Siamo in “guerra” contro un virus che viene chiamato
SARS-CoV-2 o, più comunemente, coronavirus. Nel preciso istante in cui
scriviamo queste riflessioni gli italiani sono costretti a stare in
casa, possono uscire solo se strettamente necessario e se muniti di un
pass ufficiale debitamente compilato. I negozi sono quasi tutti chiusi,
molti uffici lavorano a ritmi ridotti all’essenziale. Chi in qualche
modo le ha trovate, gira con mascherine comprate a caro prezzo, oppure
le ha autoprodotte in casa. Sono aperti solo gli ospedali, le farmacie,
gli uffici di pubblica sicurezza. Le fabbriche stanno lavorando ma, una
prima ondata di scioperi, ha costretto governo e parti sociali a
partorire un decreto (assolutamente insufficiente) per il quale molte
potrebbero chiudere per qualche giorno e adattarsi a norme di sicurezza
minime.
Del resto del mondo sappiamo poco, se non che la
situazione volge al miglioramento in Cina (dove il virus è stato
identificato per la prima volta) e in Corea del Sud. Permane, invece,
drammatica in alcuni paesi come l’Iran e si sta diffondendo in altri
paesi europei a ritmi forsennati. Spagna e Francia sembrano, in queste
ore, prendere i provvedimenti che ha preso l’Italia da circa una
settimana, seguite dai paesi dell’est Europa, dall’Austria e dalla
Svizzera.
In “guerra”, bisogna conoscere il nemico, e visto che
la guerra è contro un virus la prima domanda da porsi riguarda proprio
la sua natura.
Il virus
Si tratta di una cosa apparentemente molto semplice. È
un ammasso di molecole formato da parti più semplici chiamate proteine o
amminoacidi; un microrganismo parassita senza cellule. In altri
termini, il virus può riprodursi solo all’interno di meccanismi
cellulari più complessi come quelli degli animali o delle piante. Senza
questo supporto, il virus è una particella più o meno complessa ma non
vive e non può riprodursi. Il virus è quindi un qualcosa di inanimato
che però, se a contatto con organismi più strutturati, può causare danni
notevoli. Stiamo quindi combattendo una guerra contro un ammasso di
materia che non si muove da solo, non pensa, non decide, non ha un cuore
e neppure un’anima. Stiamo lottando contro qualcosa che non ha nulla a
che fare con un sentimento, un modo di pensare o di agire. Il virus è
materialista, è la più semplice definizione di come la materia sia
l’elemento fondamentale di tutto ciò che ci circonda.
Il SARS-CoV-2
Il SARS-CoV-2 a onor di cronaca identificato come
“coronavirus” – che in realtà è una “famiglia” virale – dal punto di
vista epidemiologico è un agente patogeno che infetta le vie
respiratorie alte (dal naso alla trachea) e basse (bronchi/bronchioli e
polmoni).
A seconda del decorso dell’infezione (denominata
Covid-19) che genera sul paziente colpito, i sintomi sono assimilabili a
quelli di una sindrome influenzale nei casi più lievi, mentre nei casi
più gravi, questi ultimi, degenerano in polmonite interstiziale. Questa,
date le pesanti carenze respiratorie che determina, risulta
particolarmente letale, soprattutto nei pazienti anziani o comunque
debilitati nel sistema immunitario.
Nella situazione odierna, quest’ultimo dettaglio è
particolarmente importante, perché l’elevata contagiosità e infettività
del SARS-CoV-2 si combina in modo esplosivo con la mancanza di una
profilassi clinica per curarlo in quanto non sono disponibili antivirali
e vaccino specifici.
In buona sostanza, allo stato attuale delle cose,
medici e strutture sanitarie possono soltanto agevolare il decorso della
malattia auspicandone la sconfitta da parte dell’organismo del
paziente.
Wuhan, Codogno, Colli Euganei
Wuhan è il nome di una città della Cina
di cui la maggior parte di noi ignorava totalmente l’esistenza almeno
fino a pochi giorni fa. Secondo il racconto comune è il luogo in cui il
virus ha cominciato a infettare il corpo umano, si è propagato
velocemente, è uscito dallo Stato cinese e sta infettando gran parte del
pianeta. Di questo racconto, per quel che serve, possiamo diffidare.
Fin da subito la teoria del complotto contro la Cina ha cominciato a
divenire uno degli argomenti di conversazione con tanto di ricostruzioni
a posteriori più o meno verosimili. Ovviamente non abbiamo nessun
motivo per negare nessuna tesi e neppure per approvarla. La storia è
fatta anche di complotti e ci sono documenti desecretati, in giro per il
mondo, che ci spiegano per filo e per segno tutti i passaggi di guerre
batteriologiche non convenzionali studiate, approvate e, in parte, messe
in atto contro persone, stati etc.
