L'Italia rischia 8 miliardi di perdite su derivati della fine degli anni
'90. Ma è solo una parte dello "sbilancio" creato da questo genere di
contratti.
Chi sbaglia, paga. In ambito capitalistico anglosassone, una volta, funzionava così. Poi venne l'epoca dei bailout,
dei salvataggi di quelle banche (e assicurazioni) “troppo grandi per
fallire”. E pure il capitalismo ha perso il baricentro più solido: il
fallimento come normalità del mercato.
Il criterio sembrava
rimasto in vigore almeno per i singoli manager. Ma ora scopriamo che non
è così nemmeno per quest'ultimo lembo di “selezione in base al
merito”...
E la cosa ci riguarda davvero da vicino. Vent'anni
fa, infatti, l'Italia – ovvero il ministero del Tesoro – ha sottoscritto
otto contratti in “prodotti finanziari derivati” con banche straniere,
con scadenze tra il 2017 e il 2040. Non si tratta di un'illazione;
l'informazione, molto dettaglia, è contenuta in un documento del Tesoro,
trasmesso alla Corte dei Conti e venuto alla luce grazie al più
informato dei giornali economici, il Financial Times.
Perché il Tesoro ha compiuto allora un'operazione così rischiosa? In
quel periodo l'Italia aveva bisogno di “aggiustare i conti” per centrare
gli obiettivi di deficit fissati dall'Unione Europea, riguardanti gli
11 paesi che hanno poi fatto parte del gruppo “fondatore” dell'euro. E
quindi il Tesoro pensò bene di coprire l'esigenza con pagamenti in
anticipo dalle banche disponibili; otto contratti derivati dal valore
nozionale di 31,7 miliardi di euro. Nel 1995, viene oggi ricordato,
“l'Italia aveva un un deficit di bilancio del 7,7%. Nel 1998, l'anno
cruciale per l'approvazione del suo ingresso nell'euro, il deficit si
era ridotto al 2,7%”. Grande successo, apparentemente, ottenuto peraltro
senza un aggravio di tasse per i cittadini (che avrebbero, in quel
caso, potuto manifestare qualche dubbio sulla convenienza di un
passaggio tanto affrettato verso la moneta unica).
I “contratti
derivati” avevano una scadenza abbastanza lunga, tale – sembrava – da
consentire un ripianamento scaglionato nel tempo e poco oneroso per le
finanze di un paese destinato a crescere rapidamente proprio grazie
all'euro.
Calcolo clamorosamente errato. La crisi finanziaria
del 2007-2008 ha fatto “scoprire” che quei contratti erano una “sòla”
vantaggiosa soltanto per le banche, visto che le condizioni erano da
strozzinaggio. In ogni caso, si è imposta la necessità di una drastica
correzione di rotta, tra cui una “ristrutturazione del debito”.
Naturalmente non gratuita, ma “onerosa”. Appunto gli otto miliardi di
“perdite” che ora mancano nel bilancio dello Stato e su cui è stata
allertata anche la guardia di finanza. La quale ha effettuato in aprile
perquisizioni negli uffici di Via XX Settembre.
Questo buco non è
l'unico, visto che il documento citato da Ft si riferisce soltanto alle
"transazioni e all'esposizione sul debito nella prima metà del 2012”.
Se calcoliamo la fatica che sta facendo Saccomanni per reperire il
miliardo che servirebbe per coprire i tre mesi di rinvio dell'aumento
dell'Iva, è facile capire che quella che si va aprendo nei conti
pubblici è un'autentica voragine creata da un “audace” direttore
generale che sembrava saperla più lunga degli altri.
Vi
chiederete chi era e se la sua carriera, per questo errore, sia andata
in malora. Qui, se permettete, spieghiamo perché all'inizio ci siamo
dilungati sui guasti del “capitalismo che non punisce più chi sbaglia”.
Quel direttore generale si chiamava Mario Draghi.
È sufficiente?
Fonte
Ma cristo di un dio!!!
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