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14/06/2013

Iran, al voto sotto minaccia

di Michele Paris

Venerdì prossimo gli elettori iraniani si recheranno alle urne per eleggere il successore di Mahmoud Ahmadinejad alla presidenza di una Repubblica Islamica segnata da profonde divisioni politiche interne e da un’economia sempre più in affanno a causa delle sanzioni occidentali dovute allo stallo sull’annosa questione del proprio programma nucleare civile.

La campagna elettorale partita sotto tono il 22 maggio scorso ha subito una modesta scossa negli ultimi giorni in seguito al ritiro dalla competizione di due degli otto candidati approvati dal Consiglio dei Guardiani su oltre 600 aspiranti alla presidenza.

L’abbandono della corsa dell’unico candidato considerato riformista, l’ex vice-presidente Mohammad Reza Aref, sarebbe stato deciso in particolare per evitare la dispersione del voto di coloro che vedono con favore un riavvicinamento all’Occidente e una maggiore apertura del mercato iraniano al capitale internazionale.

Il voto dei riformisti, quindi, potrebbe così confluire interamente sul moderato Hassan Rowhani, già capo dei negoziatori sul nucleare tra il 2003 e il 2005, nonché relativamente più noto di Aref, soprattutto dopo l’appoggio ufficiale ricevuto martedì dalle due personalità più popolari tra questa sezione della società iraniana, gli ex presidenti Mohammad Khatami e Ali Akbar Hashemi Rafsanjani.

L’entusiasmo elettorale di un movimento, come quello riformista, che fa riferimento principalmente ai giovani e alla borghesia urbana, non appare in ogni caso nemmeno lontanamente paragonabile a quello che il cosiddetto Movimento Verde aveva suscitato durante il voto contestato del 2009 con le candidature di Mir-Hossein Mousavi e Mehdi Karroubi, entrambi tuttora agli arresti domiciliari. Oltretutto, il fervore residuo di una parte dei riformisti si era spento il mese scorso proprio con l’esclusione dalla corsa alla presidenza di Rafsanjani.

La capacità di Rowhani, il quale nel 2009 aveva condannato le proteste di piazza seguite alla rielezione di Ahmadinejad, di accedere al secondo turno di ballottaggio rimangono tuttavia quanto meno dubbie, soprattutto in assenza di sondaggi attendibili. Le sue chances di piazzarsi tra i due candidati più votati alla chiusura delle urne nella serata di venerdì dipenderanno dal gradimento suscitato in un periodo così breve in una parte dell’elettorato generalmente sfiduciata e che percepisce il sistema come bloccato e in sostanza impossibile da cambiare dall’interno.

Soprattutto, però, l’eventuale successo di Rowhani - così come di qualsiasi altro candidato sulla sponda conservatrice - dipenderà dalla quantità di consensi che riuscirà ad intercettare tra la classe lavoratrice urbana e i votanti nelle aree rurali, vale a dire la parte del paese maggiormente colpita dalle difficoltà e dai cambiamenti economici di questi anni e che ha rappresentato la base elettorale dei successi di Ahmadinejad nel 2005 e nel 2009.

Anche questa fetta dell’elettorato, sia pure oggetto di meno attenzioni da parte dei media occidentali rispetto alla borghesia alla moda di Teheran che tende a preferire i politici “riformisti”, era stata privata a maggio del candidato teoricamente in grado di difendere i suoi interessi, il capo di gabinetto di Ahmadinejad, Esfandiar Rahim Mashaei, considerato una minaccia all’establishment conservatore a causa del suo populismo e della sua probabile intenzione di rafforzare i poteri attribuiti alla figura del presidente.

Rowhani, in ogni caso, appare senza dubbio il candidato preferito dall’Occidente, come confermano i commenti apparsi sui media che lo descrivono, tra l’altro, come un politico “pragmatico” e in grado di mediare tra riformisti e conservatori. Nel suo incarico alla guida dei negoziatori sul nucleare, inoltre, Rowhani era riuscito a siglare un accordo provvisorio e parziale per la sospensione delle attività legate al discusso programma.

Sul fronte conservatore, invece, il ritiro dell’ex presidente del Parlamento e consuocero dell’ayatollah Ali Khamenei, Gholam Haddad Adel, sembra aver fatto bene poco per chiarire i rapporti di forza in vista del voto.