La questione che ci interessa è
un’altra: il fatto che il virus si sia manifestato per la prima volta a
Wuhan è anch’esso una illazione. L’unica certezza è che del virus si è
cominciato ad avere timore nel momento in cui la Cina ne ha parlato,
mettendo in campo una azione energica di contenimento e sostenendo, per
parola del Presidente Xi Jinping, che questo problema era la più grande
sfida che la Cina e l’intero Pianeta dovevano affrontare immediatamente.
Per un certo numero di giorni, che oggi
appaiono solari e spensierati, la Cina poteva essere trattata come un
immenso stato concentrazionario con posti di blocco, foto false con
cadaveri abbandonati per strada etc... Sui giornali cosiddetti seri,
fioccavano le ricostruzioni di come il governo cinese avesse volutamente
ritardato la diffusione di notizie per evitare ricadute internazionali,
nei centri di potere si capiva in quale modo sfruttare la situazione
che era un colpo all’immagine, ma soprattutto all’economia, del gigante
asiatico la cui esistenza e forza economica viene considerata un
pericolo mortale per l’occidente delle “libertà democratiche”.
I video nei quali qualche cittadino asiatico mangiava un pipistrello
vivo erano la versione popolare e tabloid buona per i social network;
per il pubblico più colto dei giornali veniva impartita una lezione più
educata ma sostanzialmente il concetto era lo stesso: la Cina è un paese
barbaro, con un regime opprimente, inquina il pianeta trasformandolo in
una enorme camera a gas e ora rischia di infettarci tutti.
Tutto questo fino a quando un signore di
Codogno, una mattina, si è presentato all’ospedale con strani sintomi
respiratori. Poco dopo si è scoperto che era stato infettato un
pensionato di un paese dei Colli Euganei. Immediatamente vengono
studiati i contatti dei primi pazienti, vengono cercati collegamenti con
la Cina ma senza risultati. Si perquisisce una piccola azienda gestita
da cittadini cinesi vicino a Padova ma i risultati sono tutti negativi.
Il “paziente zero” non si trova. Su Repubblica, qualche giorno dopo, un
articolo parla di un possibile paziente zero tedesco. Il virus è nato a
Wuhan? Non lo sappiamo ma ora è arrivato.
L’UE, la Cina, l’Italia
La signora Lagarde ha fatto spallucce alle richieste
di aiuto dall’Italia nel preciso momento in cui si chiedeva
l’allentamento del patto di stabilità europeo per fronteggiare
economicamente l’emergenza che ha portato ad isolare, in progressione,
prima i piccoli paesi focolaio, poi alcune regioni del Nord fino alla
dichiarazione che tutta l’Italia sarebbe divenuta “zona rossa”.
Sono le stesse spallucce che la ex Presidente del
Fondo Monetario Internazionale aveva fatto alla Grecia che chiedeva di
non essere distrutta dai memorandum, in perfetta tradizione con le
politiche imposte in altri paesi che hanno avuto il piacere di avere in
casa il comando del FMI.
Le dichiarazioni della Lagarde, oltre a
destabilizzare i mercati finanziari già “provati” dalla guerra dei dazi
USA-Cina e dalla più recente contesa petrolifera tra Russia e Arabia
Saudita, hanno fatto infuriare persino il Presidente Mattarella e devono
avere irritato pure quei partiti di governo e di opposizione che
insieme alla Lagarde hanno sempre condiviso la medesima visione del
mondo.
Per fortuna, la Commissione Europea, per bocca della
Signora Von der Leyen, si è dimostrata più educata annunciando che
l’Italia poteva spendere in deroga ad alcuni meccanismi non specificando
però cosa questo significherà a emergenza superata.
In Germania, nello stesso momento, un decreto
imponeva di sospendere la vendita e l’esportazione di materiale medico
al di fuori dello Stato ma, ci informa Repubblica citando un dossier
segreto di cui sarebbe in possesso (sic!), tutto questo potrebbe essere
superato per cause di forza maggiore. In Italia, nel frattempo, la
comunità cinese girava con le mascherine e faceva appelli interni alla
responsabilità dei propri membri. Alcuni giorni fa il governo cinese ha
inviato al governo italiano tonnellate di materiale medico, tra cui i
famosi ventilatori polmonari, che in Italia sono prodotti soltanto da
una piccola azienda. Ma il fatto più eclatante è rappresentato
dall’arrivo a Fiumicino di personale medico cinese che affiancherà i
medici italiani.
Sui pacchi inviati dal “nemico numero uno
dell’occidente” è riportato un messaggio che esalta la fratellanza tra i
popoli. Si tratta della stessa lode invocata ogni qualvolta si
appendono le bandiere della UE ai balconi, o si fanno le manifestazioni
per la libertà e contro i presunti “sovranismi”.
