di Mario Lombardo
Per la prima
volta dalla rivelazione del colossale programma di sorveglianza
elettronica messo in atto segretamente dagli Stati Uniti, un organo
ufficiale del governo cinese ha discusso in maniera pubblica la vicenda
messa in moto dall’ex contractor della CIA e dell’NSA, Edward Snowden.
Ad affrontare il caso è stato il quotidiano in lingua inglese, China Daily,
il quale ha opportunamente evidenziato il doppio standard di Washington
nell’affrontare le questioni della cyber-sicurezza, rispedendo in
sostanza al mittente l’escalation di accuse formulate contro Pechino
nelle ultime settimane dall’amministrazione Obama.
Per la
testata, controllata dal governo cinese, la notizia dell’esistenza dei
programmi segreti PRISM e, soprattutto, Boundless Informant, grazie al
quale gli USA intercettano le comunicazioni elettroniche che avvengono
in paesi stranieri, rappresenta una macchia all’immagine internazionale
degli Stati Uniti, nonché una minaccia alle relazioni tra le prime due
economie del pianeta.
La prima critica, in particolare, va
direttamente al cuore del principale motivo di scontro tra Washington e
Pechino, cioè le accuse rivolte a quest’ultimo governo di essere dietro
attività di hackeraggio ai danni di agenzie governative e compagnie
private americane. Come di consueto, anche in questo caso è apparso
dunque chiaro come gli Stati Uniti siano responsabili di attività
discutibili o palesemente illegali che, tuttavia, essi attribuiscono ai
loro rivali internazionali.
Che gli USA siano i maggiori
utilizzatori di armi tecnologiche per promuovere i propri interessi era
sensazione comune ma le rivelazioni degli ultimi giorni hanno
contribuito a confermarlo con prove concrete. Lo stesso Snowden lo ha
affermato apertamente in un’intervista rilasciata mercoledì al
quotidiano di Hong Kong South China Morning Post.
Il 29enne
analista informatico ha infatti affermato che gli USA monitorano le
comunicazioni elettroniche cinesi almeno dal 2009 e gli obiettivi
comprendono membri del governo, università e aziende. Una delle ragioni
che hanno spinto Snowden a rivelare i programmi dell’NSA è stato proprio
il desiderio di dimostrare “l’ipocrisia del governo americano quando
sostiene di non prendere di mira [nelle operazioni informatiche segrete]
infrastrutture civili, come farebbero invece i suoi avversari”.
Oltre
alla stessa scelta di riparare in territorio cinese per sfuggire alle
ritorsioni del proprio governo, queste dichiarazioni di Snowden
suggeriscono forse un qualche ruolo giocato dalle autorità di Pechino
nelle rivelazioni dei programmi dell’NSA al Guardian e al Washington Post,
tanto più che esse sono giunte praticamente in concomitanza con un
vertice bilaterale in California tra i presidenti Obama e Xi Jinping,
dove la cyber-guerra tra i due paesi avrebbe avuto un posto di rilievo.
In
ogni caso, l’esposizione delle attività di intercettazione condotte
dagli USA in paesi sovrani, in contravvenzione di ogni regola del
diritto internazionale, potrebbe in qualche modo rimescolare le carte
della rivalità in atto con la Cina, intensificata dopo la cosiddetta
“svolta” asiatica decisa dall’amministrazione Obama fin dal 2009 per
contenere l’espansionismo di Pechino.
La gravità delle
rivelazioni sia sul fronte domestico che internazionale sono comunque
risultate chiare dall’aggressiva campagna messa in atto dalla classe
dirigente americana e da buona parte dei media “mainstream” per
incriminare lo stesso Snowden, così come per minimizzare la pervasività
dei programmi di intelligence o esaltarne la presunta efficacia nel
prevenire possibili attentati terroristici.