I due favoriti dovrebbero comunque essere il carismatico sindaco di Teheran, Mohammed Baqer Qalibaf, e l’attuale capo dei negoziatori sul nucleare e segretario del Consiglio Supremo per la Sicurezza Nazionale, Saeed Jalili.
Quest’ultimo, in particolare, viene considerato da molti il candidato preferito di Khamenei, non solo per la sua fermezza di fronte alle richieste occidentali e la dimostrata fedeltà alle direttive della Guida Suprema, ma anche per la sua mancanza sia di una vera e propria base elettorale sia di legami con le influenti fazioni che formano l’élite della Repubblica Islamica.

La presunta scelta di Jalili da parte di Khamenei, secondo questa tesi, sarebbe dettata dalla volontà di evitare l’esperienza vissuta dopo la rielezione di Ahmadinejad. L’ayatollah, cioè, non intenderebbe ritrovarsi a fare i conti con una forte personalità come quella del presidente uscente - per certi versi paragonabile a quella di Qalibaf - il quale dopo il successo del 2009 ha rapidamente perso l’appoggio di Khamenei perché considerato una minaccia per le istituzioni clericali della Repubblica Islamica.

Secondo altri analisti, al contrario, Khamenei non avrebbe in realtà scelto alcun candidato per il successo e sarebbero piuttosto i candidati stessi, soprattutto quelli senza una base elettorale significativa, a fare a gara per apparire come i protetti della Guida Suprema. La reticenza di Khamenei e l’insolita schiettezza che ha caratterizzato l’unico confronto televisivo tra i candidati ha dato qualche credibilità a questa interpretazione, secondo la quale perciò l’esito del voto di venerdì sarebbe del tutto aperto.

Inoltre, le critiche rivolte a Jalili per la gestione troppo rigida delle trattative sul nucleare con l’Occidente da parte di un altro candidato conservatore, l’ex ministro degli Esteri e consigliere dell’ayatollah, Ali Akbar Velayati, avrebbero evidenziato le divisioni esistenti all’interno della classe dirigente iraniana sull’atteggiamento da tenere nei confronti dell’Occidente per superare un’impasse diplomatica che dura da molti anni.

I giudizi negativi espressi da Velayati e da altri candidati alla linea dura tenuta da Jalili indicherebbero così per qualcuno una certa disponibilità da parte dei vertici dell’Iran a fare ulteriori passi per cercare un dialogo diretto con gli Stati Uniti. A conferma di ciò ci potrebbe essere, tra l’altro, anche la rivelazione fatta mercoledì dalla Reuters di una “insolita” lettera inviata qualche mese fa a Khamenei dal ministro degli Esteri, Ali Akbar Salehi, per promuovere “un’ampia discussione con gli USA”. Un invito, quello di Salehi, a cui l’ayatollah, pur senza mostrare ottimismo, non si sarebbe opposto.

Al di là del comunque importante esito delle elezioni presidenziali in Iran, la sensazione diffusa è che le sorti delle trattative sul nucleare che hanno occupato buona parte della campagna elettorale dipenderanno più che altro dall’atteggiamento che intenderà adottare Washington, da dove le ripetute aperture di Teheran nell’ultimo decennio sono state puntualmente respinte.

Sfruttando l’esclusione di candidati autorevoli da parte del Consiglio dei Guardiani e le misure per tenere sotto controllo il dissenso interno in vista del voto, l’amministrazione Obama ha infatti criticato apertamente il processo elettorale iraniano. Soprattutto, poi, il periodo di transizione in corso verso l’insediamento di un nuovo presidente continua ad essere caratterizzato dall’imposizione di nuovi pesanti sanzioni unilaterali da parte degli Stati Uniti, come il recente tentativo di impedire all’Iran di accedere al denaro generato dalle sue esportazioni depositato su conti bancari esteri.

Una nuova escalation di misure punitive, quella del governo USA, che conferma come l’obiettivo rimanga quello di utilizzare la questione del nucleare per giungere ad un cambio di regime a Teheran o, in alternativa, di concludere un accordo per risolvere la crisi ma secondo le proprie condizioni, riassumibili nella sottomissione dell’Iran agli interessi strategici americani, con il conseguente rischio di compromettere la natura stessa della Repubblica Islamica e la rimanente legittimità della sua classe dirigente agli occhi della popolazione.

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