Al momento opportuno, ciascuno saprà valutare cosa
sia in realtà la fratellanza concreta tra i popoli, come venga praticata
nella realtà concreta e non nelle fantasie ideologiche.
La sconfitta del postmoderno?
Dopo i primi giorni dalla scoperta del contagio in
Italia, la stampa e i media hanno dovuto sospendere la sceneggiata
hollywoodiana legata alla caccia del paziente zero. La quarantena in
alcuni paesi del Nord, deve aver allarmato alcuni poteri che hanno
cominciato a sostenere che si trattava di una influenza qualunque. Nei
due giorni di sbornia libertaria da parte del sistema, la polemica
impazzava tra i Presidenti di regione leghisti che chiudevano le scuole e
i progressisti al governo e nei media che lanciavano messaggi di
speranza. Il Sindaco di Milano, nell’ansia di essere colui dal quale la
“sinistra riparte”, organizzava eventi in città contro la paura.
Che tipo di contagio fosse non lo sapeva nessuno,
l’importante era la narrazione che se ne voleva dare. Da una parte
l’Italia coraggiosa che non si ferma, che non rinuncia alla libertà e
alla cultura. Dall’altra l’Italia gretta e meschina che seminava paure.
Una divisione che, negli ultimi tempi, abbiamo imparato a conoscere
avendo determinato il trionfo delle Sardine almeno in quel mese in cui i
pesci in barile hanno monopolizzato il dibattito politico e sociale.
Durante una manifestazione contro la paura, il
Segretario del Partito Democratico si è preso il coronavirus, ma la
fiera dell’ottimismo era già finita da un pezzo visto il contagio
progressivo in tutto lo Stato. Il governo ha quindi reagito con un
decreto che impediva di uscire dalla Lombardia e da altre province, ma
ha pensato bene di diffonderlo con ore di anticipo causando un esodo di
persone verso il Sud. Più che un errore, a noi è parsa una strategia di
marketing politico estremamente comune e abusata.
È oramai chiaro che nella nostra politica
quotidiana, contano di più le indiscrezioni che la realtà. I termini
degli accordi governativi, delle leggi di bilancio e di molte altre
questioni vengono sempre diffusi con largo anticipo allo scopo di
sondare il parere dei cittadini e dei potenziali elettori. Che lo si
faccia mentre si discute di finanziaria è discutibile ma non crea danni
vitali immediati. Che lo si faccia prima di un decreto che impone lo
stop ai movimenti di migliaia di cittadini diventa un problema reale.
Al di là dello stupore, più o meno sincero, con il
quale Conte ha commentato la fuga di notizie il problema non è quello di
avere dei collaboratori o dei politici sconsiderati, ma la
subordinazione totale che ogni atto politico ha nei confronti di una
narrazione che vive di sondaggi di opinione, la cui unica ragione di
vita è il consenso.
Nel mondo postmoderno, della “fine della Storia”, la
realtà viene trasformata in narrazione. Ma ci sono momenti in cui i
fatti tornano a essere importanti.
Mentre in Italia e in Europa il contagio si
analizzava con i post sui social network, la Cina reagiva da paese
moderno con un’industria controllata dallo Stato capace di variare la
produzione in pochi giorni e renderla funzionale alla gestione
dell’emergenza. Creava ospedali, circondava regioni enormi per prevenire
il contagio. In occidente, invece, le multinazionali, compresa la
situazione, si attrezzavano per coglierne il massimo profitto sia
attraverso la speculazione finanziaria sia attraverso l’espansione
dell’offerta di piattaforme digitali per lo “smart working”.
Per ironia della sorte, l’oggetto di numerose opere
di fiction fantascientifica come un virus, fa piombare una parte del
pianeta in una sorta di incubo distopico che però è reale e non
fittizio.
A combatterlo, su fronti opposti, il sistema cinese
pianificato e una parte del sistema capitalista, due soggetti mai
fuggiti dal mondo reale perché non hanno mai considerato la Storia come
finita.
Una risposta collettiva contro l’atomizzazione della società
Esiste un dibattito sotterraneo, nel mondo della
“sinistra”, su cosa stia realmente succedendo in questi momenti e su
quali saranno le conseguenze.
Non abbiamo certezze in proposito perché non possiamo
averne: in situazioni di crisi improvvisa la Storia si rimette in moto e
i cambiamenti non sono mai lineari, le conseguenze non sono mai tutte
positive o tutte negative.
La situazione richiede una risposta collettiva e già
questa è una novità. Durante la firma del protocollo tra lavoratori e
imprese sulla produzione industriale in questo periodo, abbiamo letto le
dichiarazioni all’unisono di padroni, imprenditori e sindacati
confederali. Il concetto elaborato è semplice: il paese è unito, tutti
dobbiamo fare uno sforzo per il futuro del paese.
