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29/06/2013

Australia, il boomerang laburista

di Mario Lombardo

Con un'altra discutibile manovra politica avvenuta dietro le spalle degli elettori, il Partito Laburista australiano (ALP) ha operato questa settimana un nuovo clamoroso cambio alla propria guida e a quella del governo del paese. Il primo ministro Julia Gillard è stata infatti estromessa dalla leadership del più antico partito dell’Australia per essere sostituita dal suo immediato predecessore, Kevin Rudd, nel tentativo di evitare un quasi certo tracollo nelle elezioni generali previste per il prossimo mese di settembre.

Il ribaltone al vertice del partito di maggioranza relativa a Canberra è andato in scena nella serata di mercoledì, con i parlamentari laburisti che hanno votato con un margine di 57 a 45 a favore di Rudd. L’avvicendamento indica la messa in moto di potenti forze dietro le quinte della politica australiana, dal momento che lo stesso Rudd aveva visto fallire nettamente due tentativi di riconquistare la leadership del suo partito a inizio 2012 e nel marzo di quest’anno.

Il governo Gillard, d’altra parte, risulta enormemente impopolare tra gli elettori e il primo capo di un esecutivo australiano di sesso femminile continua a suscitare una forte avversione proprio per il ruolo avuto nel blitz che tre anni fa la portò al potere al posto di Rudd. Secondo alcuni recenti sondaggi, nelle elezioni previste tra meno di tre mesi il Partito Laburista faticherebbe addirittura ad ottenere 30 seggi sui 150 totali della Camera dei Rappresentanti.

Il reinsediamento di Kevin Rudd è dovuto perciò ad una residua simpatia nei suoi confronti per le modalità con le quali venne estromesso dalla carica di primo ministro, nonché per avere suscitato qualche speranza di cambiamento dopo le elezioni del 2007. In quell’occasione, Rudd e i laburisti avevano beneficiato del profondo malcontento popolare per le politiche messe in atto dal governo liberale di John Howard, alimentando aspettative per una svolta progressista che non sarebbe però mai arrivata.

In ogni caso, dopo la scelta del nuovo leader da parte della delegazione parlamentare del Labor, nella mattinata di giovedì Rudd ha frettolosamente giurato anche come nuovo primo ministro di fronte al Governatore Generale dell’Australia, Quentin Bryce, senza nemmeno ottenere un voto di fiducia in Parlamento. Questa manovra è apparsa quanto meno discutibile, soprattutto alla luce del fatto che i laburisti sono alla guida di un governo di minoranza che si è retto finora grazie all’appoggio esterno di due deputati indipendenti, i quali, oltretutto, avevano inizialmente espresso qualche dubbio sulla loro intenzione di appoggiare un eventuale nuovo governo Rudd.

Il loro sostegno alla fine garantito al nuovo premier, assieme alla garanzia offerta dal leader del Partito Liberale di opposizione, Tony Abbott, di non procedere con una mozione di sfiducia, hanno comunque assicurato la nascita dell’Esecutivo, confermando il desiderio diffuso tra gli ambienti di potere australiano di evitare una crisi costituzionale in un momento di grande inquietudine sul fronte politico.

Il ritorno da protagonista di Kevin Rudd sulla scena politica australiana appare particolarmente singolare alla luce delle ragioni che avevano portato alla sua rimozione con un golpe interno al Partito Laburista nel 2010. Rudd, per cominciare, si era esposto alle accese critiche della comunità degli affari indigena - soprattutto della potente lobby dell’industria estrattiva, vale a dire la spina dorsale dell’economia del paese - a causa di un’odiata “supertassa” sui profitti di colossi come Rio Tinto o BHP Billiton. Dopo una campagna di discredito nei confronti dell’iniziativa promossa da Rudd, la tassa sarebbe stata approvata sotto la gestione Gillard ma in una forma decisamente più attenuata.

