di Vincenzo Maddaloni
C’è un legame tra la copertura dei media occidentali alle proteste
turche, le previsioni di Goldman Sachs su un crollo dell’economia turca e
il fatto che il sistema bancario turco sia diventato l’interfaccia
tramite cui l’Iran aggira le sanzioni economiche? Finora i fatti
direbbero di sì, almeno per restare tra coloro che sanno che al di sopra
del reale c'è il possibile.
Che Recep Tayyip Erdogan e il suo
modello di Turchia fossero inclusi nell’elenco dei silurabili se n’era
avuto sentore l’anno scorso,quando proprio qui, su “Altrenotizie”
scrissi dell’articolo di David Goldman sul Middle East Quarterly,
perché in esso si sentenziava l’imminente collasso del “miracolo
economico” turco e lo si paragonava a quello argentino del 2000 e a
quello messicano del 1994, entrambi avvenuti dopo periodi di espansione
economica.
Goldman prevedeva che «la velocità e la magnitudo
della battuta d’arresto», avrebbero potuto «facilmente erodere la
capacità dell’AKP di governare con il pragmatismo piuttosto che con
l’ideologia islamista»; sicché era ipotizzabile anche in Turchia
un’esplosione religiosa che - prevedeva ancora Goldman - avrebbe
impedito al premier Erdogan «di utilizzare gli incentivi economici per
disinnescare il separatismo curdo, contenere l’opposizione interna e far
conquistare alla Turchia un ruolo di primo piano in Medio Oriente».
Insomma, ci sarebbero stati tutti i presupposti, lasciava intendere
Goldman, perché nella Regione si scatenasse un’altra guerra.
Quello
che Goldman non diceva era che il primo ministro Recep Tayyip Erdogan
governava con un grande sostegno popolare raggiunto con il successo di
un’economia che, viaggiando con ritmi cinesi, gli aveva permesso di
vincere tre elezioni di fila. E così, forte del consenso delle masse,
egli in dieci anni di continuo governo aveva potuto devitalizzare di
molto il potere della vecchia guardia dei militari filo atlantici e
laici, modificando così l’assetto degli equilibri politici sul Bosforo.
Beninteso, pure la Turchia ha accusato i colpi della recessione, un
rallentamento dell’economia turca c’è stato, ma non con la tragicità
indicata da Goldman, poiché il tasso di crescita della Turchia previsto
per il 2013 (tra il 4 e il 5 per cento) resta ancora alto rispetto agli
standard europei.
Pertanto,
fino a pochi mesi fa Erdogan era considerato un vincente, l’uomo che
aveva tutte le credenziali per essere accreditato come il leader
(musulmano), l’unico in grado di rasserenare quel clima d’incertezza
politica che s’è creato con la “primavera araba” in tutto il Medio
Oriente e non soltanto in esso.
Sicché appare quanto mai strano che quella che era iniziata come una
protesta contro l'abbattimento degli alberi di un parco - Gezi Parki -
adiacente a piazza Taksim, nel cuore della Istanbul moderna, sia
rapidamente cresciuta fino a diventare una rivolta contro il governo del
premier. Infatti, per più giorni la stampa internazionale ha raccontato
le battaglie urbane di piazza Taksim, ha denunciato la dura repressione
delle forze dell’ordine non soltanto ad Istanbul, ma anche nella
capitale Ankara.
Naturalmente, il ministro degli Esteri Ahmet
Davutoglu aveva attaccato «certi circoli» dei media internazionali, che a
suo giudizio sono impegnati a danneggiare l’immagine della Turchia. «Se
facciamo un paragone», aveva detto il ministro alla tv privata Haber
Turk, «il resoconto dei media internazionali sulle proteste di Piazza
Taksim è molto diverso dalla realtà di ciò che accade». Anche l’agenzia
di Stato Anadolu ha lanciato una campagna contro i media
internazionali, per denunciare la copertura «diffamante» che si dava
della protesta di Piazza Taksim.
La campagna ha avuto la sua
piattaforma principale su Twitter, dove molti messaggi con l’hashtag
«YouCANTstopTurkishSuccess» hanno attaccato i media internazionali per
il modo in cui hanno dato notizia delle proteste, come se si trattasse
di una guerra civile o una rivolta in stile arabo. Campagne analoghe
sono state lanciate con hashtag come «GoHomeLiarCNNbbcANDreuters»
(andate via Cnn, Bbc e Reuters bugiarde) e «occupyLondon», che prendeva di mira il G8 che sarà ospitato dalla capitale britannica.
