di Michele Paris
Venerdì
prossimo gli elettori iraniani si recheranno alle urne per eleggere il
successore di Mahmoud Ahmadinejad alla presidenza di una Repubblica
Islamica segnata da profonde divisioni politiche interne e da
un’economia sempre più in affanno a causa delle sanzioni occidentali
dovute allo stallo sull’annosa questione del proprio programma nucleare
civile.
La campagna elettorale partita sotto tono il 22 maggio
scorso ha subito una modesta scossa negli ultimi giorni in seguito al
ritiro dalla competizione di due degli otto candidati approvati dal
Consiglio dei Guardiani su oltre 600 aspiranti alla presidenza.
L’abbandono
della corsa dell’unico candidato considerato riformista, l’ex
vice-presidente Mohammad Reza Aref, sarebbe stato deciso in particolare
per evitare la dispersione del voto di coloro che vedono con favore un
riavvicinamento all’Occidente e una maggiore apertura del mercato
iraniano al capitale internazionale.
Il voto dei riformisti,
quindi, potrebbe così confluire interamente sul moderato Hassan Rowhani,
già capo dei negoziatori sul nucleare tra il 2003 e il 2005, nonché
relativamente più noto di Aref, soprattutto dopo l’appoggio ufficiale
ricevuto martedì dalle due personalità più popolari tra questa sezione
della società iraniana, gli ex presidenti Mohammad Khatami e Ali Akbar
Hashemi Rafsanjani.
L’entusiasmo elettorale di un movimento, come
quello riformista, che fa riferimento principalmente ai giovani e alla
borghesia urbana, non appare in ogni caso nemmeno lontanamente
paragonabile a quello che il cosiddetto Movimento Verde aveva suscitato
durante il voto contestato del 2009 con le candidature di Mir-Hossein
Mousavi e Mehdi Karroubi, entrambi tuttora agli arresti domiciliari.
Oltretutto, il fervore residuo di una parte dei riformisti si era spento
il mese scorso proprio con l’esclusione dalla corsa alla presidenza di
Rafsanjani.
La capacità di Rowhani, il quale nel 2009 aveva
condannato le proteste di piazza seguite alla rielezione di Ahmadinejad,
di accedere al secondo turno di ballottaggio rimangono tuttavia quanto
meno dubbie, soprattutto in assenza di sondaggi attendibili. Le sue
chances di piazzarsi tra i due candidati più votati alla chiusura delle
urne nella serata di venerdì dipenderanno dal gradimento suscitato in un
periodo così breve in una parte dell’elettorato generalmente sfiduciata
e che percepisce il sistema come bloccato e in sostanza impossibile da
cambiare dall’interno.
Soprattutto, però, l’eventuale successo di
Rowhani - così come di qualsiasi altro candidato sulla sponda
conservatrice - dipenderà dalla quantità di consensi che riuscirà ad
intercettare tra la classe lavoratrice urbana e i votanti nelle aree
rurali, vale a dire la parte del paese maggiormente colpita dalle
difficoltà e dai cambiamenti economici di questi anni e che ha
rappresentato la base elettorale dei successi di Ahmadinejad nel 2005 e
nel 2009.
Anche questa fetta dell’elettorato, sia pure oggetto di
meno attenzioni da parte dei media occidentali rispetto alla borghesia
alla moda di Teheran che tende a preferire i politici “riformisti”, era
stata privata a maggio del candidato teoricamente in grado di difendere i
suoi interessi, il capo di gabinetto di Ahmadinejad, Esfandiar Rahim
Mashaei, considerato una minaccia all’establishment conservatore a causa
del suo populismo e della sua probabile intenzione di rafforzare i
poteri attribuiti alla figura del presidente.
Rowhani, in ogni
caso, appare senza dubbio il candidato preferito dall’Occidente, come
confermano i commenti apparsi sui media che lo descrivono, tra l’altro,
come un politico “pragmatico” e in grado di mediare tra riformisti e
conservatori. Nel suo incarico alla guida dei negoziatori sul nucleare,
inoltre, Rowhani era riuscito a siglare un accordo provvisorio e
parziale per la sospensione delle attività legate al discusso programma.
Sul
fronte conservatore, invece, il ritiro dell’ex presidente del
Parlamento e consuocero dell’ayatollah Ali Khamenei, Gholam Haddad Adel,
sembra aver fatto bene poco per chiarire i rapporti di forza in vista
del voto.
