Cui prodest scelus, is fecit
(Colui al quale il crimine giova, egli l’ha commesso)
(Seneca, Medea, III, 500-501)
Il silenzio con il quale è stata accolta nei media la richiesta d’indizione di un referendum sul Fiscal Compact, promossa con perizia tecnica e legittimità democratica dal Comitato No Debito, non deriva soltanto da radicate infatuazioni ideologiche. Dietro l’ostinato rifiuto che spesso s’incontra nell’establishment anche solo a discutere seriamente intorno al nodo dell’euro si celano corposi interessi materiali di una fetta importante e variegata della borghesia italiana. Vale la pena allora porsi, prima di ogni altra considerazione, la domanda di Medea: Euro, cui prodest?
Infatti, a differenza di quanto accade per la gran parte dei soggetti sociali, a cominciare dai lavoratori, per i quali l’analisi dei costi e benefici derivanti dalla moneta unica è complessa, per altri soggetti l’euro continua ancor oggi a rappresentare, nonostante la crisi, un vantaggio certo. L’individuazione di questi soggetti è una condizione necessaria per comprendere pienamente la situazione in cui il Paese si trova.
Di ciò non sempre a sinistra vi è piena consapevolezza. Non di rado capita di incontrare argomentazioni, paradossalmente coincidenti con quelle della teoria economica neoclassica e liberista, circa il fatto che in un’economia capitalistica i fenomeni monetari costituiscono un semplice velo che si limita a coprire il corpo vivo della produzione. In tale prospettiva una moneta vale l’altra: dollaro, sterlina, lira o euro pari sono nello svolgimento della loro funzione puramente lubrificatrice dei rapporti di dominio del capitale. È questa però una visione astratta e dogmatica. La moneta è l’incarnazione storica della forma astratta di valore che costituisce il motore pulsante del modo di produzione capitalista. Il modo concreto in cui l’astrazione del valore si rappresenta nella realtà è soggetto a cambiamenti anche profondi, come quello avvenuto col passaggio dalla moneta-merce (oro) alla moneta fiduciaria. Queste differenti manifestazioni storiche, pur non mutando la natura del valore come oggettivazione di lavoro vivo, contribuiscono a determinare le modalità concrete dello sfruttamento del capitale e i meccanismi della sua accumulazione. Nell’azione storica e politica, cioè nella materialità della lotta di classe, ciò che i soggetti hanno di fronte sono le forme concrete che il capitale assume nelle sue metamorfosi e sono quindi esse che vanno analizzate e combattute in una visione processuale, e non palingenetica, della trasformazione sociale. Non bisogna confondere questo atteggiamento con il riformismo perché lo stato di cose presenti che il movimento reale deve cambiare non è altro che quello in cui si svolge la corporeità delle nostre vite.
Domandiamoci allora qual è la differenza economica fondamentale che si è prodotta in Italia nel passaggio dalla lira all’euro. Per dirla in soldoni, essa è consistita nel fatto che la lira era una “moneta debole” mentre l’euro è una “moneta forte”. Caratteristica di una moneta debole è quella di essere soggetta a una costante perdita di valore rispetto sia alle valute estere (svalutazione) sia ai beni e servizi prodotti e consumati internamente (inflazione). La perdita di valore interno ed esterno della moneta non costituisce sempre e necessariamente un danno per tutti coloro che la adoperano. Dipende dall’uso che della moneta se ne fa e dal modo in cui essa è entrata nelle tasche del possessore. La perdita di valore nominale di qualunque merce, compresa la moneta, non è mai assoluta ma è sempre relativa a qualcos’altro, che nello stesso tempo guadagna di valore. In altre parole, inflazione e svalutazione non sono neutre rispetto alla distribuzione del reddito e della ricchezza. E a sua volta la distribuzione del reddito e della ricchezza non è neutra rispetto allo sviluppo economico e sociale di un Paese.
I principali effetti redistributivi prodotti da una moneta debole come la lira, soggetta a inflazione e svalutazione, erano: la riduzione del valore dei patrimoni reali e finanziari denominati in valuta nazionale e la contemporanea riduzione del valore capitale dei debiti pubblici e privati in essere all’interno del Paese (fino a un passato recente l’inflazione e la svalutazione erano i mezzi più usati dagli Stati per ridurre il proprio debito); la maggiore rischiosità nelle transazioni reali e finanziarie con l’estero; la riduzione del prezzo estero delle merci esportate e viceversa l’aumento del prezzo interno delle merci importate, che equivale ad un guadagno di competitività internazionale; la riduzione del potere d’acquisto all’estero dei redditi e dei flussi monetari denominati in valuta nazionale. Con l’euro questi effetti redistributivi non solo si sono arrestati, ma hanno cambiato direzione.
Alla luce di questa premessa possiamo elencare quali categorie economico-sociali in Italia hanno tratto sicuro giovamento dal passaggio dalla lira all’euro:
- I possessori di patrimoni reali e finanziari e i soggetti
strutturalmente creditori (“rentier”) perché il valore relativo della
ricchezza posseduta e del credito concesso era prima soggetto a
strisciante erosione;
- Le banche e gli intermediari finanziari perché con inflazione e
svalutazione i) il rischio di posizioni lunghe (debiti a breve e
prestiti a lungo termine) era più elevato; ii) i tassi di interesse
reali, cioè al netto della crescita dei prezzi, erano bassi e sovente
negativi; iii) i movimenti di capitale finanziario in entrata e in
uscita erano ostacolati dal rischio di cambio.
- Le imprese multinazionali italiane (grandi e piccole) il cui ciclo
produttivo è parzialmente o interamente delocalizzato perché con l’euro
godono della riduzione dei costi di produzione all’estero derivanti da
un moneta forte.
- Gli intermediari commerciali con l’estero (attività di
import-export) perché in presenza di inflazione e svalutazione il giro
d’affari era ridotto e il margine di intermediazione soggetto a grossa
volatilità e alto rischio.
- Le imprese e le attività non soggette a concorrenza internazionale o
operanti in regime di regolamentazione della concorrenza, ubicate
prevalentemente nel settore dei servizi (libere professioni, farmacie,
trasporti, forniture di servizi di rete, servizi per la cura della casa e
della persona ecc.) e le imprese manifatturiere che operano in mercati
di concorrenza monopolistica (es. i marchi prestigiosi del made in Italy)
perché non risentono del mancato recupero di competitività impedito
dalla stabilità del cambio e usufruiscono dell’aumento del valore
relativo dei loro investimenti e dei loro introiti;
- Tutti coloro che per ragioni di lavoro, di svago o di pura immagine
passano lunghi periodi fuori dai confini nazionali (es. élites dello
spettacolo, dello sport, della comunicazione).
È tuttavia possibile individuare un atteggiamento prevalente in questo coacervo di soggetti così diversi: la conservazione dello status quo. Ciascuno di essi, infatti, gode di una posizione di privilegio, ereditato o acquisito, derivante dalle forti barriere all’entrata, legali o materiali, nei settori in cui opera. Per tale ragione l’egemonia esercitata da questo blocco di interessi sull’intera società italiana rappresenta un fortissimo fattore di immobilismo economico, sociale e culturale. Le sabbie mobili nelle quali l’Italia sta affondando trovano così, anche per ragioni distributive e non solo di diretta efficienza economica, una delle loro cause proprio nell’euro e in coloro che grazie a esso continuano a prosperare.
di Andrea Ricci economista, docente di Economia internazionale all'Università di Urbino
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