Da anni vado sostenendo che la collaborazione fra stati (in
particolare quello americano) e corporation (in particolare le società
hi tech a stelle e strisce) si sta facendo sempre più stretta allo scopo
di modificare l’architettura della Rete, per trasformarla in un
micidiale strumento di dominio e controllo su utenti e cittadini.
Dopo lo scoppio dello scandalo che ha rivelato (grazie ad alcune gole profonde dell’amministrazione Usa) l’esistenza di PRISM,
un sofisticato sistema di spionaggio in grado di archiviare e
monitorare immani quantità di dati (telefonate, mail, conversazioni via
chat e Skype, acquisti con carte di credito, ecc.) e gestito “in
condominio” dalla National Security Agency, dai colossi nella Net
Economy come Google, Microsoft, Facebook, Apple ed altri, e da operatori
delle telecomunicazioni come Verizon, si spera che nessuno oserà più
sostenere la tesi che gli interessi commerciali delle imprese funzionano
da filtro protettivo contro l’invadenza dei governi e la loro avidità
di dati personali dei cittadini.
È vero che il danno di immagine che i giganti di Silicon Valley
stanno subendo in conseguenza di tali notizie è enorme; anche perché le
loro smentite hanno perso ogni credibilità dopo che i “pentiti” hanno
rivelato che è stata costruita una sorta di “cassetta di sicurezza”
dove le corporation depositano, ottemperando alle richieste delle
agenzie governative in base a una procedura denominata FISA, i dati degli utenti, che vengono successivamente acquisiti e analizzati dai richiedenti.
Ma il danno di immagine non basta a scoraggiare simili comportamenti:
in primo luogo, perché i vantaggi che il potere politico garantisce in
cambio sono enormi (esenzioni fiscali, tutela delle tecnologie coperte
da brevetti e copyright, ecc.), poi perché l’enorme concentrazione
monopolistica, che nel giro di pochi anni ha messo nelle mani di
pochissime imprese il controllo del mercato di prodotti e servizi
digitali, fa sì che gli utenti non dispongano di alternative.
Così appare in tutta la sua evidenza l’imbecillità delle posizioni
“tecno entusiaste” che, a partire dalla seconda metà degli anni Novanta,
hanno celebrato ogni innovazione tecnologica come un automatico passo
avanti verso livelli più avanzati di libertà e democrazia. Per anni ci
siamo sentiti ripetere che imprese e utenti sono alleati contro lo
strapotere della politica; che più le nuove tecnologie (e il “libero”
mercato) penetrano nei Paesi totalitari, più questi ultimi si vedono
costretti ad aprirsi a nuove forme di partecipazione democratica (vedi
Primavera Araba), ecc.
Oggi capiamo che la penetrazione dell’uso dei social network in
pubblici sempre più vasti significa anche e soprattutto aumento della
capacità di dominio degli Stati Uniti sul mondo, che rinunciando al
controllo sui nostri dati per affidarli alle “nuvole” (cioè ai server
delle corporation) li abbiamo consegnati nelle mani di chi ci spia; che
promuovere la diffusione degli “occhiali intelligenti” di Google
significa aggiungere nuovi punti di osservazione a quelli che già ci
scrutano attraverso i milioni di telecamere fisse installate nelle
città, e gli esempi potrebbero continuare.
La scelta di fronte a cui ci troviamo è radicale: o accettiamo il
discorso di Obama (“se volete sicurezza dovete ridurre drasticamente le
vostre pretese di privacy”), oppure cominciamo a ragionare su come
dotarci di strumenti tecnologici alternativi a quelli che ci vengono
proposti dal Grande Fratello statale e dalle Grandi Sorelle private.
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