Bassa la percentuale di voto alle parlamentari iraniane, un 42% nazionale che è la più flebile partecipazione dalla nascita della Repubblica Islamica, con un misero 25% nella capitale. Ma con quel 25% l’ex sindaco di Teheran, nonché comandante delle Guardie della Rivoluzione Mohammad Bagher Qalibaf, balza alla testa dei candidati preferiti dal popolo elettore. Un successo personale che lo proporrà come elemento di spicco per le presidenziali dell’anno prossimo. Qalibaf aveva partecipato anche alla tornata presidenziale del 2017, rivinta da Rohani, e non era risultato l’elemento con maggiori consensi sul fronte tradizionalista. La gente gli aveva preferito il chierico Raisi, che molte voci considerano il sostituto naturale alla carica di Guida Suprema, quando Khamenei passerà nei cieli di Allah. Eppure Khamenei, dato per spacciato da anni per problemi di salute, resta ancorato al suo incarico di uomo chiave della nazione. Commentando il voto e i problemi legati all’infezione Covid-19 – esplosa con alcuni casi di morte e conseguenti colpiti (finora si registrano 12 decessi, sebbene un deputato abbia dichiarato 50 vittime solo a Qom, città dell'iniziale contagio) proprio alla vigilia dell’apertura delle urne – la Guida ha ribadito come la paura “diffusa ad arte” dai nemici dell’Iran per tenere in casa gli elettori ha prodotto solo parzialmente l’effetto negativo della diserzione dei seggi.
Se così fosse verrebbe avvalorata la tendenza astensionista scelta dal fronte riformista che, Coronavirus o meno, aveva deciso di boicottare il voto. Questa è la valutazione di molti osservatori che ricordano la definitiva frattura creatasi fra gli elettori progressisti e quel centro moderato che aveva espresso nel 2013 l’ipotesi Rohani, ribadita pur con parziali defezioni nel 2017. Ora i riformisti hanno nuovamente imboccato la via nascosta della non partecipazione alla rappresentanza, seppure in parlamento compare un manipolo d’una ventina di deputati di questo fronte. A cui s’uniscono 35 deputati indipendenti e i cinque esponenti delle minoranze religiose cui è garantito il seggio (zoroastriani, ebrei, assiri, caldei, armeni). Questo significa che il fronte pro regime fa il pienone nel Majlis, accaparrandosi gli altri 230 posti. Si sa che questo blocco non è uniforme. Non lo è stato anche quando aveva espresso la presidenza di Ahmadinejad, frutto d’un compromesso fra il clero tradizionalista e la componente laica militar-politico-economica dei Pasdaran. Nei sondaggi realizzati proprio nel corso delle presidenziali del 2017 che rielessero Rohani, emerse con un cospicuo 15% il gradimento alle posizioni principaliste basate su conservatorismo, realpolitik, populismo e tradizione teocratica. E il successo di Qalibaf è basato proprio sull’alleanza col cosiddetto Fronte Islamico della Stabilità, guidato da Morteza Agha Tehrani.
Oggi sessantatrenne, Tehrani non è un volto nuovo della componente ultraconservatrice. Il suo mentore è l’anziano ma sempre potente ayatollah Taqi Mesbah Yazdi, entrambi si spesero a favore di Ahmadinejad nella scalata al potere nel 2005, fino alla sua perdita di credibilità di agli occhi della Guida Suprema. Diversamente dai riformisti, dispersi nella difficile fase attraversata dal Paese con contestazioni dell’establishment per i problemi economici dettati dalle nuove restrizioni statunitensi e dall’embargo strisciante degli anni passati che oggi producono un’inflazione del 33%, i principalisti rivendicano la bontà del pur dispendioso impegno militare sugli scenari di guerra mediorientali (Siria, Yemen e resistenza sud libanese) per tamponare l’isolamento geopolitico del Paese, da anni “sotto attacco del nemico occidentale e sionista”. Una linea che è coesistita al cambio di marcia con le aperture diplomatiche dalla coppia Rohani-Zarif che, però, non ha pagato. Anzi, l’Iran di recente ha vissuto lo sfregio dell’assassinio d’una figura simbolo, quel generale Soleimani in predicato per un ruolo politico di spicco. Allo spirito combattente, all’orgoglio nazional-popolare si rifà il principalismo per proporre una nuova scalata al potere. E ha dalla sua il fatto che né ai tempi di Khatami, né con la ben più contenuta gestione Rohani l’Occidente si sia mostrato amico.
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