La «transizione» consisterà non nella fine della guerra, ma nella sua
trasformazione in guerra «coperta», condotta con forze speciali e droni.
È
rientrata dall’Afghanistan la 53a «vittima» italiana, termine usato per
definire i militari Nato uccisi nelle operazioni belliche, non le
migliaia di vittime civili che la guerra continua a provocare. E mentre
si spettacolarizza il dolore dei familiari e le massime autorità dello
stato esprimono il solito «profondo cordoglio», il ministro della difesa
Mauro declama: «La libertà, la pace e la democrazia, a cui noi
contribuiamo in diversi teatri operativi nel mondo, hanno purtroppo un
prezzo e questa volta a pagarlo sono i nostri soldati».
Per ben
altri scopi sono in Afghanistan oltre 3mila soldati italiani (il quarto
maggiore contingente dopo quelli di Stati uniti, Gran Bretagna e
Germania). Sono là, sulla scia della strategia Usa, per occupare un
territorio che – situato al crocevia tra Asia centrale e meridionale,
occidentale e orientale – è di primaria importanza geostrategica
rispetto a Russia, Cina, Iran e Pakistan, e alle riserve energetiche del
Caspio e del Golfo. Sono là sotto comando Usa da quando la Nato ha
assunto nel 2003 con un colpo di mano (allora senza autorizzazione del
Consiglio di sicurezza) la «leadership dell’Isaf, forza con mandato
Onu».
Dopo aver speso nella guerra circa 1.200 miliardi di dollari
secondo il Pentagono (in realtà molti di più se si calcolano altre
spese, tra cui quelle per gli oltre 18mila militari Usa feriti), gli
Stati Uniti hanno deciso di ridurre dal 2014 il numero delle loro truppe
in Afghanistan da 68mila a circa 10mila. Riduzioni proporzionali sono
state annunciate per gli altri contingenti, compreso quello italiano.
Secondo quanto prevede il piano, un crescente ruolo sul campo dovrà
essere svolto dalle forze governative afghane addestrate, armate e di
fatto comandate da quelle Usa/Nato, che conserveranno le principali basi
in Afghanistan.
La «transizione» consisterà non nella fine della
guerra, ma nella sua trasformazione in guerra «coperta», condotta con
forze speciali e droni. Gli Usa hanno impegnato gli alleati a
contribuire alla formazione delle «forze di sicurezza afghane», già
costata oltre 60 miliardi di dollari. Le cose non vanno però tanto bene:
diversi soldati afghani, una volta addestrati, rivolgono le armi contro
gli addestratori.
Per la «transizione» la Nato deve quindi puntare
ancora di più sul governo afghano, ossia sul gruppo di potere che ha
insediato a Kabul. A tal fine sarà accresciuto il «fondo per la
ricostruzione», già costato oltre 20 miliardi. In tale quadro si
inserisce l’Accordo di partenariato firmato da Monti e Karzai, che
prevede crediti agevolati e altri investimenti italiani in Afghanistan
per centinaia di milioni di euro.
Questo fiume di denaro finirà in
gran parte nelle tasche di Hamid Karzai e dei suoi familiari, molti dei
quali hanno cittadinanza Usa. Continueranno così ad arricchirsi con i
miliardi della Nato (che escono anche dalle nostre tasche), gli affari
sottobanco con compagnie straniere, il traffico di droga. Non a caso
l’anno scorso l'Afghanistan
ha accresciuto del 18% le proprie piantagioni di oppio, il cui traffico è
gestito non solo dai taleban ma in primo luogo dalla cerchia
governativa.
Una inchiesta del New York Times conferma che, per
oltre un decennio, sono arrivate nell’ufficio del presidente Karzai,
tramite la Cia, «borse di denaro liquido» per
l’ammontare di decine di milioni di dollari. Niente scandalo: lo stesso
Karzai ha dichiarato di essere stato assicurato dalla Cia che
continuerà a ricevere «denaro
contante», parte del quale – precisa il New York Times – servirà a
«pagare l’élite politica, dominata dai signori della guerra».
di Manilo Dinucci, Il Manifesto 11 giugno 2013
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