Queste dichiarazioni hanno in se due significati
contrapposti che devono rimanere tali ma che, in questa fase, vengono
veicolati insieme. Da un lato è vero che tutti dobbiamo fare la nostra
parte, che vi è un interesse anche dei lavoratori a salvare il sistema
produttivo e a evitare il collasso della sanità. Vi è un interesse
comune a non diffondere il contagio che sarà pagato dalla parte più
debole della popolazione anagraficamente (gli anziani) ma anche
economicamente (i poveri che hanno più difficoltà nel mantenere un
salario o farsi curare).
Dall’altro lato ci viene propagandato il messaggio
che “siamo tutti sulla stessa barca” e questo è inaccettabile. Che il
mantenimento della produzione industriale, senza alcuna distinzione tra
ciò che serve ed è indispensabile e ciò che è superfluo, sia da
considerare come mandare i lavoratori a un macello utile solo agli
interessi di pochi padroni è un fatto talmente evidente che non ha
neppure bisogno di essere spiegato. Per questo il segnale di agitazione
che si propaga per le fabbriche in Italia è positivo e incoraggiante.
Per questo è incoraggiante che i portuali genovesi,
per tutelare la propria salute, abbiano deciso di sospendere le
operazioni affinché fosse loro garantita igiene e sicurezza. Il bacino
Portuale genovese è il più importante d’Italia, si parla di circa 1
milione e 600 mila container l’anno per la sola banchina di Genova-Prà,
con una affluenza giornaliera di circa 3 mila camion. Si può quindi
immaginare il rischio di contagio che si corre se non vengono applicate
le giuste procedure di igiene e sicurezza, dettate anche dal protocollo
che è stato stilato tra Autorità Portuali genovesi, parti datoriali e
parti sociali in causa.(1)
Non siamo sulla stessa barca per tanti altri motivi:
lo smantellamento della sanità non è avvenuto per caso; è in momenti
come questi che dobbiamo urlare la nostra rabbia verso tutti i politici
che l’hanno svenduta, spolpata e privatizzata. I lavoratori privi di
ogni tutela che in questi giorni sono stati mandati a casa, non sono
nelle stesse condizioni di chi li sfruttava prima e li licenzia oggi. La
riduzione dei diritti e delle tutele sul lavoro sono un fenomeno che ha
dei precisi mandanti e degli esecutori che non possono essere
considerati nostri alleati, né oggi né in futuro.
Le conseguenze di un sempre più probabile disastro
economico, saranno nuovamente scaricate sulle spalle dei lavoratori se
non invertiamo una tendenza che dura da decenni.
Dal punto di vista strettamente sociale, qualcuno
agita l’idea che i governanti stiano conducendo un esperimento sociale
di massa dove, proprio nel preciso istante in cui ci chiedono sacrifici
personali in nome del bene comune, ci impediscono di uscire, comunicare
di persona, lottare, incontrarci ed esprimerci. Anche questa
contraddizione esiste e andrà risolta, ma per il momento è necessaria
una responsabilità comune alla quale non ci possiamo sottrarre.
Noi pensiamo che un problema collettivo vada risolto
collettivamente. Abbiamo la consapevolezza che oggi viviamo in una
contraddizione enorme che potrebbe farci ulteriormente retrocedere, ma
abbiamo anche la consapevolezza che questa situazione mette in crisi
tutta una politica e una cultura che per anni ha funzionato solo per
pochi, impedendoci ogni risposta collettiva e popolare.
La nostra responsabilità, in questo momento sta in
questa contraddizione. Facciamo la nostra parte con calma,
ragionevolezza e adeguandoci alla situazione perché ci interessa
innanzitutto la salvaguardia dei lavoratori e di quella parte di popolo
sfruttata che rappresenta la nostra classe. Nel frattempo dobbiamo
prepararci a lottare per fare saltare il banco, perché il disastro che
stiamo vivendo non è frutto di un destino “cinico e baro” ma il
risultato di politiche concrete che abbiamo il dovere e la necessità
assoluta di combattere.
Note
1) Le RSU/RSA del Porto di Genova, quindi, hanno
scelto l’opzione della “sospensione dal lavoro” fino a quando tali
garanzie non fossero state implementate.
La decisione di sospendere il lavoro al posto di
dichiarare sciopero, è stata presa per fare in modo che non fossero
sempre i soggetti sociali subalterni a subire le ricadute economiche
delle emergenze, soprattutto in un momento come quello attuale, dove i
continui tagli della sanità pubblica di questi anni si sono manifestati
in tutta la propria drammaticità.
Collettivo Comunista Genova City Strike
Fonte
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