già in passato – tra le due guerre
mondiali – la crescita dell’accumulazione aveva permesso alle grandi
imprese nazionali di svincolarsi dal giogo del credito. Per farlo, però,
c’era stato bisogno dell’intervento monopolizzatore dello Stato, che
aveva nazionalizzato le grandi imprese e ne aveva permesso
l’organizzazione in trust e cartelli. Il fatto che ciò sia avvenuto, ad
esempio, anche nell’esperienza fascista dimostra come l’opposizione al
capitale bancario non necessariamente si configuri come battaglia
anticapitalista;
parliamo del fatto che – rispetto al punto precedente – il limite più
importante sofferto dalla ex mano pubblica italiana è consistito
proprio nel non avere avuto a disposizione un vero capitale, ma di
essere stata gestita dallo Stato attraverso le obbligazioni, con il
conseguente e automatico inserimento nel circuito del debito;
parliamo del fatto che l’indebitamento delle aziende pubbliche, nella
sua fase più acuta, sia incredibilmente finito nelle mani della
medio-alta borghesia italiana: una (s)vendita diretta, senza neanche
l’intermediazione bancaria, a cui oggi siamo abituati, ma che non ha
avuto eguali negli altri Paesi: nell’immediato il debito pubblico
italiano, quindi, di fatto finì nelle mani di facoltosi risparmiatori e
non di masse popolari che avevano fiducia nel proprio Stato;
parliamo del fatto che, paradosso su paradosso, adesso quel debito –
alla faccia del “risanamento” ottenuto privatizzando le eccellenze
imprenditoriali italiane – è invece finito nelle tasche di banche e
istituto di credito stranieri;
parliamo del fatto che, per rendere appetibili le aziende pubbliche
ai fini di una loro (s)vendita, queste siano state “valorizzate” (spesso
a costo di pesanti licenziamenti), fornendo un ulteriore assist al
compratore privato, tanto da far sorgere il dubbio: a questo punto, con
l’azienda “risanata”, non era meglio mantenerne la funzione sociale?
parliamo del fatto che il processo di privatizzazione di grandi
imprese pubbliche abbia dato la stura a un più generale
ridimensionamento nella grandezza media delle aziende private italiane
(secondo un trend all’epoca già in atto) che ha prodotto come risultato
un format lillipuziano di impresa (nel quale finivano per coincidere
proprietà e controllo), con il quale il padronato si illudeva di
competere sul mercato globale. È anche vero, d’altro canto, a conferma
di come le privatizzazioni italiane non siano “un infortunio” di una
classe politica poco lungimirante e incattivita ma vadano lette dentro
un progetto complessivo, che la sopravvivenza di un capitalismo
“tascabile” è possibile solo con una ristrutturazione del mercato del
lavoro, nel quale all’Italia sia destinato uno spazio determinato,
assolutamente periferico;
parliamo del fatto che l’imprenditoria italiana abbia colto al balzo
l’opportunità delle privatizzazioni anche per strutturare un modello di
politica industriale che discriminasse i territori, posizionando nelle
periferie le attività standardizzate e poco “creative” (con basso costo
del lavoro e alta precarietà), in centro quelle ad alta professionalità,
socialmente appetibili e poco usuranti;
parliamo, infine, del fatto che, ancora una volta, la classe politica
italiana mantenga un unico e indiscutibile primato, cioè quello di
calarsi le brache rispetto ai potentati economici: gli altri Paesi
dell’Unione Europea si sono ben guardati dal privatizzare il proprio
patrimonio produttivo (l’economia inglese, tra l’altro, è andata cauta
anche sulla dipendenza delle imprese dal mercato finanziario) e chi lo
ha pure fatto, come la Spagna, comunque non ha perso il controllo del
sistema bancario.