Tuttavia
prima di esprimere un giudizio, non andrebbe dimenticato che la Turchia
ha ottantacinque milioni di abitanti a schiacciante maggioranza
islamica, che è il secondo paese Nato per potenza militare e che ha un
forte orgoglio nazionale, memore della storia imperiale ottomana.
Insomma ha un “curriculum” degno di una nazione che aspira a un ruolo di
leader in un’area delicata com’è il Medio Oriente, e che poteva
avvalersi fino a pochi mesi fa del forte sostegno degli Stati Uniti.
Poi
il rapporto è mutato. Il vertice del maggio scorso tra il presidente
americano e il premier turco sulla Siria, ma soprattutto sugli scambi
economici tra Stati Uniti e Turchia, ha dato risultati più ambigui di
quanto sia emerso dall'ufficialità. Più che dalla guerra siriana ora i
sonni di Erdogan sono turbati dal rischio di un fiasco sul fronte
economico che in prospettiva potrebbe essergli fatale. Si tenga a mente
che le sue vittorie travolgenti e quelle del partito islamico
conservatore Akp si sono fondate in questo decennio sui successi
economici (una crescita media dal 2002 a oggi del 5,2 per cento annuo),
non sulla religione o sui progetti di ricostituire una sfera di
influenza neo-ottomana, come molti commentatori lasciano intendere.
Sicché,
pur di mantenere alta la crescita economica, Erdogan ha aperto persino
all’Iran. L’idea è chiara: offrire agli iraniani la licenza bancaria
turca perché essi possano concludere le transazioni commerciali quando
scatteranno le sanzioni internazionali contro la banca centrale
iraniana, e inoltre perché essi possano con i proventi petroliferi
finanziare le numerose società iraniane che operano in e dalla Turchia.
Infatti non sono soltanto le grandi banche come la Tejarat Bank e la
Pasargad Bank di Teheran a correre ad Istanbul, ma già più di duemila
società commerciali persiane hanno aperto filiali in Turchia. Tant’è che
sono diventati ormai una moltitudine i turchi che sono partner commerciali e
bancari degli iraniani. Stando così le cose non ci vuol molto a capire
la nevrosi di Israele che da anni si inventa pretesti per coinvolgere
gli Stati Uniti in una guerra contro gli Ayatollah.
Recep Tayyip
Erdogan gliene ha offerti parecchi. Infatti, é Recep Tayyip Erdogan che
chiede a viva voce il riconoscimento dello Stato palestinese. «Non è
un’opzione, è un dovere», dichiara il primo ministro turco nel suo
intervento alla Lega Araba durante il quale afferma che il contenzioso
palestinese non è una questione da classificare come «ordinaria
amministrazione» perché riguarda «la dignità dell’essere umano». E così,
il 20 di settembre di due anni fa il presidente dell’Autorità nazionale
palestinese (Anp) Abu Mazen poté presentarsi al Palazzo di Vetro e
richiedere il riconoscimento della Palestina come Stato indipendente, il
194° membro delle Nazioni Unite.
E’ ancora Recep Tayyip Erdogan
che lancia un messaggio a Israele tutt’altro che conciliante. Non ci
sarà - avverte - nessuna normalizzazione tra la Turchia e lo Stato
ebraico di Israele, se quest’ultimo non rispetterà le condizioni poste
da Ankara e cioè le scuse per l’attacco alla flottiglia umanitaria,
l’indennizzo delle vittime e la revoca dell’embargo su Gaza. Se si pensa
che ancora in anni recenti la marina israeliana e quella turca
compivano le manovre congiunte sotto l’egida della Nato, si può capire
l’ansia di Tel Aviv quando si era saputo che nei radar della flotta
turca, le navi e gli aerei israeliani non erano più segnalati come
«amici», ma come «ostili». Le scuse arriveranno soltanto nel marzo di
quest’anno.
E’ Benjamin Netanyahu a pronunciarle al telefono che
gli aveva messo in mano Barack Obama. Il premier israeliano sapeva
quello che doveva dire, sebbene né lui né Avigdor Lieberman (l’alleato
politico e leader ultranazionalista) l’avrebbero mai voluto dire. Il
primo ministro Recep Tayyip Erdogan ha ascoltato Netanyahu mentre si
scusava «con il popolo turco per ogni errore che potrebbe aver causato
la perdita di vite umane» e prometteva che i due Paesi avrebbero trovato
un accordo per risarcire le vittime. All’aeroporto di Tel Aviv - così
imponendo - il Presidente americano prima di risalire sull’Air Force One
alla fine di una visita di tre giorni in Israele, si era accaparrato un
risultato importante, poiché l’alleanza tra lo Stato ebraico e la
Turchia (ne sono tuttora convinti i generali del Pentagono) andava
ristabilita per poter affrontare la crisi siriana e la questione
dell’atomica iraniana.
