Dilettantismo a parte, per Emiliano Brancaccio, docente di Politica economica all’Università del Sannio, le iniziative del governo “sono preoccupanti”.
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La maggioranza è stata battuta alla Camera sullo scostamento di bilancio con cui il Def dirotta risorse al taglio del cuneo fiscale. Emiliano Brancaccio, professore di Politica economica presso l’Università degli studi del Sannio, che ne pensa?
“Al di là del dilettantismo che talvolta sembra contraddistinguere l’andazzo di questa maggioranza, il problema è il contenuto politico delle sue iniziative. Dall’indirizzo di politica economica di questo governo emerge un chiaro attacco al lavoro. Troveranno i voti per portarlo avanti”.
Nel merito ritiene che questo taglio del cuneo fiscale di 3-4 miliardi sia sufficiente?
“Una misura modesta, e non è affatto detto che il taglio finisca nelle buste paga dei lavoratori. La vera cifra del governo sta nel fatto che vuole abolire la legge Dignità, in modo da rendere ancora più precario e più debole il mondo del lavoro. Il risultato complessivo di questa politica è una ulteriore compressione dei salari, non certo un loro aumento”.
Il governo intende convocare i sindacati 24 ore prima del varo di un provvedimento con misure ad hoc sul lavoro.
“È una storia vecchia: da anni il sindacato non tocca palla quando si tratta di decidere l’indirizzo di politica economica. Draghi era più diplomatico, Meloni è più sfacciata. Ma il risultato non cambia, la vecchia concertazione è finita da un pezzo”.
Nel mirino del governo c’è il Reddito di cittadinanza.
“Il Reddito di cittadinanza rappresentava un tentativo di allineamento delle politiche sociali italiane alle medie europee. La sua eliminazione non stimolerà affatto l’occupazione, aggraverà solo le condizioni di povertà”.
Il ministro Giancarlo Giorgetti propone un innalzamento del limite dei fringe benefit per i lavoratori dipendenti con figli. Si vince così il gelo demografico?
“Il cosiddetto inverno demografico è una questione troppo complessa per affidarla alle piccole trovate di Giorgetti. La denatalità è un grande fenomeno di portata storica, che non riguarda solo l’Italia. Le determinanti sono molte e sono di lungo periodo, non ultimo il fatto che in molti paesi avanzati l’età media delle donne si è innalzata e di conseguenza c’è stata una riduzione del grado di fertilità. Per affrontare questo tema servirebbe in primo luogo uscire dalla retorica propagandistica del governo. Iniziando ad ammettere, per esempio, che nelle società moderne può tranquillamente accadere che la tendenza alla denatalità sia in parte compensata dall’immigrazione”.
Questa maggioranza, però, è contraria all’immigrazione.
“Mettiamoci dal punto di vista delle lavoratrici e dei lavoratori nativi. I dati indicano che flussi di immigrati in realtà non incidono in modo significativo sull’occupazione o sui salari dei nativi. Piuttosto, sono i grandi flussi e deflussi di capitale che incidono sulle condizioni del lavoro, costringendo i singoli paesi a creare condizioni favorevoli solo ai profitti. Se l’obiettivo fosse davvero quello di proteggere le condizioni di lavoro dei nativi, bisognerebbe insistere non sul blocco dell’immigrazione ma sul blocco dei movimenti di capitale”.
C’è oggi un’emergenza salariale?
“Negli anni ‘70 l’inflazione era significativa ma era accompagnata da incrementi salariali altrettanto significativi. Oggi no. I salari recuperano solo in minima parte l’incremento dell’inflazione. Il risultato è che l’aumento dei prezzi attuale va tutto a vantaggio dei profitti e determina un ulteriore spostamento nella distribuzione del reddito dal lavoro al capitale”.
Il salario minimo può essere uno strumento efficace per superare tale emergenza?
“Sì a patto che aiuti a rafforzare la contrattazione sindacale e non a sostituirla. Come di aiuto sarebbe una politica che è esattamente opposta a quella avanzata dal governo. Vale a dire di superamento della politica di precarizzazione del lavoro piuttosto che di un’ulteriore precarizzazione dei contratti che alimenta il fenomeno della depressione salariale”.
Che ne pensa della riforma del Patto di stabilità presentata da Bruxelles?
“È troppo restrittiva. Ma i problemi principali vengono dalla politica monetaria della Bce. Quale che sia la forma che prenderà il nuovo Patto, rischieremo comunque una situazione di insostenibilità dei debiti causata dal fatto che la politica monetaria è tornata a essere restrittiva. Ciò che bisogna capire è che il debito diventa sostenibile solo quando i tassi di interesse sono bassi rispetto alla crescita del Pil. Se i tassi d’interesse diventano alti il debito esplode, anche se facciamo austerity. La prova al contrario ce la danno proprio gli ultimi anni. A causa della pandemia e della guerra tutti i paesi hanno fatto registrare deficit pubblici molto alti, eppure il rapporto tra debito pubblico e Pil non è aumentato ma addirittura si è ridotto! Il motivo è che le banche centrali tenevano i tassi d’interesse estremamente bassi. Ora che le banche centrali innalzano i tassi, c’è il rischio che l’Italia e gli altri paesi fragili della zona euro cadano di nuovo in crisi profonda. Col rischio di vedere di nuovo fibrillare lo spread. Al di là della discussione sul Patto, la verità è che bisognerebbe creare consenso in Europa per evitare che la banca centrale continui ad alzare i tassi di interesse”.
Il governo insiste con l’invio di armi in Ucraina. Sul Financial Times, lei con numerosi esponenti della comunità accademica mondiale, avete proposto una linea diversa, pubblicando un appello sulle ‘condizioni economiche per la pace’.
“Con quell’appello vogliamo segnalare che la politica che viene portata avanti dagli oltranzisti della guerra è viziata dal fatto che non dispone di una strategia credibile per aprire una via di pace. La nostra tesi è che per allentare le tensioni internazionali è necessario capire le basi economiche dei conflitti in corso. In particolare, bisogna comprendere che i venti di guerra di questo tempo, dall’Ucraina a Taiwan, sono alimentati dalla svolta protezionista aggressiva e unilaterale che gli Usa hanno imposto nel corso di questi anni, e alla quale l’Ue si è accodata, contro la Cina e i paesi non allineati, Russia inclusa. Se l’Occidente non mette in discussione questa linea di protezionismo aggressivo, sarà difficile creare condizioni favorevoli per l’avvio di un concreto processo di pacificazione mondiale”.
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