Evitando
accuratamente di prendere in considerazione il contenuto delle
rivelazioni e la violazione dei diritti costituzionali dei programmi
segreti, molti politici americani hanno così chiesto punizioni esemplari
per Edward Snowden. Tra i più feroci accusatori di quest’ultimo c’è la
presidente della commissione per i servizi segreti del Senato, la
democratica Dianne Feinstein, come i suoi colleghi da tempo a conoscenza
delle attività illegali condotte dietro le spalle degli americani dal
proprio governo, la quale ha senza mezzi termini definito Snowden un
“traditore” per avere reso noto informazioni riservate.
L’auspicio
nemmeno troppo segreto della classe politica d’oltreoceano è però
addirittura quello di criminalizzare la stessa attività giornalistica,
come ha confermato questa settimana il deputato repubblicano Peter King,
in un’intervista alla CNN dove si è detto favorevole all’apertura di un’indagine giudiziaria anche ai danni del giornalista del Guardian, Glenn Greenwald, che ha pubblicato le recenti rivelazioni.
Secondo
la logica di King, d’altra parte, sarebbero queste fughe di notizie che
rivelano la totale illegalità con cui opera il governo di Washington a
“mettere a rischio vite americane e a danneggiare il paese”.
Se
accuse formali contro Greenwald sono tutt’altro che improbabili - come
dimostra il complotto messo in atto per incriminare Julian Assange di WikiLeaks -
la persecuzione di Snowden è invece scontata, dal momento che il
Dipartimento di Giustizia ha già avviato un’indagine che porterà alla
richiesta di estradizione dell’ex contractor americano.
La
campagna di discredito contro Snowden e l’ennesimo dibattito-farsa in
corso sui principali giornali USA circa la migliore definizione da
attribuirgli - “eroe” o “traditore” - serve anche ad evitare l’emergere
di qualsiasi ipotesi di incriminazione per coloro che all’interno del
governo hanno deciso l’implementazione di programmi anti-costituzioni,
compreso il presidente Obama, contro il quale le prove di un possibile
impeachment vanno ormai ben al di là di quelle su cui si basò, ad
esempio, lo scandalo che costrinse alle dimissioni Richard Nixon nel
1974.
Nessuna richiesta di rendere conto nemmeno delle
dichiarazioni fuorvianti rilasciate ripetutamente dai vertici
dell’intelligence ai rappresentanti del popolo sembra arrivare poi dai
giornali americani. Clamorose sono state in particolare le menzogne del
direttore dell’Intelligence Nazionale, nonché supervisore dell’NSA,
James Clapper, il quale durante un’audizione al Congresso nel mese di
marzo aveva assicurato i suoi intervistatori che l’Agenzia per la
Sicurezza Nazionale non raccoglie “intenzionalmente” informazioni sui
cittadini americani.
Il
direttore dell’NSA, generale Keith Alexander, a sua volta nei mesi
scorsi aveva più volte smentito che la sua agenzia è impegnata in
attività di intercettazione delle comunicazioni elettroniche degli
americani. Lo stesso Alexander è apparso mercoledì di fronte ad una
commissione del Senato per difendere la gigantesca violazione dei
diritti costituzionali da parte dell’NSA ma i senatori presenti hanno
diligentemente evitato di chiedere spiegazioni sulle sue precedenti
false dichiarazioni.
Il ricorso sistematico alla menzogna e
all’inganno da parte della classe dirigente americana per limitare i
danni seguiti alle rivelazioni di Guardian e Washington Post
è chiaramente motivato dalla necessità di provare a giustificare ciò
che un sistema democratico dovrebbe considerare inammissibile, senza
alcuna eccezione.
Pervasi da un senso di panico per il
progressivo venir meno della credibilità del sistema politico americano
agli occhi della popolazione, i detentori del potere negli USA sono
costretti a ricorre a intimidazioni, minacce e menzogne senza fine, che
non fanno altro però che dimostrare ulteriormente il loro totale
disinteresse per il rispetto dei diritti democratici.