Facile da dire, difficile da attuare
l’alleanza, se si pensa che soltanto pochi giorni prima della famosa
telefonata, Erdogan aveva definito il sionismo «un crimine contro
l’umanità». Dopotutto sono le divergenze tra i due Stati che hanno
spinto la banca d’affari e di investimenti Goldman Sachs a consigliare
ai propri clienti di liberarsi in fretta di tutti i titoli della seconda
più grande banca privata turca, la “Garanti Bakasi”. L’obiettivo s’era
rivelato da subito non facile da raggiungere perché la Turchia - come
detto - è al quinto posto, tra i grandi dell’economia mondiale.
Pertanto, per rassicurare i suoi clienti più perplessi e incoraggiare
quelli ancora indecisi si era ricorsi all’ “autorevole” David Goldman,
il quale nell’ormai famoso articolo sul Middle East Quarterly aveva
predetto il crollo economico della Turchia nel 2012, convincendo i
clienti più dubbiosi, almeno così sostengono al Goldman Sachs Group.
Stando
così le cose, ci vuole poco a capire perché gli spasmi di protagonismo
di Erdogan abbiano cominciato ad irritare anche gli Stati Uniti. Ne è
una testimonianza l’incontro di Washington del 16 maggio scorso durante
il quale egli aveva chiesto a Obama che la Turchia non restasse fuori
dalla Translatlantic Trade and Investment Partnership, il progetto di
zona di libero scambio tra Europa e Stati Uniti. Ma il Presidente
americano oggi più di quel giorno di maggio continua ad esitare, sebbene
la sua esclusione potrebbe portare a una contrazione del 2,5% il Pil
turco. Se ciò accadesse si confermerebbe il catastrofico scenario
evocato da David Goldman.
Dopodiché il 27 maggio, undici giorni
dopo l’incontro con Obama a Washington, sono cominciate le
manifestazioni nel cuore di Istanbul con l'obiettivo di impedire
l'abbattimento dei seicento alberi di Gezi Parki per permettere
l'ammodernamento di piazza Taksim pianificato da Governo. Con il passare
dei giorni le proteste si sono allargate anche in altre città, in
particolare nella capitale Ankara e a Smirne. L'escalation si è avuta il
31 maggio con la diffusione planetaria delle immagini delle cariche
della polizia contro i manifestanti, con il massiccio uso dei
lacrimogeni e dei cannoni ad acqua.
Tra i tanti messaggi di
condanna c’è anche quello del Parlamento Ue nel quale si esprime
preoccupazione per «l'uso sproporzionato ed eccessivo della forza» da
parte della polizia turca e si deplorano, «le reazioni del governo turco
e del primo ministro Erdogan». Nel comunicato infatti si accusa come
mai era accaduto prima, lo stesso premier di acuire la polarizzazione
della situazione. Per completare il quadro sarebbe interessante
conoscere le intenzioni di Mark Patterson, il lobbista della Goldman
Sachs che è alla testa dello staff del segretario del Tesoro Jacob
Joseph Lew.
Si tenga a mente che molti sono gli ex funzionari
della Goldman Sachs presenti nella amministrazione di Barack Obama,
sebbene nella campagna presidenziale egli avesse promesso che
l’influenza dei lobbisti nella sua amministrazione sarebbe stata
ridimensionata. L’ U.S. News & World Report ne fornisce un
lungo elenco. Sicché tutto lascia pensare che Erdogan rischi davvero di
soccombere, e con lui il suo modello turco. Chissà se è hanno già
individuato il sostituto. Bisognerebbe chiederlo alla Goldman Sachs.
Fonte
Bah, come sempre le analisi accademiche delle situazioni internazionali hanno il brutto vizio di dissertare di geopolitica estromettendo il contesto sociale locale.
A leggere queste righe viene spontaneo pensare che Erdogan sia l'ennesima vittima di una primavera araba gestita a tavolino dagli Stati Uniti.
Questa chiave di lettura, benché non sia completamente errata, soprattutto in riferimento alla primavera araba nel suo complesso, è comunque limitativa e fuorviante in quanto stralcia dall'analisi la nascita, lo sviluppo e la redistribuzione che hanno caratterizzato il miracolo economico turco dell'ultimo decennio.
Quella turca è una crisi di scala non perché sia manovrata dalla longa manus della finanza internazionale, ma perché s'inserisce a pieno titolo nel rinnovato conflitto tra accentramento del capitale e masse popolari, che si dissanguano per perpetrare una ricchezza di cui intercettano appena le briciole.
Al netto della geopolitica da ovattati saloni, dunque, considero più interessante questa analisi, di cui consiglio nuovamente la lettura.
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