Convocati a guardare al Brasile a causa del calcio, opinionisti che nell’ultimo decennio mai si sono interessati alle grandi trasformazioni di uno dei più importanti attori globali, si arrampicano sugli specchi dei loro pregiudizi. Starebbe andando in scena la fine dei governi socialdemocratici di Dilma Rousseff e Lula da Silva, il ritorno del Brasile al suo destino terzomondista, il fallimento dell’utopia progressista in America latina. Poche analisi vanno oltre una superficie tendente a riprodurre l’eterno immaginario di un Brasile incapace di esercitare il proprio ruolo nel mondo. Ma basta fare i conti col fatto che quasi un’Italia (50 milioni di persone) è uscita dalla povertà in Brasile negli ultimi dieci anni, per capire come verità e pregiudizi sul Brasile contemporaneo si mescolino in un rituale semplificatorio e malintenzionato.
Il caso dei trasporti pubblici, che ha ispirato lo sbocciare della protesta, è esemplificativo della grande trasformazione e delle nuove contraddizioni che ha prodotto. A San Paolo, nell’ultimo decennio, è talmente aumentato il numero di chi si è potuto permettere un’auto che la velocità degli autobus nel traffico si è quasi dimezzata. Contemporaneamente al peggioramento della qualità del servizio le imprese private di trasporto pubblico (sovvenzionate dallo Stato) hanno aumentato profitti e biglietti ma non gli investimenti. La sinistra ha recuperato la metropoli pochi mesi fa promettendo un cambio non ancora avvenuto: per corruzione? Sacro rispetto dei profitti privati? Impossibilità di districarsi tra interesse pubblico e privato? Mancanza di investimenti? Incapacità di risolvere i nodi dello sviluppo della maggiore metropoli del continente? Lo schema potrebbe essere ripetuto per ognuna delle altre rivendicazioni della protesta, come per esempio quella contro la violenza della polizia vissuta troppo spesso come un’endemica fatalità. Bene che se ne dibatta.
Fino a ieri i monopoli mediatici elogiavano il Brasile come la “sinistra responsabile”, capace di conciliare un po’ di giustizia sociale senza toccare il palinsesto neoliberale rispetto a un continente di estremisti pericolosi come il “negraccio dell’Orinoco” Hugo Chávez o il “narco-indio fuori di testa” Evo Morales. È fin troppo ovvio – specialmente da quest’Italia prostrata dalle larghe intese – simpatizzare con chiunque scenda in piazza a protestare o, in alternativa, convincersi (come dice il premier turco Erdogan che vede lui e Dilma uniti nella lotta) che stia andando in scena l’ennesima rivoluzione colorata eterodiretta. In Brasile, dove la primavera c’è già dal 2003, è tutto più complesso di così. Non vi è una rivoluzione colorata ma, tra gli elementi d’analisi, c’è quello di un tentativo di destabilizzazione condotto, come rileva il sempre illuminante Emir Sader, innanzitutto dai monopoli mediatici privati. Uno dei principali massmediologi brasiliani, Laurindo Leal, lo ha spiegato perfettamente in Carta Maior: “A TV organiza a massa”. Evidenzia passo a passo come Rede Globo abbia materialmente manipolato per far montare la protesta rappresentandola, con un ulteriore artificio mediatico, come “apartitica”.
Da anni giornali e televisioni, come nel resto della regione storicamente in condizione di monopolio delle élite conservatrici (è un dato da non scordare mai), conducono un’unica feroce campagna contro la corruzione politica. Come quando i canali Mediaset veicolavano l’allarme sicurezza per colpire Romano Prodi, lo scopo è debilitare il Partito dei Lavoratori (PT), come se questo abbia inventato la corruzione in Brasile – semmai è vero il contrario – e per oscurarne i successi. Il governo brasiliano, e il PT, hanno avuto in questi anni degli straordinari ritardi nel dotarsi di una politica mediatica efficace e di un’azione di contrasto contro il sicariato informativo. Si sono illusi di poter continuare a vincere “nonostante i media”. Non sono nella situazione del Chávez pre-11 aprile 2002 (il golpe), che non aveva alcuna politica mediatica, lottando a mani nude contro il mainstream, ma sono lontani anni luce dalla coscienza sviluppata dai governi kirchneristi in Argentina per i quali la democratizzazione dell’informazione è di gran lunga la battaglia decisiva senza la quale nessuna conquista è più possibile.
