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10/10/2013

Le altre mani nelle stragi “mafiose”

Ci sono anche i fascisti, la "doppia mano" per l'esplosivo, e Gladio al centro dell'interesse della Direzione Antimafia di Caltanissetta che ha riaperto il fascicolo della strage di Capaci per individuare responsabilità oltre quelle di Cosa Nostra. Alcuni di questi temi sono presenti in un libro della giornalista Stefania Limiti, “Doppio Livello”, edito da Chiarelettere, intervistata dall'agenzia Ansa. Qui di seguito il testo dell'intervista:

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L'ultimo capitolo del suo lavoro si chiama “False bandiere a Capaci”: cosa significa?
Ho tentato di ricostruire la strage in cui morì Giovanni Falcone attraverso documenti giudiziari, e la "sollecitazione" di un ex appartenente alla Gladio siciliana, individuando per quanto possibile il "doppio livello" di quell'attentato che ormai viene pienamente considerato uno degli episodi della lunga strategia della tensione che ha destabilizzato l'Italia. La ricostruzione mi porta a dire che a Capaci non c'erano solo gli uomini di Toto' Riina: quella è solo una "falsa bandiera". Altre presenze hanno garantito il pieno "successo" della strategia stragista, secondo un modulo usato anche in altre  tragiche vicende.

Quali sono gli elementi che "parlano" di altre presenze?
L'analisi degli esplosivi fatta a suo tempo dal pm Luca Tescaroli indicava già l'utilizzo di sostanze non compatibili con quelle usate dalla mafia. Non dobbiamo poi dimenticare che Toto' Riina aveva pianificato l'assassinio di Falcone a Roma ma qualcuno gli chiese di cambiare programma, occorreva la strage. Chi gli ha dato assicurazioni? Il vecchio capo non lo ha mai voluto dire, dovrebbe ammettere di essere stato "giocato" ma ha lasciato ben intendere che non hanno fatto tutto da soli. Il suo avvocato, Luca Cianferoni, come riporto nel libro,  dice che "la strage di Capaci è al 90 per cento di mafia, il resto lo hanno messo gli altri, per quella di via D'Amelio siamo al 50 e 50 per cento e per le stragi sul continente la percentuale scende vertiginosamente. Inoltre, c'è Pietro Rampulla: il mafioso di Mistretta è considerato l'artificiere del gruppo stragista ma non è lì quel giorno. Rampulla è cresciuto alla scuola di Ordine Nuovo".

Qual è il significato della nuova inchiesta?
Enorme, perché per la prima volta si potrebbe portare alla sbarra il "doppio livello" dello stragismo, quello che rimanda ai concorrenti esterni che sono sempre presenti quando una strage o un delitto politico, hanno un impatto sulla vita del paese e ne determinano il futuro".

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Il fascista Pietro Rampulla insieme all'avvocato Rosario Cattafi (che l'autorevole rivista “I Siciliani” indica come trat d'union tra servizi segreti e organizzazioni mafiose e testimone nell'indagine sulla trattativa tra Stato e mafia) erano due attivi neofascisti di Messina nei primi anni '70. Pietro Rampulla, viene chiamato “l’artificiere”, militante di Ordine Nuovo originario di Mistretta (Messina), viene ritenuto vicino alla cosca di Nitto Santapaola. Secondo le rivelazioni del pentito Giuseppe Brusca sarebbe lui l’uomo che procurò il telecomando usato nella strage di Capaci inviandolo allo stesso Brusca attraverso il boss Pippo Gullotti.

Se il libro della Limiti sembra voler scavare a fondo sulle stragi del '92 - '93 altre preoccupazioni stanno intanto affiorando su una nuova possibile stagione di sangue. I magistrati di Caltanissetta, partendo dalle indagini su una lettera anonima che lo scorso 26 marzo allertava la Procura di Palermo sulla possibile ripresa della linea stragista da parte di Cosa Nostra, e sulla nuova alleanza tra Totò Riina e i capi della Sacra Corona Unita, hanno passato al setaccio i colloqui del boss mafioso coi suoi familiari, puntando l'attenzione su una frase in particolare: "La Juve è una bomba". Una frase che i magistrati ritengono non pertinente al tema del colloquio, tanto più che Totò "u curtu" è tifoso del Milan. "In un altro colloquio - scrive Il Fatto Quotidiano - il Capo dei Capi avrebbe messo in guardia i suoi familiari: "State attenti" mentre in un altro colloquio afferma: "Difendetevi". Ma a mettere in allarme i magistrati è anche il fato che nel carcere milanese di Opera dove Riina è recluso dal 2003 in regime di 41 bis, tutti i soggetti messi ultimamente in socialità con lui sono appartenenti alla Sacra Corona Unita pugliese. Un link, quello tra i Riina e la Puglia che sembra confermato dal fatto che la figlia primogenita del boss, Maria Concetta, da tempo si è stabilita a San Pancrazio Salentino, dove anche la madre, Ninetta Bagarella, starebbe valutando di trasferirsi.

Sullo sfondo c'è il processo che si è aperto a Palermo sulla trattativa Stato-mafia che portò allo stop delle stragi eseguite nel '92 e '93, accollate interamente alla mafia e in particolare ai corleonesi ma che, come in qualche modo richiama il libro di Stefania Limiti, non sembrano poter essere liquidate come mere stragi di mafia. Se restano ancora moltissimi i punti da chiarire sulle connessioni nelle stragi con servizi segreti e neofascisti (che indubbiamente avevano parecchia esperienza in materia), il processo di Palermo dovrebbe portare alla luce non solo la trattativa Stato-mafia ma anche la materia di scambio nella trattativa, quegli “accordi indicibili” di cui parla il consigliere giuridico del Quirinale, D'Ambrosio, recentemente scomparso e finito nelle indagini che hanno portato all'apertura del processo di Palermo.

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