Gli auspicabili progetti di rilancio
dell’economia afghana non prescindono da soluzioni politiche che possano
trasformare il Paese in un’entità democratica ben diversa dalla
desolante eredità della missione Isaf.
Il Financial Times fa
circolare una news improntata più alla fiction che alla realtà: lanciare
in Afghanistan la produzione di lana da cashmere. Il progetto è
totalmente “made in west” anzi vede coinvolto nientemeno che il
Pentagono impegnato nella quadratura del cerchio della presunta “grande
ritirata” del 2014. Che quel martoriato Paese necessiti di un’economia
sana non è una novità. Gli oltre trent’anni d’invasioni e conflitti
hanno, è il caso di dirlo, drogato il mercato interno correlandolo ai
vizi di quello mondiale. Anche nelle province dove la natura è propizia
sono scomparse attività agricole normali rivolte alla coltura di alberi
da frutta a favore della coltivazione principe: il papavero da oppio.
Proprio gli anni dell’occupazione occidentale hanno convertito la
nazione in un immenso laboratorio di lavorazione e trasformazione in
eroina di quella piantagione. Recenti dati dell’Union Nation Office on
Drugs and Crime prospettano anche per il 2014 il mantenimento del tetto
della produzione mondiale raggiunto dall’Afghanistan già nel 2008. La
concentrazione è in dodici delle 34 province ma la tendenza ad ampliare
la coltivazione resta costante. Sempre secondo questo rapporto le
piantagioni occupano un’area di circa 400.000 acri.
Tutto ciò
nonostante si registri un calo nel prezzo del prodotto sia asciutto (255
dollari al chilo) sia fresco (183 dollari sempre per chilogrammo). Non è
documentato l’attuale ammontare del fatturato che nel 2008 era
calcolato attorno ai 65 miliardi di dollari, dei quali 723 milioni di
dollari costituivano i guadagni dei coltivatori. Un significativo 7% del
Pil nazionale. Può essere interessante sapere come la produzione
afghana d’oppio sia passata dalle 185 tonnellate del 2001, ultimo anno
di governo talebano, alle 8.200 tonnellate del 2007. Nel grande business
che ovviamente ha un diretto rapporto col controllo del territorio sono
coinvolti vari attori dell’attuale realtà afghana: governo ufficiale,
Signori della guerra, Taliban, truppe Nato. Tutti ricavano vantaggi dal
prodotto sia nelle zone dov’è coltivato e trasformato, sia dai transiti e
tragitti attraverso province e confini esteri. Se oggi ai produttori va
una percentuale che oscilla attorno al 20% il resto ingrassa i
trafficanti che oliano una filiera locale di dirigenti, amministratori,
poliziotti compiacenti. E fra gli affari delle grandi mafie
internazionali cinese e russa, dell’intermediazione di quelle iraniana e
turca si collocano anche gli affari dell’apparato con le stellette
documentati dalla Bbc nel 2010 e successivamente dal Guardian che
svelarono rispettivamente il passaggio d’eroina sui voli militari
britannici e canadesi e nelle bare dei caduti statunitensi.
Interessi
certamente di piccolo cabotaggio rispetto agli enormi giri curati da
Wali, il più potente fratello del presidente Karzai, che due anni fa
vide stroncata la sua proficua carriera di “uomo d’affari” da colpi di
kalashnikov commissionati, dicon tutti, dalla Cia di cui era sodale
anche nel narcotraffico. Una delle maggiori concentrazioni di denaro
degli ultimi anni coinvolge terreni e sottosuolo. I primi sono
appannaggio di vari Signori della guerra (Sayyaf, Khalili) trasformatisi
in Signori del business che acquistano terreni a pochi dollari al metro
quadro e li rivendono fino a 1000. Oppure ricevono, alla maniera
occidentale, il regalo di veder trasformata la terra da agricola a
edificabile con guadagni rapidissimi. Lì vengono costruite case per i
funzionari dell’apparato statale e anche per quella che è ormai una
presenza stabile: l’apparato della cooperazione internazionale che
resisterà a qualsiasi “exit strategy”. L’altro interesse è quello che il
territorio afghano cela nelle viscere. Le “terre rare” che da poco più
di due anni spedizioni geologiche americane hanno scoperto ha lanciato
la corsa al recupero di questi minerali indispensabili all’industria per
apparati tecnologici (fibre ottiche, catalizzatori, ecc.). Per ora
aziende cinesi si sono accaparrate più di un appalto, il governo Karzai
incassa miliardi di dollari senza redistribuire ricchezza alla vita
civile.
Ecco il vero
Afghanistan con cui l’esperto di tessuti Philip Eddleston dovrà fare i
conti per lanciare l’economia del cashmere. Se il sogno si realizzerà
potrà offrire uno spiraglio di normalità, il rischio è che senza un
ricambio socio-politico tutto si trasformi in una maschera per
continuare a celare il dissesto. Coi buoni uffici di Pentagono e Casa
Bianca.
Pubblicato su Fanpage - 26 giugno 2013
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