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03/04/2014

Su via Fani un’onda di dietrologia

Il documento che segue, pubblicato su Insorgenze, è stato redatto da Marco Clementi, docente di storia, autore di numerosi saggi tra cui "La pazzia di Aldo Moro" e "Storia delle Brigate Rosse", entrambi editi da Odradek e Paolo Persichetti, da giovane militante dell'"Unione comunisti combattenti", arrestato e condannato, poi esule in Francia, a sua volta docente a Paris VIII e infine "rapito" con una accordo sottobanco tra servizi italiani e francesi, nella più anomala "procedura di estradizione" che la storia ricordi.
Due persone dunque molto diverse per età, storia personale e presente professionale. In comune hanno soltanto l'esperienza della docenza universitaria e una conoscenza profonda - una scientifica, l'altra esperienziale - della realtà della guerriglia di sinistra nell'Italia degli anni '70-'80. Non basterà neppure questo ad ammutolire i fabbricanti di "misteri", lo sappiamo; ma ci fa naturalmente piacere poter condividere con altri la battaglia in difesa della "verità storica".
Nell'epoca dei falsari, ci sembra addirittura molto.

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Rapimento Moro, ma quali servizi sulla moto Honda di via Fani c’erano due giovani che abitavano nel quartiere

Sulla motocicletta Honda che la mattina del 16 marzo 1978 transitò in via Fani, pochi minuti prima che scattasse l’attacco delle Brigate rosse contro la scorta del presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro, non c’erano uomini del Sismi ma due giovani del quartiere. I loro nomi, come ha ricordato recentemente un articolo apparso su Contropiano, sono noti da tempo alla magistratura: identificati dalla Digos nella primavera del 1998 chiarirono la loro posizione davanti al pubblico ministero Antonio Marini.
Nonostante la circostanza fosse stata ampiamente chiarita 16 anni fa, non si è esitato a rilanciare sull’Ansa un nuovo depistaggio, partendo da una lettera anonima inviata al quotidiano la Stampa nel 2009 che indicava a cavallo della Honda due presunti agenti del Sismi, i servizi segreti militari, ovviamente deceduti nel frattempo. Pista archiviata nel 2009 dalle procure di Torino e Roma dopo che gli uffici della Digos ne avevano verificato l’inconsistenza.


Su via Fani un’onda di dietrologia
di Marco Clementi e Paolo Persichetti

Abitavano in via Stresa, a poche decine di metri dall’incrocio dove venne portata a termine l’azione più importante delle Brigate rosse. Giuseppe Biancucci aveva 23 anni e Roberta Angelotti 20, quella mattina stavano tornando a casa ignari di quel che stava accadendo, non avevano armi con loro e non facevano parte delle Brigate rosse anche se gravitavano in un’area politica contigua. Erano sulla moto che transitò pochi attimi prima dell’arrivo del convoglio di Moro che subì l’attaccato di un nucleo composto da dieci brigatisti. La motocicletta che passò improvvisamente sulla scena non c’entrava nulla con quell’azione, anzi, creò solo imbarazzo. Biancucci e Angelotti, conosciuti a Roma Nord come “Peppe e Peppa” erano due “compagni” che militavano nel “Comitato proletario di Primavalle Mario Salvi”, dal nome del “militante comunista combattente” ucciso nel 1976 con un colpo di pistola alle spalle da Domenico Velluto, guardia carceraria, alla fine di una manifestazione sotto il ministero della Giustizia.
La loro militanza politica è una circostanza decisiva perché spiega due cose: il comportamento tenuto una volta giunti all’incrocio tra via Fani e via Stresa e il loro successivo silenzio. Dettaglio non da poco, Biancucci e Angelotti vennero arrestati nella primavera successiva nel corso di una inchiesta condotta dai Carabinieri nella zona Nord della capitale contro l’Mpro, un’area che le Brigate rosse stavano tentando di creare al di fuori dell’organizzazione con l’intento di coinvolgere parte del “movimento”.
Come ha raccontato Contropiano, Giuseppe Biancucci conosceva molto bene due persone che erano in via Fani quella mattina: Valerio Morucci, uno degli “steward” che dietro la siepe del bar Olivetti attendevano la vettura di Moro e la sua scorta e Alessio Casimirri, uno dei componenti del “cancelletto superiore”. Con il primo aveva frequentato il liceo mentre con il secondo aveva condiviso la militanza nel comitato di Primavalle. Rallentò perché si accorse di loro, vide Morucci camuffato, capì che stava accadendo qualcosa di grosso, addirittura lo salutò con un cenno di mano e poi via a tutto gas verso casa. Quell’esitazione, gli sguardi di complicità scambiati con i vecchi compagni furono poi interpretati da alcuni testimoni oculari, alquanto confusi e contraddittori, come il segno di una complicità operativa che non ci fu.
La domanda giusta, allora, non è cosa stessero facendo Biancucci e Angelotti sotto casa sulla loro moto con targa regolare, ma perché non hanno mai parlato. Porsi una domanda giusta è il segreto per avere una risposta di qualche interesse. L’esatto opposto di quel che fa la dietrologia. Per la cronaca, Biancucci rientrava dal lavoro, smontava dal turno di notte nel garage del padre situato a poca distanza.
E forse non ha mai parlato, perché in via Fani aveva visto degli amici, perché magari era convinto che stessero facendo una cosa condivisibile, o semplicemente perché un “compagno” non fa la spia. Tempi diversi da quelli odierni.
A parlare ci pensarono poi altri, alcuni pentiti come Raimondo Etro che rientrato da una lunga latitanza all’inizio degli anni '90 per discolparsi dal sospetto di essere stato uno dei passeggeri della moto riferì l’episodio sentito raccontare dalla Algranati: «ad un certo punto sono passati i due cretini di Primavalle ed hanno anche fatto ciao ciao con la manina». Individuati dalla Digos, Biancucci e Angelotti vennero ascoltati nella primavera del 1998 dal magistrato che cercò di incastrarli su un’altra vicenda, quella del tentato omicidio di Domenico Velluto, l’assassino di Mario Salvi, e della morte del suo vicino di tavolo, Mario Amato, colpito per errore in una trattoria mentre festeggiava la scarcerazione. I due ammisero di essere passati per via Fani quella mattina ma con tutto il resto non c’entravano nulla. Successivamente, come ha riportato “Contropiano” la settimana scorsa, uno dei testimoni chiave di via Fani, l’ingegner Marini (citato sempre a sproposito) riconobbe addirittura lo stesso Biancucci, scomparso precocemente nel 2010, come il guidatore della moto.

