di Michele Paris
La serie di sconfitte sofferte nelle ultime settimane dai “ribelli”
siriani per mano delle forze del regime e di un limitato contingente di
uomini di Hezbollah provenienti dal Libano sta spingendo i governi
occidentali a cercare disperatamente qualche soluzione per invertire le
sorti del conflitto. Svariati fattori, tuttavia, impediscono agli Stati
Uniti e ai loro alleati di mettere in atto un processo sufficientemente
condiviso per portare a termine la crisi, così che l’unico percorso
teoricamente praticabile rimane il rovesciamento con la forza del regime
alauita di Damasco.
Una prospettiva, questa, che scatenerebbe però una nuova rovinosa
guerra in Medio Oriente, smascherando definitivamente gli interessi e i
calcoli geo-strategici che si nascondono dietro all’intera vicenda
siriana.
La settimana in corso si era aperta con un anonimo
membro dell’amministrazione Obama che aveva rivelato all’Associated
Press come il governo americano potrebbe decidere già nei prossimi
giorni la possibilità di fornire direttamente equipaggiamenti militari a
quei gruppi “ribelli” considerati più moderati e filo-occidentali.
L’indiscrezione
è stata seguita dal rinvio di un nuovo viaggio in Medio Oriente del
segretario di Stato, John Kerry, per discutere della questione
palestinese, così da permettergli di partecipare ad un vertice alla Casa
Bianca sulla Siria e, in particolare, sulle misure da adottare per
“aiutare l’opposizione a far fronte ai bisogni essenziali della
popolazione siriana e accelerare la transizione verso il dopo-Assad”.
In
altre parole, l’ormai manifesta incapacità delle formazioni “ribelli”
di dare la spallata al regime richiede misure drastiche e immediate da
parte dei loro sponsor per accendere ancor più lo scontro nel paese e
rianimare milizie dominate da elementi radicali impopolari che adottano
in gran parte metodi terroristici per giungere alla creazione di un
sistema caratterizzato dall’islamismo integralista più retrogrado.
I
commenti dei media americani mettono però in guardia dalla pericolosità
di una decisione che comporterebbe un ulteriore afflusso di armi in
Siria, dimenticando puntualmente di sottolineare come Washington svolga
già da tempo una funzione essenziale nel coordinare le spedizioni di
materiale bellico a favore dei “ribelli” proveniente da paesi come
Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi.
In
molti negli Stati Uniti temono inoltre le conseguenze di un nuovo
intervento nella regione tutt’altro che gradito agli americani, così che
esponenti del governo e commentatori vari continuano ad escludere
l’invio di truppe in territorio siriano per combattere a fianco, o al
posto, dei “ribelli”.
Esclusa dunque per il momento quest’ultima opzione, gli USA potrebbero studiare anche la fattibilità di una no-fly zone
sulla Siria, visto che appare sempre più diffusa l’opinione che
addirittura le stesse eventuali forniture americane di armi
all’opposizione farebbero ormai ben poco per ribaltare gli equilibri sul
campo.
Per una no-fly zone spingono tra l’altro alcuni
dei falchi repubblicani al Congresso di Washington, primo fra tutti l’ex
candidato alla presidenza John McCain, presenza puntuale nei talk-show
d’oltreoceano per promuovere una nuova guerra “umanitaria”, nonché
protagonista di un recente blitz in territorio siriano per incontrare
alcuni guerriglieri anti-Assad.
L’imposizione di una no-fly zone
richiederebbe in ogni caso una decisione unilaterale da parte degli
Stati Uniti o della NATO, visto che al Consiglio di Sicurezza dell’ONU
Russia e Cina sono ben determinate a porre il veto su qualsiasi
risoluzione che possa essere manipolata per favorire gli obiettivi
occidentali, come accadde nel 2011 con la Libia.
Con un sistema difensivo decisamente più sofisticato di quello a disposizione di Gheddafi, oltretutto, il rispetto di una no-fly zone
sulla Siria dovrebbe essere ottenuto con massicci bombardamenti e,
inevitabilmente, produrrebbe un numero elevatissimo di vittime tra i
civili.
Sul campo in Siria, intanto, dopo la riconquista della
città strategica di Qusayr, ad una manciata di chilometri dal confine
con il Libano, le forze dell’esercito regolare si stanno preparando ad
avviare nuove offensive contro i “ribelli”.
L’inviato del Wall Street Journal
in Siria, ad esempio, ha descritto martedì una serie di assalti da
parte del governo e di Hezbollah contro le postazioni controllate
dall’opposizione nella città di Homs, considerata dai “ribelli” la
“capitale della rivoluzione”. Per tutta risposta, questi ultimi
starebbero ricorrendo a tattiche a lungo attribuite al regime, come il
lancio di missili contro obiettivi civili nei quartieri della città
controllati dalle forze del governo e l’utilizzo di civili come scudi
umani.