Ancora
menzogne, perciò, hanno caratterizzato la difesa dei programmi PRISM e
Boundless Informant da parte, tra gli altri, di James Clapper e Dianne
Feinstein. Entrambi in questi giorni hanno fatto riferimento agli
arresti dei terroristi Najibullah Zazi e David Hadley, il primo con
l’accusa di avere progettato un attentato sventato nella metropolitana
di New York nel 2009 e il secondo per avere preso parte alla
pianificazione degli attacchi a Mumbai, in India, nel 2008.
Secondo
la versione ufficiale, Zazi e Hadley sarebbero stati individuati e
assicurati alla giustizia proprio grazie ai programmi segreti di
intercettazione dell’NSA. Una serie di indagini giornalistiche -
condotte principalmente dal Guardian e dalla testata americana
indipendente ProPublica - dimostrano al contrario come la cattura di
entrambi sia stata dovuta ad attività tradizionali di intelligence e
alla collaborazione tra agenzie USA e britanniche, mentre i programmi di
sorveglianza dell’NSA non hanno avuto alcun ruolo.
Hadley,
oltretutto, ben prima dei fatti di Mumbai era stato un informatore della
DEA americana (Drug Enforcement Administration) e, con ogni probabilità
anche di CIA e FBI, e le autorità statunitensi erano state più volte
allertate dai familiari circa i suoi contatti con gli ambienti
integralisti pakistani.
La
menzogna più eclatante e dalle implicazioni più inquietanti utilizzata
dal governo americano è però quella che riguarda le fondamenta stesse
della costruzione di un apparato della sicurezza nazionale da stato di
polizia, vale a dire la necessità di combattere con ogni mezzo la
“guerra al terrore” su scala planetaria.
Un documento interno
della NSA del 2000, declassificato qualche anno fa, aveva infatti
dimostrato come la preparazione delle misure messe in atto dopo l’11
settembre 2001 fosse già iniziata ben prima dell’evento che avrebbe
portato a guerre rovinose e all’assalto ai diritti democratici negli
Stati Uniti.
Nel cosiddetto memorandum “Transition 2001” si
affermava cioè che, se anche “il Quarto Emendamento [che protegge da
perquisizioni e confische senza un valido motivo] è applicabile ai
sistemi di intelligence elettronica di ieri e di oggi, l’Era
dell’Informazione ci spingerà a ripensare e ad applicare diversamente
procedure e politiche nate in un diverso ambiente di sorveglianza”.
“L’NSA”,
proseguiva il documento, “continuerà a svolgere le proprie missioni
rispettando il Quarto Emendamento e tutte le leggi applicabili,
tuttavia… è necessario comprendere che le missioni di domani
richiederanno una robusta e continua presenza nelle reti di
telecomunicazione globali che ospitano le comunicazioni protette degli
americani e dei nostri avversari”.
L’avanzamento di questi
programmi di sorveglianza a meno di un anno dagli attacchi al World
Trade Center, infine, veniva giudicato eccessivamente lento, a meno che
non avesse avuto luogo “un evento catastrofico, come una nuova Pearl
Harbor”.
Le previsioni vecchie di oltre un decennio dell’NSA
sembrano dunque essersi concretizzate, confermando come il progetto di
sorvegliare sistematicamente il comportamento di virtualmente tutti gli
americani e degli avversari degli USA sullo scacchiere internazionale
sia in gran parte svincolato dall’anti-terrorismo e dalle ragioni della
sicurezza nazionale.
Il riferimento fatto dal memorandum
“Transition 2001” a possibili quanto ingiustificabili deroghe alle
garanzie fissate nel Quarto Emendamento, poi, ricalca sorprendentemente
le dichiarazioni del presidente Obama e di altri politici di Washington
in questi giorni, tutte volte a difendere un sistema sempre più
repressivo ormai del tutto al di fuori di un quadro autenticamente
democratico.
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