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16/06/2013

Siria, Obama offre armi ad Al-queda

di Michele Paris

Ricorrendo ancora una volta ad accuse completamente fabbricate, l’amministrazione Obama ha dato il via libera alla fornitura diretta di armi americane ai “ribelli” in Siria. Facendo uso di armi chimiche nel conflitto in corso, secondo gli USA, il regime di Bashar al-Assad avrebbe infatti oltrepassato la cosiddetta “linea rossa” fissata dal presidente democratico, determinando un intervento diretto degli Stati Uniti a sostegno dell’opposizione. Le fantomatiche prove addotte da Washington per giustificare il coinvolgimento in una nuova guerra in Medio Oriente si basano però su rapporti di intelligence confezionati ad arte, esattamente come accadde in occasione della disastrosa e illegale invasione dell’Iraq poco più di un decennio fa.

Nonostante i recenti commenti di un’autorevole membro della speciale commissione ONU per la Siria, che attribuiva con buone probabilità l’uso di gas sarin ai “ribelli” stessi, così come, tra l’altro, l’arresto in Turchia di membri del gruppo terrorista Fronte al-Nusra attivo in Siria nelle cui abitazioni erano state trovate sostanze chimiche utilizzabili a fini militari, il governo americano ha deciso di procedere con un’iniziativa da tempo richiesta non solo dalle bande armate che compongono la variegata quanto impopolare opposizione ma anche dagli alleati europei e mediorientali che hanno finora sostenuto lo sforzo di armare e finanziare le operazioni anti-regime.

L’annuncio dell’accelerazione degli Stati Uniti è stato dato nella serata di giovedì dal vice-consigliere per la Sicurezza Nazionale, Ben Rhodes, e la svolta era stata anticipata dalla Associated Press qualche giorno fa in previsione di un vertice del governo USA andato in scena questa settimana alla Casa Bianca per decidere nuove iniziative in relazione alla difficile situazione in Siria.

Rhodes ha così affermato che la conferma dell’uso di gas chimici è basata sull’esame di campioni biologici provenienti dalla Siria e le conclusioni del suo governo sono state prese grazie a “flussi multipli e indipendenti di informazioni”, così che esisterebbe “un alto grado di confidenza” per accusare Assad, vale a dire nessuna certezza.

La decisione di distribuire armi ai “ribelli” presa a Washington è la diretta conseguenza dei rovesci militari patiti dall’opposizione nelle ultime settimane, a loro volta dovuti all’ostilità nei loro confronti nutrita dalla maggioranza della popolazione siriana e all’assistenza fornita da Hezbollah e dall’Iran al regime di Damasco.

Ai primi di giugno i “ribelli” avevano infatti perso la città di Qusayr, al confine con il Libano, centro nevralgico del traffico di armi a loro destinato proveniente dai paesi vicini. Dopo l’ingresso a Qusayr delle forze regolari e di un contingente inviato oltreconfine da Hezbollah, Assad ha da poco iniziato la preparazione di nuove operazioni per riprendere il controllo totale anche di Homs e, soprattutto, Aleppo.

La riconquista di quest’ultima città, la più grande del paese, significherebbe l’assestamento di un ulteriore pesantissimo colpo alle aspirazione dei “ribelli”, i quali vedrebbero messe in crisi le loro comunicazioni con la Turchia, da cui provengono armi e guerriglieri fondamentalisti.

Di fronte all’inesorabile avanzata delle forze del regime, i vertici dell’opposizione armata nei giorni scorsi avevano perciò ancora una volta supplicato gli Stati Uniti di dare il via libera all’invio di armi. Il generale Salim Idris, comandante teorico delle milizie appoggiate dall’Occidente, aveva chiesto migliaia di missili anti-carro e anti-aereo, così come centinaia di migliaia di munizioni. La decisione presa a Washington, giovedì, almeno ufficialmente esclude però dalle imminenti forniture gli armamenti pesanti per il timore che possano finire nelle mani di gruppi integralisti ed essere usati in futuro per colpire Israele o gli stessi interessi USA nella regione.