Il ritorno di Homs nelle mani del regime assesterebbe un
ulteriore colpo alle capacità dei “ribelli” di condurre operazioni di
una qualche efficacia nel sud della Siria, mentre la liberazione di
Aleppo - altro obiettivo a breve del governo - potrebbe interrompere le
forniture dirette alle forze di opposizione provenienti dalla Turchia.
Tutti
i giornali occidentali in questi giorni indicano il momento favorevole
ad Assad come un impedimento alla convocazione della sempre meno
probabile conferenza di pace denominata “Ginevra II” e lanciata da Kerry
assieme al suo omologo russo, Sergei Lavrov. I rappresentanti
dell’opposizione sostenuta dall’Occidente hanno infatti annunciato da
qualche giorno di non volere partecipare all’evento, poiché un Assad
reduce da una serie di vittorie militari, come è ovvio, non avrebbe
alcuna intenzione di abbandonare il potere.
Su questa linea
appaiono anche i rappresentanti dei governi occidentali, confermando
perciò come “Ginevra II” era in realtà soltanto l’ennesimo espediente
messo in atto da Washington per forzare il cambio di regime a Damasco,
questa volta attraverso l’apparenza di un processo diplomatico
condiviso.
Oltre al possibile maggiore sostegno militare alle
formazioni “ribelli”, Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna continuano
poi a preparare la rimozione di Assad attraverso le accuse dell’utilizzo
di armi chimiche. I dubbi su questa strategia cominciano però a
diffondersi anche tra i media allineati al governo americano, come il New York Times,
il quale, in un articolo di lunedì sulle incertezze che rimangono circa
l’uso di gas sarin in Siria si è chiesto il motivo della difficoltà di
provare con certezza le responsabilità nonostante la relativa fermezza
con cui Washington, Parigi o Londra hanno puntato il dito contro il
regime di Assad.
La risposta all’interrogativo del NYT appare
tutt’altro che complicata, dal momento che la mancata chiarezza sulle
responsabilità del ricorso ad armi chimiche è dovuta al fatto che
l’Occidente non ha alcuna prova concreta per accusare Damasco e,
ciononostante, continua ad agitare lo spettro del sarin e di altri
agenti letali perché intende comunque imputarne l’uso al regime.
Questo
atteggiamento continua ad essere tenuto per costruire un casus belli
che possa giustificare un intervento militare diretto in Siria, anche se
l’organo più autorevole ad avere finora indagato sulla questione - una
speciale commissione sulla Siria delle Nazioni Unite - ha lasciato
intendere che ad avere usato quantità limitate di armi chimiche
potrebbero essere stati proprio i “ribelli”.
L’incapacità di
questi ultimi di sostenere una campagna efficace contro il regime, in
definitiva, è la diretta conseguenza della sostanziale mancanza di
seguito tra la popolazione siriana. Il motivo principale della loro
impopolarità è dovuto soprattutto alla diffusissima presenza di elementi
jihadisti violenti nelle file dell’opposizione armata, tra cui,
probabilmente, decine di migliaia giunti dall’estero.
I metodi
generalmente messi in atto in oltre due anni di conflitto sono stati
recentemente descritti ancora dall’ONU e includono atti terroristici
contro obiettivi civili, assassini, esecuzioni sommarie, rapimenti, atti
di cannibalismo e l’imposizione di punizioni barbare ispirate alla
Sharia. Proprio martedì, ad esempio, due attentati suicidi sono stati
portati a termine a Damasco, facendo almeno 14 vittime e una trentina di
feriti, mentre una persona è morta nella città libanese di Hermel, una
delle roccaforti di Hezbollah, in seguito al lancio di alcuni missili
dalla Siria.
Uno
degli episodi più raccapriccianti documentati negli ultimi giorni è
stato reso noto dall’Osservatorio per i Diritti Umani in Siria ed è
avvenuto nel fine settimana scorso ad Aleppo. Qui, un 14enne che vendeva
caffè nelle strade della città è stato sorpreso da un gruppo di
affiliati ad una milizia jihadista mentre respingeva la richiesta di un
cliente di avere una bevanda gratis, ricorrendo ad un detto popolare
siriano: “Nemmeno se [il profeta] Muhammad tornasse su questa terra in
questo stesso istante”.
Alcuni estremisti lo hanno allora
caricato su un auto, allontanandosi per alcune ore. Una volta tornati,
il giovane, che mostrava evidenti segni di percosse, è stato portato in
una piazza davanti a centinaia di persone dove gli è stata coperta la
testa con la camicia che indossava.
Con la madre che osservava la scena dal balcone della propria
abitazione, il gruppo di islamisti ha avvertito la folla che “chiunque
insulti Dio o il profeta Muhammad verrà punito in questo modo”, per poi
giustiziare il 14enne con due colpi di pistola diretti alla testa e al
collo. Un esempio concreto della versione siriana dei diritti umani in
nome della quale si battono i combattenti filo-occidentali.
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