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13/06/2013

Siria, la disfatta dei ribelli

di Michele Paris
 
La serie di sconfitte sofferte nelle ultime settimane dai “ribelli” siriani per mano delle forze del regime e di un limitato contingente di uomini di Hezbollah provenienti dal Libano sta spingendo i governi occidentali a cercare disperatamente qualche soluzione per invertire le sorti del conflitto. Svariati fattori, tuttavia, impediscono agli Stati Uniti e ai loro alleati di mettere in atto un processo sufficientemente condiviso per portare a termine la crisi, così che l’unico percorso teoricamente praticabile rimane il rovesciamento con la forza del regime alauita di Damasco.
Una prospettiva, questa, che scatenerebbe però una nuova rovinosa guerra in Medio Oriente, smascherando definitivamente gli interessi e i calcoli geo-strategici che si nascondono dietro all’intera vicenda siriana.

La settimana in corso si era aperta con un anonimo membro dell’amministrazione Obama che aveva rivelato all’Associated Press come il governo americano potrebbe decidere già nei prossimi giorni la possibilità di fornire direttamente equipaggiamenti militari a quei gruppi “ribelli” considerati più moderati e filo-occidentali.

L’indiscrezione è stata seguita dal rinvio di un nuovo viaggio in Medio Oriente del segretario di Stato, John Kerry, per discutere della questione palestinese, così da permettergli di partecipare ad un vertice alla Casa Bianca sulla Siria e, in particolare, sulle misure da adottare per “aiutare l’opposizione a far fronte ai bisogni essenziali della popolazione siriana e accelerare la transizione verso il dopo-Assad”.

In altre parole, l’ormai manifesta incapacità delle formazioni “ribelli” di dare la spallata al regime richiede misure drastiche e immediate da parte dei loro sponsor per accendere ancor più lo scontro nel paese e rianimare milizie dominate da elementi radicali impopolari che adottano in gran parte metodi terroristici per giungere alla creazione di un sistema caratterizzato dall’islamismo integralista più retrogrado.

I commenti dei media americani mettono però in guardia dalla pericolosità di una decisione che comporterebbe un ulteriore afflusso di armi in Siria, dimenticando puntualmente di sottolineare come Washington svolga già da tempo una funzione essenziale nel coordinare le spedizioni di materiale bellico a favore dei “ribelli” proveniente da paesi come Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi.

In molti negli Stati Uniti temono inoltre le conseguenze di un nuovo intervento nella regione tutt’altro che gradito agli americani, così che esponenti del governo e commentatori vari continuano ad escludere l’invio di truppe in territorio siriano per combattere a fianco, o al posto, dei “ribelli”.

Esclusa dunque per il momento quest’ultima opzione, gli USA potrebbero studiare anche la fattibilità di una no-fly zone sulla Siria, visto che appare sempre più diffusa l’opinione che addirittura le stesse eventuali forniture americane di armi all’opposizione farebbero ormai ben poco per ribaltare gli equilibri sul campo.

Per una no-fly zone spingono tra l’altro alcuni dei falchi repubblicani al Congresso di Washington, primo fra tutti l’ex candidato alla presidenza John McCain, presenza puntuale nei talk-show d’oltreoceano per promuovere una nuova guerra “umanitaria”, nonché protagonista di un recente blitz in territorio siriano per incontrare alcuni guerriglieri anti-Assad.

L’imposizione di una no-fly zone richiederebbe in ogni caso una decisione unilaterale da parte degli Stati Uniti o della NATO, visto che al Consiglio di Sicurezza dell’ONU Russia e Cina sono ben determinate a porre il veto su qualsiasi risoluzione che possa essere manipolata per favorire gli obiettivi occidentali, come accadde nel 2011 con la Libia.

Con un sistema difensivo decisamente più sofisticato di quello a disposizione di Gheddafi, oltretutto, il rispetto di una no-fly zone sulla Siria dovrebbe essere ottenuto con massicci bombardamenti e, inevitabilmente, produrrebbe un numero elevatissimo di vittime tra i civili.

Sul campo in Siria, intanto, dopo la riconquista della città strategica di Qusayr, ad una manciata di chilometri dal confine con il Libano, le forze dell’esercito regolare si stanno preparando ad avviare nuove offensive contro i “ribelli”.

L’inviato del Wall Street Journal in Siria, ad esempio, ha descritto martedì una serie di assalti da parte del governo e di Hezbollah contro le postazioni controllate dall’opposizione nella città di Homs, considerata dai “ribelli” la “capitale della rivoluzione”. Per tutta risposta, questi ultimi starebbero ricorrendo a tattiche a lungo attribuite al regime, come il lancio di missili contro obiettivi civili nei quartieri della città controllati dalle forze del governo e l’utilizzo di civili come scudi umani.

