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27/06/2013

Afghanistan, il sogno del cashmere in un’economia drogata

Gli auspicabili progetti di rilancio dell’economia afghana non prescindono da soluzioni politiche che possano trasformare il Paese in un’entità democratica ben diversa dalla desolante eredità della missione Isaf. Il Financial Times fa circolare una news improntata più alla fiction che alla realtà: lanciare in Afghanistan la produzione di lana da cashmere. Il progetto è totalmente “made in west” anzi vede coinvolto nientemeno che il Pentagono impegnato nella quadratura del cerchio della presunta “grande ritirata” del 2014. Che quel martoriato Paese necessiti di un’economia sana non è una novità. Gli oltre trent’anni d’invasioni e conflitti hanno, è il caso di dirlo, drogato il mercato interno correlandolo ai vizi di quello mondiale. Anche nelle province dove la natura è propizia sono scomparse attività agricole normali rivolte alla coltura di alberi da frutta a favore della coltivazione principe: il papavero da oppio. Proprio gli anni dell’occupazione occidentale hanno convertito la nazione in un immenso laboratorio di lavorazione e trasformazione in eroina di quella piantagione. Recenti dati dell’Union Nation Office on Drugs and Crime prospettano anche per il 2014 il mantenimento del tetto della produzione mondiale raggiunto dall’Afghanistan già nel 2008. La concentrazione è in dodici delle 34 province ma la tendenza ad ampliare la coltivazione resta costante. Sempre secondo questo rapporto le piantagioni occupano un’area di circa 400.000 acri.

Tutto ciò nonostante si registri un calo nel prezzo del prodotto sia asciutto (255 dollari al chilo) sia fresco (183 dollari sempre per chilogrammo). Non è documentato l’attuale ammontare del fatturato che nel 2008 era calcolato attorno ai 65 miliardi di dollari, dei quali 723 milioni di dollari costituivano i guadagni dei coltivatori. Un significativo 7% del Pil nazionale. Può essere interessante sapere come la produzione afghana d’oppio sia passata dalle 185 tonnellate del 2001, ultimo anno di governo talebano, alle 8.200 tonnellate del 2007. Nel grande business che ovviamente ha un diretto rapporto col controllo del territorio sono coinvolti vari attori dell’attuale realtà afghana: governo ufficiale, Signori della guerra, Taliban, truppe Nato. Tutti ricavano vantaggi dal prodotto sia nelle zone dov’è coltivato e trasformato, sia dai transiti e tragitti attraverso province e confini esteri. Se oggi ai produttori va una percentuale che oscilla attorno al 20% il resto ingrassa i trafficanti che oliano una filiera locale di dirigenti, amministratori, poliziotti compiacenti. E fra gli affari delle grandi mafie internazionali cinese e russa, dell’intermediazione di quelle iraniana e turca si collocano anche gli affari dell’apparato con le stellette documentati dalla Bbc nel 2010 e successivamente dal Guardian che svelarono rispettivamente il passaggio d’eroina sui voli militari britannici e canadesi e nelle bare dei caduti statunitensi.

Interessi certamente di piccolo cabotaggio rispetto agli enormi giri curati da Wali, il più potente fratello del presidente Karzai, che due anni fa vide stroncata la sua proficua carriera di “uomo d’affari” da colpi di kalashnikov commissionati, dicon tutti, dalla Cia di cui era sodale anche nel narcotraffico. Una delle maggiori concentrazioni di denaro degli ultimi anni coinvolge terreni e sottosuolo. I primi sono appannaggio di vari Signori della guerra (Sayyaf, Khalili) trasformatisi in Signori del business che acquistano terreni a pochi dollari al metro quadro e li rivendono fino a 1000. Oppure ricevono, alla maniera occidentale, il regalo di veder trasformata la terra da agricola a edificabile con guadagni rapidissimi. Lì vengono costruite case per i funzionari dell’apparato statale e anche per quella che è ormai una presenza stabile: l’apparato della cooperazione internazionale che resisterà a qualsiasi “exit strategy”. L’altro interesse è quello che il territorio afghano cela nelle viscere. Le “terre rare” che da poco più di due anni spedizioni geologiche americane hanno scoperto ha lanciato la corsa al recupero di questi minerali indispensabili all’industria per apparati tecnologici (fibre ottiche, catalizzatori, ecc.). Per ora aziende cinesi si sono accaparrate più di un appalto, il governo Karzai incassa miliardi di dollari senza redistribuire ricchezza alla vita civile. 

Ecco il vero Afghanistan con cui l’esperto di tessuti Philip Eddleston dovrà fare i conti per lanciare l’economia del cashmere. Se il sogno si realizzerà potrà offrire uno spiraglio di normalità, il rischio è che senza un ricambio socio-politico tutto si trasformi in una maschera per continuare a celare il dissesto. Coi buoni uffici di Pentagono e Casa Bianca.   

Pubblicato su Fanpage - 26 giugno 2013


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