In definitiva, la stagiona italiana delle privatizzazioni e delle
liberalizzazioni ha prodotto frutti avvelenati che non hanno eguali né in Europa né altrove. Viene in mente un unico paragone,
quello dell’Argentina di Carlos Menem, che ridusse alla fame il suo
popolo (basti vedere il documentario di Fernando Solanas, “La memoria
del saqueo”). Non si tratta solo, evidentemente, della strumentalità di
“risanare il bilancio pubblico” – necessità costruita ad arte e diffusa
mediaticamente come se fosse incontrovertibile – né solo di affidare al
capitale privato il patrimonio produttivo del Paese, ma soprattutto di
espellere dall’immaginario collettivo, a futura memoria, l’idea che lo
Stato possa e debba intervenire in economia per perequare quelle
differenze economiche che oggi stanno raggiungendo anche in Europa
standard latino-americani e asiatici. Per usare le parole di Rita
Martufi e Luciano Vasapollo, in un’inchiesta condotta su «Proteo» venti
anni fa: “giungere alla distruzione della stessa idea e cultura
imperniata sulle relazioni economiche a connotato pubblico e a rilevanza
collettiva”.
Più in profondità, è sotto attacco – da un punto di vista quasi
antropologico – l’area semantica della ‘solidarietà’ e della
‘cittadinanza’, con la prima sostituita dall’egoismo competitivo e la
seconda che vede cambiare le fondamenta del “patto” che unisce i
cittadini all’istituzione statale: non un consorzio che cerchi (un
minimo) di tutelare i più deboli, ma un ente dedito allo sfruttamento
totale e continuato, nel quale il “neo-suddito” è costretto solamente a
dare e a cedere, come accadeva nel Medioevo all’artigiano o al contadino
di fronte al signorotto di turno. Privatizzare, dunque, significa
sottodimensionare le aziende, annullare il controllo pubblico sui loro
introiti, rendere impossibile un minimo di pianificazione produttiva,
fiaccare la resistenza operaia. In aggiunta, la fine del modello di
economia mista – non certo il nostro preferito, ma di sicuro meno
impoverente, in un’ottica di classe, rispetto alla modalità del “privato
sempre e comunque” – ha avuto ripercussioni quasi “ideologiche” sulla
società e sulle relazioni tra i ceti popolari, cercando di cancellare
quei retroterra culturali (socialista oppure cattolico) che questi hanno
sempre avuto e che li portavano a osservare con una certa diffidenza
l’economica capitalistica.
Sia chiaro: come ogni “terza via” anche l’economia mista italiana era
un modello destinato a fallire, ma l’uscita neoliberista da quella
condizione ci fa rimpiangere lo “Stato – datore di lavoro”, per quanto
quell’occupazione fosse più il prodotto di interessi clientelari, che
non la risposta a istanze sociali e a diritti fondamentali delle masse.
Tra le tante ragioni di opportunità che costellano lo Stato
interventista va ricordata l’incapacità “tecnica”, per gli appetiti
privati, di difendere l’interesse generale: al tempo di Chernobyl,
nell’aprile 1986, la Centrale del Latte di Roma – al tempo ancora
municipalizzata – decise per precauzione di sospendere la raccolta del
latte. Lo avrebbe fatto se fosse già diventata privata? Di contro, se le
Autostrade italiane – spina dorsale di un Paese che si muove solo su
gomma, tra l’altro – fossero state ancora in mani pubbliche la
manutenzione forse sarebbe stata più efficace, prevenendo recenti
tragedie.
A ben vedere, però, il punto non è neanche rappresentato dalla
privatizzazione in sé, quanto dal percorso che conduce alla dismissione:
un passaggio obbligato, ad esempio, è la quotazione in Borsa
dell’azienda di turno, con la conseguenza di un suo affidamento agli
appetiti speculativi, che godono di quegli eventi (incidenti, calamità
naturali, disastri di varia natura) che la popolazione vive, appunto,
come tragedie. La finanza, evidentemente, segue gli alti profitti,
incurante dei loro costi sociali, ed è totalmente sganciata, oggi, dalle
dinamiche dell’economia reale, che pure ne è pesantemente influenzata.
Risulta persino inutile, a questo punto, ricordare come la
globalizzazione finanziaria renda quasi automatico il verificarsi di
atti corruttivi, a loro volta tesi a indirizzare le scelte del ceto
politico in favore della classe imprenditoriale. Insomma, un cul-de-sac
da cui è difficile uscire.