Ciò che accade è allora che, convogliate dai media, vi sono più piazze diverse che entrano pericolosamente in frizione. Vi è una piazza progressista che chiede di più al governo di centro-sinistra. Vi è una piazza che, semplificando, potremmo definire post-politica, per molti aspetti grillina. La schiena dritta dei governi del PT, i programmi sociali che appoggiano 50 milioni di brasiliani hanno portato alla povertà dimezzata, all’indigenza ridotta a livelli mai pensati possibili (il 6% secondo la CEPAL) e alla quasi piena occupazione, pericolose utopie per il regime neoliberale. “E ora?” sembrano dire scendendo in piazza i beneficiari di quei piani transitati dal lumpen-proletariato a un piccolo benessere non consolidato.
Da sinistra si appunta (a volte con sufficienza) a che tale spezzone di opinione pubblica sia manipolata dai media e sia espressione di quel nuovo Brasile individualista e consumista che preoccupa molti. Colmate le esigenze primarie milioni di brasiliani vogliono consolidare il benessere raggiunto e si aspettano altro e di meglio per se stessi e dallo Stato. Il PT, la stessa Dilma Rousseff, che si dicono vicini alla protesta e invitano i loro militanti a scendere in piazza, hanno in realtà difficoltà ad interpretarne il senso. Può un grande partito socialista, che per decenni è stato lo straordinario interprete delle aspirazioni delle masse brasiliane, ma che è a sua volta cambiato, continuare a rappresentarle una volta “imborghesite”?
Vi è infine una piazza reazionaria, infiltrata da gruppuscoli di estrema destra violenta ed eversiva che cercano le violenze in favore di telecamera, in sinergia con i monopoli mediatici privati. Sono quelli che stanno cercando di creare le condizioni per un cambio di segno politico del governo nazionale. Ciò magari utilizzando la figura del magistrato nero e conservatore Joaquim Barbosa, che credono capace col suo prestigio di far inalberare alla corrottissima destra brasiliana la bandiera dell’anticorruzione. È tutto da vedere ma, in tal caso, la prima contromossa del PT sarebbe il ritorno di Lula che una parte della base già chiede.
Nonostante l’approvazione per Dilma, pur in discesa, resti oltre il 50%, nelle semplificazioni giornalistiche la coincidenza tra le proteste e un torneo calcistico dalla visibilità planetaria portano a equazioni insostenibili tra governo progressista e sprechi, corruzione, addirittura repressione della protesta sociale. Il tutto avviene in un clima allarmistico strumentalmente volto a danneggiare l’immagine del paese e di chi lo sta cambiando in meglio da dieci anni. Rispetto al tema della repressione, appare evidente (ma dai nostri media si capisce il contrario) un uso dosatissimo della forza in un paese dove la “pulizia sociale”, quella che ogni giorno fa fare alla sola polizia di San Paolo un paio di morti tra gli indesiderabili, è prassi di governo dell’ordine pubblico storicamente consolidata.
Per comprendere tale contingenza è importante collocare la fase storica che il paese sta vivendo. Il Brasile è oggi un grande paese indipendente, un attore globale, una potenza regionale con un’immagine e una prassi benevola e inclusiva, capace di mettere ai primi posti la giustizia sociale con una democrazia vivace e partecipativa. Dicendo no all’ALCA di George Bush pose le basi della primavera e dell’integrazione latinoamericana. È un paese sviluppato, capace di mettere satelliti in orbita e di avanzare al passo della Cina per numero di brevetti e pubblicazioni scientifiche. Poche università al mondo offrono oggi opportunità più di quelle brasiliane.
Ma il Brasile resta uno dei paesi più diseguali al mondo, con permanenze profonde di violenza classista e razzista. Un giovane nero ha 2,5 volte la possibilità di morte violenta di un coetaneo bianco. Inoltre non è riuscito a disancorarsi dalla dipendenza storica dall’agroindustria esportatrice, sacrificando alla pace con i mercati il patto con le masse contadine per una riforma agraria tuttora necessaria, che tanto aveva significato nella costruzione stessa del PT. A questo si aggiungono colpe che solo se in profonda malafede si possono attribuire al governo federale: la detta corruzione strutturale, l’atavica necessità d’infrastrutture. Per quanto concerne la prima, i governi del PT, pochi lo ricordano, hanno dovuto sempre pattare con partiti centristi, clientelari, sempre corrottissimi con i quali era necessario comprare letteralmente (cfr. mensalão) ogni singolo provvedimento, ogni legge civile. Per quanto concerne il ritardo infrastrutturale, oltre all’enormità del compito, si coniugano fattori e appetiti di attori locali e internazionali che sempre più si scontrano con movimenti ambientalisti importanti. La facciamo o no la TAV da San Paolo a Rio de Janeiro?