I
due favoriti dovrebbero comunque essere il carismatico sindaco di
Teheran, Mohammed Baqer Qalibaf, e l’attuale capo dei negoziatori sul
nucleare e segretario del Consiglio Supremo per la Sicurezza Nazionale,
Saeed Jalili.
Quest’ultimo, in particolare, viene considerato da molti il candidato
preferito di Khamenei, non solo per la sua fermezza di fronte alle
richieste occidentali e la dimostrata fedeltà alle direttive della Guida
Suprema, ma anche per la sua mancanza sia di una vera e propria base
elettorale sia di legami con le influenti fazioni che formano l’élite
della Repubblica Islamica.
La presunta scelta di Jalili da parte
di Khamenei, secondo questa tesi, sarebbe dettata dalla volontà di
evitare l’esperienza vissuta dopo la rielezione di Ahmadinejad.
L’ayatollah, cioè, non intenderebbe ritrovarsi a fare i conti con una
forte personalità come quella del presidente uscente - per certi versi
paragonabile a quella di Qalibaf - il quale dopo il successo del 2009 ha
rapidamente perso l’appoggio di Khamenei perché considerato una
minaccia per le istituzioni clericali della Repubblica Islamica.
Secondo
altri analisti, al contrario, Khamenei non avrebbe in realtà scelto
alcun candidato per il successo e sarebbero piuttosto i candidati
stessi, soprattutto quelli senza una base elettorale significativa, a
fare a gara per apparire come i protetti della Guida Suprema. La
reticenza di Khamenei e l’insolita schiettezza che ha caratterizzato
l’unico confronto televisivo tra i candidati ha dato qualche credibilità
a questa interpretazione, secondo la quale perciò l’esito del voto di
venerdì sarebbe del tutto aperto.
Inoltre, le critiche rivolte a
Jalili per la gestione troppo rigida delle trattative sul nucleare con
l’Occidente da parte di un altro candidato conservatore, l’ex ministro
degli Esteri e consigliere dell’ayatollah, Ali Akbar Velayati, avrebbero
evidenziato le divisioni esistenti all’interno della classe dirigente
iraniana sull’atteggiamento da tenere nei confronti dell’Occidente per
superare un’impasse diplomatica che dura da molti anni.
I giudizi
negativi espressi da Velayati e da altri candidati alla linea dura
tenuta da Jalili indicherebbero così per qualcuno una certa
disponibilità da parte dei vertici dell’Iran a fare ulteriori passi per
cercare un dialogo diretto con gli Stati Uniti. A conferma di ciò ci
potrebbe essere, tra l’altro, anche la rivelazione fatta mercoledì dalla
Reuters di una “insolita” lettera inviata qualche mese fa a
Khamenei dal ministro degli Esteri, Ali Akbar Salehi, per promuovere
“un’ampia discussione con gli USA”. Un invito, quello di Salehi, a cui
l’ayatollah, pur senza mostrare ottimismo, non si sarebbe opposto.
Al
di là del comunque importante esito delle elezioni presidenziali in
Iran, la sensazione diffusa è che le sorti delle trattative sul nucleare
che hanno occupato buona parte della campagna elettorale dipenderanno
più che altro dall’atteggiamento che intenderà adottare Washington, da
dove le ripetute aperture di Teheran nell’ultimo decennio sono state
puntualmente respinte.
Sfruttando l’esclusione di candidati
autorevoli da parte del Consiglio dei Guardiani e le misure per tenere
sotto controllo il dissenso interno in vista del voto, l’amministrazione
Obama ha infatti criticato apertamente il processo elettorale iraniano.
Soprattutto, poi, il periodo di transizione in corso verso
l’insediamento di un nuovo presidente continua ad essere caratterizzato
dall’imposizione di nuovi pesanti sanzioni unilaterali da parte degli
Stati Uniti, come il recente tentativo di impedire all’Iran di accedere
al denaro generato dalle sue esportazioni depositato su conti bancari
esteri.
Una nuova escalation di misure punitive, quella del
governo USA, che conferma come l’obiettivo rimanga quello di utilizzare
la questione del nucleare per giungere ad un cambio di regime a Teheran
o, in alternativa, di concludere un accordo per risolvere la crisi ma
secondo le proprie condizioni, riassumibili nella sottomissione
dell’Iran agli interessi strategici americani, con il conseguente
rischio di compromettere la natura stessa della Repubblica Islamica e la
rimanente legittimità della sua classe dirigente agli occhi della
popolazione.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento