Due anni fa le prime proteste di piazza, in breve trasformate in
guerriglia poco popolare da poteri esterni. La soluzione? Le chiavi
della pace in mano al mondo.
Sono passati oltre due anni da quando nella primavera del 2011 le prime
proteste infiammavano le strade di alcune città siriane. In molti allora
videro in quei moti, solo apparentemente spontanei, un effetto domino
innescato da quanto era accaduto pochi mesi prima in Tunisia e in
Egitto e stava accadendo in Libia. Proprio il caso libico avrebbe dovuto
invece indurre ad una prudenza verso le cosiddette "primavere arabe"
visto che lì il vento della democrazia soffiava attraverso i
bombardamenti Nato che distruggevano il Paese condannando alla sconfitta
l'esercito di Gheddafi e all'insicurezza e alla barbarie la Libia. Ma
così non fu.
Infatti, anche grazie ad una martellante campagna di disinformazione
da parte della quasi totalità dei media, avviene una sorta di cieca
equazione, da una parte il governo siriano di colpo diventato
"dittatoriale e criminale", dall'altra i manifestanti paladini di
"democrazia e libertà". Facile il verdetto: chi ama la democrazia non può che augurarsi una veloce caduta del rais di Damasco. Il
presidente siriano, al quale fino a poche settimane prima molti manager
occidentali (compresi quelli del nostro Paese) bussavano alla porta per
stringere affari e accordi, diventa il demonio, un "insopportabile"
da rimuovere, meglio se sopprimendolo. Un copione non nuovo visto che
precedentemente era stato usato con Milosevic, Saddam e in ultimo
Gheddafi. Certamente leader lontani dal poter essere presi come campioni
di democrazia, ma la cui vera colpa era stata quella di rifiutare di
collocarsi sotto l'ombrello degli Usa.
Nella primavera del 2011 assistiamo anche ad un attacco durissimo contro
ogni voce che si pone fuori dal coro, e proprio i Comunisti italiani
sperimentano sulla loro pelle la loro coerenza internazionalista e
anti-imperialista che da tempo li aveva portati ad avere dei rapporti di
stima e amicizia con il Partito comunista siriano.
Sia ben chiaro che un partito come il Baa'th che detiene il governo di una
nazione da oltre quaranta anni è normale che venga percepito da parte
della popolazione come elemento di chiusura, anzi sarebbe da
sorprendersi se fra i giovani non ci fossero quanti auspichino un cambio
anche radicale del quadro politico. Emotivamente è comprensibile. E'
questo è ancora più normale se questo partito vede alla sua guida una
famiglia, gli Assad appunto, e se questa famiglia proviene da una
confessione storicamente minoritaria nel paese, gli Alawiti.
A ciò si deve aggiungere che alcuni settori del potere siriano (anche
all'interno della famiglia degli Assad), da tempo critici su alcune
aperture di Bashar Assad, forse colti di sorpresa dalle prime
manifestazioni, oppongono a queste proteste una reazione spropositata
quanto insensata. Ricordiamo quanto successo a Daraa, quando una
manifestazione del tutto pacifica viene repressa nel sangue dalle forze
di polizia. Le prime proteste quindi rappresentano un sentire diffuso,
anche se forse non maggioritario, e sicuramente risentono dell'effetto
delle notizie che arrivavano da Tunisi e dal Cairo. Il re era nudo, si
poteva abbattere, deporre, quindi perché non provarci anche a Damasco?
Va però ricordato che Bashar Assad cerca immediatamente un dialogo con i
manifestanti: verrà destituito il responsabile della polizia della
regione di Daraa e alla fine di aprile annuncia la fine dello "stato di
emergenza" in vigore dal 1963. Bashar annuncia anche una stagione di
riforme di più vasta portata e chiede alle masse critiche verso il
governo di concedergli tempo.
Il dibattito interno alla politica siriana
L'origine delle proteste va ricercato quindi in motivi
tutti interni alla Siria, con questo senza sottovalutare i tentativi di
destabilizzazione messi in atto dagli Usa e dalle potenze occidentali da
oltre un decennio. Da mesi il governo di Damasco era impegnato in un
durissimo dibattito, che coinvolgeva anche il Parlamento, sulla
dismissione di asset centrali per l'economia del Paese a partire da
quelli energetici e idrici. La privatizzazione delle centrali
elettriche, ad esempio, aveva registrato un forte interesse dell'Edf, la
multinazionale francese con le mani in pasta in molte situazioni di
crisi internazionale. Su questo tema la discussione era stata durissima e
aveva visto proprio i comunisti siriani in prima fila nella lotta
contro la svendita di settori che a loro dire avrebbe indebolito la
sovranità nazionale della Siria. Lo stesso vale per la privatizzazione di altri settori e per la liberalizzazione di alcune tariffe
che aveva portato ad un indebolimento del potere d'acquisto dei salari e
quindi ad un impoverimento diffuso di ampi settori della popolazione.
La siccità e la crisi economica
A questo si deve sommare che la Siria usciva da tre anni di durissima
siccità che aveva reso praticamente desertiche le vaste terre della
regione interna fra Latakia e Homs, notoriamente possedute da famiglie
della borghesia sunnita, causando crisi e malcontento fra questa gente.
Ad aggravare questa situazione secondo alcuni studiosi si sommavano
alcuni accordi con la vicina Turchia sullo sfruttamento di alcune
sorgenti idriche lungo il corso dell'Eufrate, nel Nord del Paese. In
ultimo, ma non per questo con un minore effetto, la crisi economica
mondiale che seppur in ritardo iniziava a far sentire i suoi effetti
anche nella regione mediorientale.
Elementi centrali, questi, fra le parole d'ordine delle prime proteste e
più che sufficienti per far accendere il fuoco delle rivolte, che in un
primo momento non mettono però in discussione il governo e che non di
rado sono guidate dalle forze progressiste presenti all'interno del
Fronte patriottico nazionale che da decenni guida la Siria. Ma parallelamente
allo scoppio di queste legittime manifestazioni parte il piano S,
ovvero quello che i servizi segreti Usa da anni avevano nel cassetto per
mettere fine a quello che era l'unico governo dell'area che non
accettava l'idea di quel "grande Medio Oriente" tanto cara alla famiglia
Bush e mai rinnegata da Obama. Le manifestazioni sono in breve
infiltrate, spesso avvengono delle vere e proprie provocazioni, anche
armate, con l'obiettivo di innescare una reazione della polizia.
Reazione che non si fa attendere e che come ricordavamo prima a volte
sconfina in violenze certamente evitabili.
Dalla piazza alla guerriglia finanziata dall'estero
Da questo momento, più o meno databile intorno alla fine dell'estate, si
modifica lo scenario. La piazza non esiste più e al suo posto appare
una vera e propria guerriglia armata sempre più monopolizzata da
elementi esterni alla Siria. Significativo è il discorso di Barak
Obama, tenuto il 21 agosto presso l'organizzazione filo israeliana
Aipac, dove si ammette la possibilità per il Pentagono di prendere in
considerazione un intervento armato da parte degli Stati Uniti. In
prima fila nella linea interventista è però la Francia, che dopo le
azioni militari in Libia sembra pervasa da uno spirito neocoloniale che
la porta ad un attivismo smodato sullo scenario africano e
mediorientale.
In Siria parallelamente alla questione interna e ad una logica di ingerenza geopolitica da parte di Usa e Europa, si
gioca un'altra partita: è quella che vede opposti il mondo sunnita
delle petrolmonarchie oscurantiste a quello sciita guidato dall'Iran.
Cavallo di Troia dei primi è il movimento dei Fratelli mussulmani, da
sempre del tutto compatibile con la grande finanza internazionale e con
il liberismo e trade union fra i regimi dell'Arabia Saudita, Qatar,
Giordania e la Casa Bianca, in virtù di un tacito accordo siglato con
l'allora responsabile della politica estera Usa Hillary Clinton durante
la visita di Obama al Cairo del giugno 2009. Più o meno negli stessi
mesi dello scoppio delle rivolte in Siria c'era stato nel vicino Libano
un rovesciamento delle alleanze, che aveva visto Hezbollah, legati allo
sciismo iraniano, estromettere democraticamente dal governo il partito
Mustaqbal di Hariri, sunniti filo saudita. Uno smacco indigeribile per
il regime di Riad.
