di Mario Lombardo
Con un'altra discutibile manovra politica avvenuta dietro le spalle
degli elettori, il Partito Laburista australiano (ALP) ha operato questa
settimana un nuovo clamoroso cambio alla propria guida e a quella del
governo del paese. Il primo ministro Julia Gillard è stata infatti
estromessa dalla leadership del più antico partito dell’Australia per
essere sostituita dal suo immediato predecessore, Kevin Rudd, nel
tentativo di evitare un quasi certo tracollo nelle elezioni generali
previste per il prossimo mese di settembre.
Il ribaltone al
vertice del partito di maggioranza relativa a Canberra è andato in scena
nella serata di mercoledì, con i parlamentari laburisti che hanno
votato con un margine di 57 a 45 a favore di Rudd. L’avvicendamento
indica la messa in moto di potenti forze dietro le quinte della politica
australiana, dal momento che lo stesso Rudd aveva visto fallire
nettamente due tentativi di riconquistare la leadership del suo partito a
inizio 2012 e nel marzo di quest’anno.
Il governo Gillard,
d’altra parte, risulta enormemente impopolare tra gli elettori e il
primo capo di un esecutivo australiano di sesso femminile continua a
suscitare una forte avversione proprio per il ruolo avuto nel blitz che
tre anni fa la portò al potere al posto di Rudd. Secondo alcuni recenti
sondaggi, nelle elezioni previste tra meno di tre mesi il Partito
Laburista faticherebbe addirittura ad ottenere 30 seggi sui 150 totali
della Camera dei Rappresentanti.
Il reinsediamento di Kevin Rudd è
dovuto perciò ad una residua simpatia nei suoi confronti per le
modalità con le quali venne estromesso dalla carica di primo ministro,
nonché per avere suscitato qualche speranza di cambiamento dopo le
elezioni del 2007. In quell’occasione, Rudd e i laburisti avevano
beneficiato del profondo malcontento popolare per le politiche messe in
atto dal governo liberale di John Howard, alimentando aspettative per
una svolta progressista che non sarebbe però mai arrivata.
In
ogni caso, dopo la scelta del nuovo leader da parte della delegazione
parlamentare del Labor, nella mattinata di giovedì Rudd ha
frettolosamente giurato anche come nuovo primo ministro di fronte al
Governatore Generale dell’Australia, Quentin Bryce, senza nemmeno
ottenere un voto di fiducia in Parlamento. Questa manovra è apparsa
quanto meno discutibile, soprattutto alla luce del fatto che i laburisti
sono alla guida di un governo di minoranza che si è retto finora grazie
all’appoggio esterno di due deputati indipendenti, i quali, oltretutto,
avevano inizialmente espresso qualche dubbio sulla loro intenzione di
appoggiare un eventuale nuovo governo Rudd.
Il loro sostegno alla
fine garantito al nuovo premier, assieme alla garanzia offerta dal
leader del Partito Liberale di opposizione, Tony Abbott, di non
procedere con una mozione di sfiducia, hanno comunque assicurato la
nascita dell’Esecutivo, confermando il desiderio diffuso tra gli
ambienti di potere australiano di evitare una crisi costituzionale in un
momento di grande inquietudine sul fronte politico.
Il
ritorno da protagonista di Kevin Rudd sulla scena politica australiana
appare particolarmente singolare alla luce delle ragioni che avevano
portato alla sua rimozione con un golpe interno al Partito Laburista nel
2010. Rudd, per cominciare, si era esposto alle accese critiche della
comunità degli affari indigena - soprattutto della potente lobby
dell’industria estrattiva, vale a dire la spina dorsale dell’economia
del paese - a causa di un’odiata “supertassa” sui profitti di colossi
come Rio Tinto o BHP Billiton. Dopo una campagna di discredito nei
confronti dell’iniziativa promossa da Rudd, la tassa sarebbe stata
approvata sotto la gestione Gillard ma in una forma decisamente più
attenuata.