Soprattutto: il Brasile non è riuscito a metter neanche in agenda una riforma fiscale in grado di far pagare a chi possiede enormi ricchezze la costruzione di uno stato sociale all’altezza delle necessità. Lo sanno o non lo sanno quelli che scendono in piazza, e quelli che dall’Europa solidarizzano con un Like via Facebook, che un grande stato sociale quale quello al quale giustamente aspirano le classi medie brasiliane non può essere sostenuto senza raddoppiare o triplicare la capacità impositiva di un sistema fiscale a tutt’oggi ridicolo? Buoni o cattivi, onesti o corrotti che fossero, gli amministratori locali che avevano scelto la scorciatoia di aumentare i costi dei trasporti pubblici, manifestavano innanzitutto l’insostenibilità della modernizzazione senza un sistema fiscale fortemente progressivo. Questo – chi scrive lo segnala da anni – è il principale e il più irrisolvibile dei nodi dell’America latina contemporanea: oltre il livello basico di cittadinanza del garantire a tutti l’uscita dall’indigenza, la sostenibilità a lungo termine di uno stato sociale efficiente va adeguatamente finanziata non solo con gli andirivieni dei prezzi dell’export (ancora troppo spesso commodity), ma attraverso un sistema fiscale tipico delle socialdemocrazie avanzate. Nemmeno il Venezuela bolivariano ha affrontato tale nodo, finanziando le missioni sociali con la rendita petrolifera, senza toccare il portafogli di ricchi e benestanti. Anche oggi in Brasile Dilma, in risposta alla protesta, sostiene che finanzierà scuole pubbliche migliori con la rendita petrolifera. No petrolio, no scuola? Vero è che contro una riforma fiscale progressiva si convoglierebbero enormi resistenze: gli attori internazionali, le multinazionali, il complesso mediatico, le classi dirigenti tradizionali, le classi medie vogliose di aumentare e consolidare i loro consumi. Se a questo si aggiunge la scelta (inevitabile?) politica brasiliana di non toccare l’impalcatura neoliberale – nessun controllo sul possesso dei dollari, nessun controllo sui prezzi, nessun obbligo per le multinazionali di reinvestire gli utili in Brasile – ci troviamo di fronte a un quadro nel quale questa formula di governo progressista sta toccando il proprio tetto di cristallo. Davvero questo tetto non si può sfondare? Dobbiamo accettare che andare al governo sia servito solo a regalare una nuova generazione di consumatori per un florido mercato interno che lasci a questo anche diritti quali educazione e salute?
Negli ultimi giorni Andrés Singer, ex-portavoce di Lula, ha scritto sulla Folha di Sao Paulo una sacrosanta verità: «se la domanda di miglior salute, educazione e sicurezza è giusta la sinistra deve avere il coraggio di rivendicare come proprio un programma di aumento della spesa pubblica per costruire lo stato sociale che le masse chiedono». Un passo avanti. Ma chi esce dalla povertà non può guardare indietro in eterno. Vuole di più, per se stesso e per la società. Il Brasile è a uno straordinario crocevia. Di nuovo la contingenza ci aiuta: il 75% dei brasiliani considera scadente la sanità pubblica. Mancano i medici ma a San Paolo si è manifestato anche contro l’importazione di medici e altri professionisti dall’estero. Le nuove classi medie attenderanno il pubblico o pagheranno porzioni importanti di reddito per il privato? Può consolidarsi un individualismo più avanzato di quello fallimentare ed escludente dei regimi neoliberali o prevalere una nuova idea di inclusione sociale che ha nella costruzione di un welfare avanzato la forma visibile, che tutti possano toccare con mano.
Fino ad ora, il progresso umano, le riforme per rendere più degno il lavoro, per sostenere le moltitudini senza risorse, non hanno prodotto tanto nuovi cittadini ma soprattutto una sinergia sui generis tra capitale e lavoro in dosi da cavallo. Abbiamo vissuto nell’illusione che postulati neoliberali e giustizia sociale potessero correre su binari paralleli senza confliggere. In parte è stato vero, ma le proteste dimostrano che tale convivenza logora oggi il consenso che il governo progressista ha mantenuto in questi anni. “Ordem e progresso” si legge sulla bandiera verdeoro. Se nel Novecento c’era stato l’ordine senza progresso (21 anni di dittatura e poi il regime neoliberale) il nostro secolo rischia di portare il progresso senza ordine, ovvero senza crescita sociale, senza cittadinanza. Una società matura, direbbero da destra. La sfida della sinistra è come rilanciare la sfida dell’inclusione e dei diritti per pensare uno sviluppo armonico per le persone e l’ambiente. Si parte dal merito storico di essere stati capaci di farsi carico di tali bisogni primari in via di essere sanati, come nessun governo conservatore e liberale si era proposto di fare. Ma la maggior parte del cammino è ancora da fare.
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