Tante analogie tra Occupy Gezi e la sollevazione del popolo del Bahrain. Ma i media ignorano quanto accade in questo piccolo arcipelago del Golfo.
Quante analogie tra la protesta di Occupy Gezi contro il nuovo sultano
Erdogan e la sollevazione, che prosegue da oltre due
anni, del popolo del Bahrain contro la monarchia assoluta di Hamad bin
Isa al Khalifa. Eppure scorrendo i lanci delle agenzie italiane in
questi ultimi 2-3 mesi si scopre che questo piccolo arcipelago del Golfo
è ignorato. E ciò è ancora più sconfortante se si considera che il
contenuto settario e religioso sempre più marcato della guerra civile
siriana ha forti ripercussioni in Bahrain dove re Hamad è uno dei
petromonarchi più attivi nel lanciare accuse all'Iran e a Hezbollah
(alleati di Bashar Assad) per il ruolo (presunto) «sovversivo» che
svolgerebbero nella regione.
Non devono ingannare i piccoli
segnali di distensione tra il neo-eletto presidente iraniano, Hassan
Rohani, e l'Arabia saudita. Riyadh resta convinta dell'«urgenza» di
contenere «l'espansionismo sciita» che Tehran promuoverebbe nella
regione, a cominciare dal Bahrain. Proprio le forze armate saudite,
sotto la copertura dell'accordo "Scudo difensivo del Golfo", sono
intervenute nel 2011 su richiesta di re Hamad per schiacciare
l'accampamento di tende di Piazza della Perla a Manama, simile a quello
di Piazza Tahrir al Cairo.
Eppure in Bahrain di cose ne accadono e molto gravi. La popolazione
continua la sua battaglia pacifica per ottenere i diritti negati dalla
monarchia assoluta. Ben pochi lo riportano. Due giorni fa, ad esempio,
un tribunale ha condannato un oppositore 18enne, Akbar Ali al Kishi, a
10 anni di prigione per aver fatto esplodere, secondo l'accusa, alcune
bombole di gas - peraltro a scopo dimostrativo, non per un attentato -,
assieme ad altri adolescenti.
Per al Kishi la prigione potrebbe
durare ben oltre quella condanna perché il giovane attivista nei giorni
scorsi era stato condannato per un altro "crimine" politico ad altri 16
anni di carcere. Non basta. Lo attendono altri processi e condanna dopo
condanna i suoi avvocati e la famiglia temono che il totale arrivi a 80
anni di detenzione. Il padre peraltro denuncia che il giovane è stato
torturato in prigione per costringerlo a confessare.
Al Kishi ha
anche denunciato al Centro del Bahrain per i diritti umani che uno
degli ufficiali che lo ha interrogato ha minacciato di sodomizzarlo.
«Non riusciamo quasi a parlargli - aggiunge il padre - ci permettono
colloqui in carcere della durata appena di 10 minuti». Mortada
al-Moqdad, un altro attivista bahranita, afferma che contro al Kishi «è in
atto una vendetta per il suo impegno sin da quando era un ragazzo, le
autorità in questo modo ritengono di dare una lezione a tutti i giovani
che prendono parte alle manifestazioni».
Ne è convinta anche la
giornalista Reem Khalifa. «Le accuse nei confronti di quel ragazzo sono
molto vaghe - spiega al manifesto - l'impianto sembra voler dare una
punizione esemplare e spaventare gli attivisti e le loro famiglie».
Khalifa sottolinea i punti in comune tra la rivolta pacifica repressa
dalla polizia in Turchia e quanto accade in Bahrain. «Il nostro paese
però viene ignorato dall'informazione», lamenta la giornalista.
E mentre piovono dure accuse su Damasco che non consente l'ingresso nel
paese della commissione dell'Onu incaricata di indagare su un possibile
uso di armi chimiche, nessuno apre bocca di fronte al secondo secco «no»
della monarchia bahranita all'arrivo dell'inviato dell'Onu per i reati
di tortura, Juan Mendez. «Non ci è stata fornita alcuna data per il
nostro ingresso in Bahrain e ciò può essere interpretato come
l'esistenza di fatti da nascondere», ha notato Mendez. Senza dimenticare
che i leader di Piazza della Perla e diversi attivisti dei diritti
umani come Nabil Rajab, Mahmud al Khawaja e sua figlia Zeinab continuano
a rimanere in carcere.
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