La caduta di Rudd nel 2010, inoltre, era stata dovuta anche a questioni di politica internazionale e alle manovre silenziose degli Stati Uniti per favorire la rimozione di un capo di governo alleato che aveva manifestato in più occasioni la volontà di mediare per giungere ad un accomodamento pacifico tra gli interessi di Washington e Pechino nel continente asiatico. Questa inclinazione tutt’altro che anti-americana di Kevin Rudd andava a scontrarsi con la cosiddetta “svolta” asiatica decisa dall’amministrazione Obama fin dal 2009 e che prevede il contenimento ad ogni costo dell’espansionismo cinese, da ottenere con mezzi economici e diplomatici ma anche militari.

Dopo l’uscita di scena di Rudd grazie all’opera di quelle che un cablo dell’ambasciata USA a Canberra pubblicato da WikiLeaks avrebbe descritto come “fonti protette” all’interno del Labor, la partnership strategica tra i due paesi è decollata, con il presidente Obama che a fine 2011 ha finalmente visitato il paese alleato, annunciando il dispiegamento di alcune centinaia di soldati americani in territorio australiano.

Queste ed altre preoccupazioni nei confronti di Rudd sembrano però essere state ora messe da parte, almeno momentaneamente, per cercare di dare qualche chance al Partito Laburista in vista delle elezioni e di scelte complicate che verranno richieste al prossimo governo in concomitanza con un evidente rallentamento dell’economia australiana. Questo partito, d’altra parte, ha dimostrato negli ultimi anni di sapere garantire l’implementazione relativamente indolore di politiche impopolari richieste dalle élite economiche e finanziarie australiane e internazionali, grazie soprattutto ai tradizionali legami con le organizzazioni sindacali e al sostegno di lavoratori e classe media.

Alcuni dei protagonisti della sua deposizione nel 2010 - a cominciare dal deputato irriducibilmente filo-americano Bill Shorten - si sono perciò adoperati questa settimana per riportare Rudd al potere, con ogni probabilità dopo il via libera degli Stati Uniti. Il Dipartimento di Stato americano, dopo il voto di mercoledì, ha così espresso la propria sostanziale approvazione, manifestando la volontà di mantenere un rapporto di collaborazione privilegiato con qualsiasi futuro governo australiano.

Rudd, da parte sua, dopo il ritorno alla guida dell’esecutivo ha rapidamente abbandonato la retorica dei giorni precedenti, sostituendo la promessa di abbandonare la strada dell’austerity con l’appello al business australiano per gettare le basi di una collaborazione con il governo, in vista di “decisioni difficili per il futuro della nostra economia”.

Il percorso del nuovo governo appare però complicato da molti fattori, a cominciare dalla risicata maggioranza in Parlamento e dalle profonde divisioni nel Partito Laburista. Numerosi ministri del governo Gillard hanno già rassegnato le proprie dimissioni giovedì, tra cui quello del Tesoro, del Commercio, dell’Agricoltura, delle Comunicazioni e del Cambiamento Climatico. Altri autorevoli membri del partito, tra cui il ministro della Difesa Stephen Smith e la stessa Gillard, hanno invece annunciato di non essere intenzionati a candidarsi nelle prossime elezioni.

Il Labor australiano, infine, anche con una nuova e meno screditata leadership difficilmente riuscirà ad evitare un’altra sonora sconfitta nel voto del 14 settembre prossimo dopo le batoste patite nelle recenti elezioni per il rinnovo di alcuni parlamenti statali. Il tracollo nel gradimento del partito tra le classi più disagiate è infatti dovuto proprio alle anti-democratiche manovre interne che hanno caratterizzato i cambi al vertice in questi anni e, ancor più, alla continua rinuncia anche alla parvenza di politiche progressiste, come, appunto, ha già fatto intravedere anche il redivivo neo-premier Kevin Rudd.

Fonte

Epopee piddine in salsa australiana. A dimostrazione che la sinistra liberale è una merda in tutto il mondo.

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