La caduta di Rudd nel 2010, inoltre, era stata dovuta
anche a questioni di politica internazionale e alle manovre silenziose
degli Stati Uniti per favorire la rimozione di un capo di governo
alleato che aveva manifestato in più occasioni la volontà di mediare per
giungere ad un accomodamento pacifico tra gli interessi di Washington e
Pechino nel continente asiatico. Questa inclinazione tutt’altro che
anti-americana di Kevin Rudd andava a scontrarsi con la cosiddetta
“svolta” asiatica decisa dall’amministrazione Obama fin dal 2009 e che
prevede il contenimento ad ogni costo dell’espansionismo cinese, da
ottenere con mezzi economici e diplomatici ma anche militari.
Dopo
l’uscita di scena di Rudd grazie all’opera di quelle che un cablo
dell’ambasciata USA a Canberra pubblicato da WikiLeaks avrebbe descritto
come “fonti protette” all’interno del Labor, la partnership strategica
tra i due paesi è decollata, con il presidente Obama che a fine 2011 ha
finalmente visitato il paese alleato, annunciando il dispiegamento di
alcune centinaia di soldati americani in territorio australiano.
Queste
ed altre preoccupazioni nei confronti di Rudd sembrano però essere
state ora messe da parte, almeno momentaneamente, per cercare di dare
qualche chance al Partito Laburista in vista delle elezioni e di scelte
complicate che verranno richieste al prossimo governo in concomitanza
con un evidente rallentamento dell’economia australiana. Questo partito,
d’altra parte, ha dimostrato negli ultimi anni di sapere garantire
l’implementazione relativamente indolore di politiche impopolari
richieste dalle élite economiche e finanziarie australiane e
internazionali, grazie soprattutto ai tradizionali legami con le
organizzazioni sindacali e al sostegno di lavoratori e classe media.
Alcuni
dei protagonisti della sua deposizione nel 2010 - a cominciare dal
deputato irriducibilmente filo-americano Bill Shorten - si sono perciò
adoperati questa settimana per riportare Rudd al potere, con ogni
probabilità dopo il via libera degli Stati Uniti. Il Dipartimento di
Stato americano, dopo il voto di mercoledì, ha così espresso la propria
sostanziale approvazione, manifestando la volontà di mantenere un
rapporto di collaborazione privilegiato con qualsiasi futuro governo
australiano.
Rudd,
da parte sua, dopo il ritorno alla guida dell’esecutivo ha rapidamente
abbandonato la retorica dei giorni precedenti, sostituendo la promessa
di abbandonare la strada dell’austerity con l’appello al business
australiano per gettare le basi di una collaborazione con il governo, in
vista di “decisioni difficili per il futuro della nostra economia”.
Il
percorso del nuovo governo appare però complicato da molti fattori, a
cominciare dalla risicata maggioranza in Parlamento e dalle profonde
divisioni nel Partito Laburista. Numerosi ministri del governo Gillard
hanno già rassegnato le proprie dimissioni giovedì, tra cui quello del
Tesoro, del Commercio, dell’Agricoltura, delle Comunicazioni e del
Cambiamento Climatico. Altri autorevoli membri del partito, tra cui il
ministro della Difesa Stephen Smith e la stessa Gillard, hanno invece
annunciato di non essere intenzionati a candidarsi nelle prossime
elezioni.
Il Labor australiano, infine, anche con una nuova e
meno screditata leadership difficilmente riuscirà ad evitare un’altra
sonora sconfitta nel voto del 14 settembre prossimo dopo le batoste
patite nelle recenti elezioni per il rinnovo di alcuni parlamenti
statali. Il tracollo nel gradimento del partito tra le classi più
disagiate è infatti dovuto proprio alle anti-democratiche manovre
interne che hanno caratterizzato i cambi al vertice in questi anni e,
ancor più, alla continua rinuncia anche alla parvenza di politiche
progressiste, come, appunto, ha già fatto intravedere anche il redivivo
neo-premier Kevin Rudd.
Fonte
Epopee piddine in salsa australiana. A dimostrazione che la sinistra liberale è una merda in tutto il mondo.
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