Farlo con il prossimo governo appare veramente arduo, considerando
come la semplice somma degli addendi che lo compongono non può certo
smentire le caratteristiche delle sue due unità: da un lato i Cinque
Stelle, che già lo scorso autunno proposero di evitare l’aumento
dell’Iva (necessità che si ripropone, a meno di non volere
l’incoronazione diretta di Salvini) attraverso la cessione di parte del
demanio pubblico – giusto per far capire quale sia il loro approccio, al
di là dell’autorappresentazione di sé che forniscono – dall’altro il
PD, che sulle privatizzazioni potrebbe scrivere volumi enciclopedici.
Come dimenticare, infatti, che la dismissioni delle aziende pubbliche,
iniziata negli anni Novanta, abbia avuto una notevole accelerata dal
1998 in poi, con gli eredi del Pci stabilmente al governo e non più
impegnati a sbianchettare le lontane origini comuniste? Il governo che
verrà, del resto, è destinato a breve a sciogliere la matassa di
Alitalia, dove vengono minacciati circa duemila esuberi: esempio
concreto di come la dismissione di un patrimonio statale vada contro
qualsiasi razionalità economica, non solo contro una visione socialista
dei rapporti tra capitale, lavoro e politica. È forse così strano
pensare che uno Stato debba avere la sua compagnia di bandiera in mano
totalmente pubblica, soprattutto se consideriamo l’incidenza di massa
che ha raggiunto oggi la mobilità aerea? Eppure proprio la vicenda di
Alitalia diventa esemplare delle complicità di cui gode il ceto
politico, quando si tratta di truffare i lavoratori e i cittadini: basti
pensare alla posizione della Cgil, contraria alla ri-pubblicizzazione
dell’azienda nonostante i lavoratori (cioè i diretti interessati!)
avessero bocciato, due anni fa, il piano manageriale di risanamento,
giudicandolo correttamente come capestro.
All’epoca, come oggi, la scelta del maggior sindacato italiano andò
in favore della “mentalità di Maastricht”, nella convinzione –
manifestata in ogni vertenza gestita dai confederali – che la
concorrenza garantisca la proporzionalità tra produttività e compensi
(ovviamente il principio di eguaglianza salariale non è proprio
concepibile dalle loro menti) – cioè “più produci, più guadagni” – e che
l’odierna esplosione di una fascia ristrettissima di redditi, a
discapito della gran massa dei lavoratori, sia dovuta unicamente
all’involuzione oligarchica del capitalismo e non, come anche solo il
buon senso suggerirebbe, al meccanismo della competizione. È il
“capitalismo oligarchico” – questa sorta di invenzione consolatoria – il
nuovo spauracchio da agitare in economia, magari simultaneamente alla
minaccia populistica. Cocciuti più delle falene che continuano ad andare
verso la fonte luminosa, i chierici del libero mercato non si
rassegnano ad accogliere l’insostenibilità dell’attuale sistema economico: nessuna crisi, nessuna congiuntura negativa, nessuna lettura
delle allarmanti statistiche sociali li convince dell’irriformabilità
dell’economia capitalistica, meno che mai attraverso la leva
socialdemocratica, che ha evidentemente terminato il ruolo storico
attribuitole dalla borghesia “buona”: ammortizzare il conflitto di
classe (non il capitalismo, dunque) mediante il miglioramento della
qualità della vita e del lavoro per una porzione – più o meno
consistente, a seconda dei tempi e dei contesti – del proletariato. Oggi
tutto questo non funziona più, perché sono le radici stesse
dell’accumulazione capitalistica a traballare: la ricchezza non viene
più “prodotta”, tecnicamente, quanto “ereditata” – peraltro secondo
criteri di unioni dinastiche che ricordano gli accordi matrimoniali in
vigore nell’Ancien Régime – e la classe politica, sostanzialmente
delegittimata, non si preoccupa più di ottenere il consenso delle masse,
neanche quello “a pagamento”, perché si accontenta di rappresentare la
testa di legno dei vari potentati economici.
D’altronde, come fu ben urlato, “esiste una sconfitta pari al venire corroso che non ho scelto io ma è dell’epoca in cui vivo”.
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