Le spedizioni di armi a gruppi di opposizione definiti moderati o di ispirazione secolare, ma che in realtà hanno chiare tendenze islamiste e le cui operazioni quasi sempre si sovrappongono a quelle di formazioni apertamente terroristiche, verranno coordinate con ogni probabilità con Francia e Gran Bretagna, con i cui leader Obama parlerà la settimana prossima nel corso del G8 in Irlanda.

Parigi e Londra si erano già mosse verso l’invio di armi in Siria dopo avere recentemente convinto l’Unione Europea a mettere fine all’embargo in atto da un anno. Gli stessi governi francese e britannico hanno inoltre agito di comune accordo con Washington nel diffondere la propaganda sull’uso di armi chimiche da parte del regime di Assad, così da creare un pretesto opportuno per giustificare un maggiore coinvolgimento in Siria.

La decisione presa dall’amministrazione Obama è comunque solo il primo passo verso una sempre più probabile guerra aperta per rimuovere un rivale strategico importante come Assad. Il Wall Street Journal ha infatti rivelato che i progetti del Pentagono per il cambio di regime forzoso a Damasco includono anche l’imposizione di una no-fly zone, universalmente considerata uno strumento per condurre una guerra non dichiarata contro la Siria sul modello del conflitto in Libia nel 2011.

Per dare una facciata presentabile alle proprie manovre, tuttavia, gli USA sostengono che la no-fly zone - da attuare senza l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza ONU vista la ferma opposizione di Russia e Cina - servirebbe soltanto a creare uno spazio in territorio siriano off-limits alle incursioni aeree del regime, così da favorire l’addestramento e il riarmo dei “ribelli”. Per evitare l’impedimento delle Nazioni Unite, inoltre, gli Stati Uniti potrebbero operare dalla Giordania per abbattere la flotta aerea di Assad senza entrare in territorio siriano.

L’esplosione di un conflitto su vasta scala provocato dall’irresponsabilità delle politiche degli Stati Uniti, dell’Unione Europea, della Turchia e delle monarchie dittatoriali del Golfo Persico, appare dunque oggi molto più probabile. Ad essere coinvolta in una possibile guerra potrebbe essere, oltre all’Iran, anche la Russia, il cui governo ha subito criticato la decisione di Obama.

Da Mosca, nella giornata di venerdì un funzionario del Cremlino ha definito “poco convincenti” le prove nelle mani degli USA sull’uso di armi chimiche da parte di Assad, suggerendo un parallelo con le “errate” informazioni di intelligence che fornirono il pretesto di invadere l‘Iraq all’amministrazione Bush.

Decisamente più esplicito è stato poi il presidente della commissione parlamentare per le relazioni internazionali, Alexei Pushkov, il quale ha bollato le prove sull’uso di armi chimiche come “fabbricate”. Per il portavoce del ministero degli Esteri russo, invece, la nuova ondata di armi dirette in Siria farà aumentare “il livello dello scontro e le violenze contro i civili”.

La svolta americana, infine, potrebbe spingere la Russia a onorare il contratto siglato con Damasco nel 2010 per la fornitura del sofisticato sistema di difesa missilistico S-300, la cui consegna, inizialmente prevista per l’estate di quest’anno ma continuamente rimandata, secondo gli esperti consentirebbe al regime di Assad di contrastare efficacemente una campagna di bombardamenti nel paese.

Dopo avere contribuito in maniera decisiva a fomentare un conflitto settario che ha causato ormai quasi 100 mila morti, per promuovere i propri interessi strategici, gli Stati Uniti sono ora pronti a scatenare una nuova guerra “umanitaria” che rischia di portare il bilancio delle vittime a livelli esorbitanti.

Il tutto, ancora una volta, basando le proprie azioni su falsità e prove manipolate, nonché sulla collaborazione di regimi oscurantisti e repressivi, come quello turco del premier Erdogan, impegnato a chiedere il rispetto dei diritti democratici della popolazione siriana mentre reprime nel sangue e con l’approvazione di Washington le proteste esplose in tutto il paese contro il suo governo.

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