Più o meno in questi mesi entra in scena un protagonista che da anni
aspira ad un ruolo egemone nella regione: la Turchia di Erdogan e del
neo-ottomanismo propugnato dal suo ministro degli Esteri. Lo
schierarsi a fianco delle petrolmonarchie da parte del governo di Ankara
è vissuto da Bashar Assad come una pugnalata alle spalle, perché
proprio con il leader turco negli ultimi anni si era sviluppata una
intensa collaborazione sia politica che economica. Come si arriva a
questa rottura? Erdogan è convinto che i rapporti di buon vicinato
inaugurati da diversi anni con la Siria siano il preludio di una sorta
di ottomanizzazione del Paese arabo. Ritiene che Damasco debba accettare
il suo protettorato senza reclamare spazi di autonomia, condizione
preliminare per non fare cadere l'appoggio della Turchia in un momento
difficile quale è l'inizio della crisi siriana. Queste richieste sono
però considerate inaccettabili da Damasco. Da qui l'inizio dei dissidi,
un fossato che si amplia grazie alle pressioni della Casa Bianca e della
Nato che vedono per la prima volta la possibilità di togliersi di torno
gli Assad.
In molti in effetti scommettono in una rapida caduta del presidente
siriano, sulle orme di quanto successo a Ben Alì, Mubaraq e Gheddafi. Ma
resteranno ad oggi tutti delusi.
La Siria fatta a pezzi e lo stallo internazionale
Il 2012 sarà per la Siria un anno durissimo. Oramai pressoché isolata
dal mondo e sotto il continuo attacco delle bande armate che si
oppongono al governo di Damasco. Sono migliaia i combattenti - ma
forse è meglio chiamarli con il nome più appropriato: i mercenari -
arrivati dai quattro angoli del mondo arabo per esportare anche in
Siria, in nome dell'Islam sunnita, il cappello di Washington. Bande
che si riconoscono sotto l'effige della vecchia bandiera della Siria
colonizzata, fatta propria dall'Esercito libero siriano e dalla
Coalizione nazionale siriana. Nonostante gli ingenti aiuti in denaro,
uomini e armi, i successi sono modesti, ma soprattutto gli insorti
non riesco nell'operazione di controllo di una fetta omogenea di
territorio, possibile escamotage per imporre alla Siria da parte della
Nato una nefasta riedizione della no-fly zone, preludio alla guerra
in Iraq e in Libia. Nello stesso tempo la strada di un coinvolgimento
dell'Onu in chiave anti-Assad è questa volta scongiurato grazie alle
decise prese di posizione di Russia e Cina, ma più in generale dei paesi
del Brics, che probabilmente hanno fatto tesoro di quanto successo in
Libia, dove i loro tentennamenti hanno aperto le porte al protagonismo
unilaterale della Nato. E se Pechino vede in quanto accade in Medio
Oriente i primi sintomi di un conflitto lunghissimo che nel futuro li
opporrà agli Stati Uniti e all'Occidente loro alleato, la Russia ha in
Siria interessi molto più concreti e attuali: primo fra tutti il
mantenimento di quella che è l'unica base militare navale della Russia
nel Mediterraneo di stanza nel porto di Tartus. La presenza militare
russa in questi mesi ha rappresentato un elemento formidabile di
dissuasione per chiunque fosse tentato da prove di forza sul modello dei
primi bombardamenti francesi su Tripoli. Infatti un intervento armato
in Siria rappresenterebbe una esplicita dichiarazione di guerra anche
verso la Russia, con conseguenze inimmaginabili.
Ma se è vero che l'opposizione non è riuscita nell'intento di togliere
stabilmente del territorio dal controllo del governo centrale è
altrettanto indiscutibile che nonostante gli ingenti sforzi il governo
di Damasco non è riuscito ad imporre sicurezza e stabilità in Siria.
Sempre di più la disperazione degli oppositori si sfoga in attentati
suicidi che portano morte e distruzione all'interno delle città siriane.