Il ritorno di Homs nelle mani del regime assesterebbe un ulteriore colpo alle capacità dei “ribelli” di condurre operazioni di una qualche efficacia nel sud della Siria, mentre la liberazione di Aleppo - altro obiettivo a breve del governo - potrebbe interrompere le forniture dirette alle forze di opposizione provenienti dalla Turchia.

Tutti i giornali occidentali in questi giorni indicano il momento favorevole ad Assad come un impedimento alla convocazione della sempre meno probabile conferenza di pace denominata “Ginevra II” e lanciata da Kerry assieme al suo omologo russo, Sergei Lavrov. I rappresentanti dell’opposizione sostenuta dall’Occidente hanno infatti annunciato da qualche giorno di non volere partecipare all’evento, poiché un Assad reduce da una serie di vittorie militari, come è ovvio, non avrebbe alcuna intenzione di abbandonare il potere.

Su questa linea appaiono anche i rappresentanti dei governi occidentali, confermando perciò come “Ginevra II” era in realtà soltanto l’ennesimo espediente messo in atto da Washington per forzare il cambio di regime a Damasco, questa volta attraverso l’apparenza di un processo diplomatico condiviso.

Oltre al possibile maggiore sostegno militare alle formazioni “ribelli”, Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna continuano poi a preparare la rimozione di Assad attraverso le accuse dell’utilizzo di armi chimiche. I dubbi su questa strategia cominciano però a diffondersi anche tra i media allineati al governo americano, come il New York Times, il quale, in un articolo di lunedì sulle incertezze che rimangono circa l’uso di gas sarin in Siria si è chiesto il motivo della difficoltà di provare con certezza le responsabilità nonostante la relativa fermezza con cui Washington, Parigi o Londra hanno puntato il dito contro il regime di Assad.

La risposta all’interrogativo del NYT appare tutt’altro che complicata, dal momento che la mancata chiarezza sulle responsabilità del ricorso ad armi chimiche è dovuta al fatto che l’Occidente non ha alcuna prova concreta per accusare Damasco e, ciononostante, continua ad agitare lo spettro del sarin e di altri agenti letali perché intende comunque imputarne l’uso al regime.

Questo atteggiamento continua ad essere tenuto per costruire un casus belli che possa giustificare un intervento militare diretto in Siria, anche se l’organo più autorevole ad avere finora indagato sulla questione - una speciale commissione sulla Siria delle Nazioni Unite - ha lasciato intendere che ad avere usato quantità limitate di armi chimiche potrebbero essere stati proprio i “ribelli”.

L’incapacità di questi ultimi di sostenere una campagna efficace contro il regime, in definitiva, è la diretta conseguenza della sostanziale mancanza di seguito tra la popolazione siriana. Il motivo principale della loro impopolarità è dovuto soprattutto alla diffusissima presenza di elementi jihadisti violenti nelle file dell’opposizione armata, tra cui, probabilmente, decine di migliaia giunti dall’estero.

I metodi generalmente messi in atto in oltre due anni di conflitto sono stati recentemente descritti ancora dall’ONU e includono atti terroristici contro obiettivi civili, assassini, esecuzioni sommarie, rapimenti, atti di cannibalismo e l’imposizione di punizioni barbare ispirate alla Sharia. Proprio martedì, ad esempio, due attentati suicidi sono stati portati a termine a Damasco, facendo almeno 14 vittime e una trentina di feriti, mentre una persona è morta nella città libanese di Hermel, una delle roccaforti di Hezbollah, in seguito al lancio di alcuni missili dalla Siria.

Uno degli episodi più raccapriccianti documentati negli ultimi giorni è stato reso noto dall’Osservatorio per i Diritti Umani in Siria ed è avvenuto nel fine settimana scorso ad Aleppo. Qui, un 14enne che vendeva caffè nelle strade della città è stato sorpreso da un gruppo di affiliati ad una milizia jihadista mentre respingeva la richiesta di un cliente di avere una bevanda gratis, ricorrendo ad un detto popolare siriano: “Nemmeno se [il profeta] Muhammad tornasse su questa terra in questo stesso istante”.

Alcuni estremisti lo hanno allora caricato su un auto, allontanandosi per alcune ore. Una volta tornati, il giovane, che mostrava evidenti segni di percosse, è stato portato in una piazza davanti a centinaia di persone dove gli è stata coperta la testa con la camicia che indossava.
Con la madre che osservava la scena dal balcone della propria abitazione, il gruppo di islamisti ha avvertito la folla che “chiunque insulti Dio o il profeta Muhammad verrà punito in questo modo”, per poi giustiziare il 14enne con due colpi di pistola diretti alla testa e al collo. Un esempio concreto della versione siriana dei diritti umani in nome della quale si battono i combattenti filo-occidentali.

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