Uno stillicidio che mese dopo mese sta cambiando le consuetudini della
popolazione. Dove invece sembra non essere riuscita a fare breccia
l'opera de stabilizzatrice di Washington è sul piano confessionale. La
Siria nel suo insieme resta un Paese interconfessionale e la temuta
"libanesizzazione" ad oggi non è realtà. Sicuramente i rapporti fra
sunniti e sciiti, e soprattutto fra alawiti e sunniti, e ancora fra
quest'ultimi e l'infinito arcipelago del cristianesimo, si sono
deteriorati, ma gli esempi di dialogo e di collaborazione sono tantissimi. Uno fra tutto la mussalaha, riconciliazione: un percorso di pace che vede lavorare insieme cristiani e musulmani.
Ma attenzione a sottovalutare questo rischio, proprio la frantumazione,
e il confessionalismo rappresenta uno strumento straordinario per
arrivare a ciò, e resta il principale obiettivo sia degli Stati Uniti che
delle potenze regionali, leggi Arabia Saudita, Turchia e Israele.
Tutto questo ha però portato ad una situazione di stallo. Uno stallo
drammatico, fatto di fame e morti quotidiane, ma non del tutto avverso i protagonisti anti Assad. Gli Stati Uniti e lo stesso Israele,
infatti, non disdegnano affatto una situazione che rende impotente il
governo di Assad, e nello stesso tempo ricattabili i ribelli islamici,
alleati oggi ma possibili nemici domani. Anche perché all'iniziale
monopolio dei Fratelli Musulmani sull'opposizione, si sta passando
settimana dopo settimana ad un affermarsi delle milizie salafite vicine
alla galassia denominata Al Qaeda. Forse anche per queste ragioni
sembrerebbe cambiato l'approccio di alcuni Paesi occidentali che
iniziano a pensare ad una soluzione che non elimini dalla scena il
blocco di potere vicino al presidente Assad: la conferenza di
Ginevra ha questo obiettivo, ma i lavori sono in alto mare ed è
difficile prevedere quale sarà - ammesso che si riesca a tenere - lo
sbocco.
Una sensazione analoga si prova all'interno del cosiddetto pacifismo
italiano, in un primo momento miopemente schierato con gli oppositori.
Di giorno in giorno aumentano i distinguo e le prese di distanza da uno
schieramento che mostra di essere assolutamente succube ai voleri degli
Usa.
Come uscire dalla crisi?
Proviamo ad azzardare, in conclusione, quale potrebbe essere una porta di
uscita da questa crisi. A mio modesto avviso questi due anni hanno
mostrato che Assad gode dell'appoggio e del sostegno di una parte
importante del suo popolo e nello stesso tempo che l'esercito
rappresenta una colonna non eludibile dell'unità nazionale. Dall'altra
parte seppur divisa e distante spesso dalla popolazione - che la sente
estranea - l'opposizione grazie alle risorse che gli arrivano dai Paesi
amici conserva vigore e forza. Con questi due elementi tutti devono fare
i conti a partire dall'opposizione, quella innanzitutto siriana e poi
volenterosa di dare pace al Paese. Il prossimo anno scadrà il mandato
presidenziale di Assad e intorno a questo potrebbe giocarsi una partita
che veda garante la Russia e che cerchi di limitare i vincitori e gli
sconfitti. Il rischio contrario è invece un accendersi di altri fuochi
ad iniziare dal vicino Libano, dove intorno a Tripoli e a Sidone si
combatte come si stesse in un pezzo di Siria. Il coinvolgimento
fraterno del partito Hezbollah, che ha avuto un ruolo chiave nella
liberazione della città di Qusayr, e la presenza dei mercenari sunniti
rischia di far sprofondare in un nuovo conflitto il piccolo paese dei
cedri.
Come mi ha spesso detto un grande intellettuale arabo, Talal Salman,
direttore del quotidiano libanese Assafir, quando gli chiedevo numi
sulle crisi in Siria e in Libano, "le chiavi della pace in questa
regione sono nelle capitali di altri Paesi. Parigi, Washington, Londra,
Riad, Ankara, Teheran.". Una verità sempre molto attuale.
Fonte
Un ottima disamina davvero. Per approfondire i complicati intrecci che si dipanano sulla via di Damasco, consiglio anche i seguenti due articoli:
Combattere in Siria 1: Dalla Tunisia al jihadismo
Combattere in Siria 2: Gli iracheni a fianco di Assad
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