Le considerazioni che questa storia suggerisce sono molte:

1) 16 anni fa la magistratura è pervenuta ad una ricostruzione della vicenda della moto di via Fani che si avvale di elementi probanti molto forti: la deposizione dei due motociclisti che hanno ammesso la circostanza, la plausibilità del loro racconto, la prossimità delle loro abitazioni con via Fani, il riconoscimento del testimone, il possesso della moto da parte del Biancucci compatibile temporalmente con i fatti, la testimonianza di uno dei brigatisti presenti in via Fani. Evidenze del tutto ignorate dal circo mediatico che ha rincorso uno scoop fondato su una lettera anonima farcita di contraddizioni. Possibile che nessuno sapesse dell’inchiesta del 1998? Che nessuno si sia ricordato?

2) La lettera anonima e il racconto dell’ex poliziotto in pensione, la stesura romanzata della vicenda facevano acqua da tutte le parti. Ci voleva molto poco per sentire puzza di marcio. L’autore dell’articolo scegliendo un registro narrativo vittimistico-persecutorio ha omesso di raccontare come le procure di Torino (pm Ausilio) e Roma (procuratore aggiunto Capaldo, a cui venne trasmesso il fascicolo per competenza), avessero fatto accertamenti escludendo l’attendibilità di quanto asserito in quella lettera ed inviando la pratica verso una inevitabile archiviazione (Cf. la copia delle lettera).

Si potevano evincere da subito due grossolane contraddizioni:

a) Stando al suo contenuto, l’anonimo autore del testo (dalla sintassi traballante) sarebbe il passeggero posteriore della motocicletta, quello che secondo uno dei testimoni più citati di via Fani – l’ingegner Marini – aveva un sottocasco scuro sul volto e soprattutto era armato con una piccola mitraglietta con cui avrebbe sparato ad altezza d’uomo (anche se i bossoli non sono mai stati trovati e l’esame balistico non conferma affatto l’episodio). Perché mai dunque la ricerca delle armi si è indirizzata solo sul guidatore (di cui si forniscono tracce nella missiva) che non aveva armi in mano? Ed a lui sarebbe stata trovata una improbabile pistola per nulla riconducibile ad una mitraglietta (vedi l’immagine qui sotto)?

b) Racconta l’ex poliziotto di aver trovato l’arma sospetta nella cantina del supposto guidatore, vicino ad una copia cellofanata della edizione straordinaria de La Repubblica del 16 marzo con il titolo “Moro rapito dalle Brigate Rosse”. Se non è un copione cinematografico poco ci manca. L’arma era una Drulov cecoslovacca, pistola sportiva monocolpo a gas compresso Co2, con canna molto lunga. Poco maneggevole, basta provarla per capire che va bene solo per il tiro a segno, da posizione immobile e con tempo prestabilito per la mira, inutilizzabile in un’azione come quella di via Fani, impensabile come arma in dotazione a corpi speciali.


3) Siamo ormai al terzo tentativo fallito di accreditare in pochi mesi nuove piste, rivelazioni e misteri, dopo la clamorosa defaillance dell’ex magistrato Imposimato, raggirato da un personaggio che si è finto teste chiave assumendo diverse personalità e nikname e per questo ora indagato dalla magistratura. Queste “rivelazioni” assumono rilevanza non per la loro veridicità intrinseca ma solo per l’enorme pressione mediatica che le sospinge e una volontà politica largamente condivisa, decisa a non seppellire il cadavere di Moro per perpetuarne l’uso strumentale nell’arena politica con una nuova commissione parlamentare d’inchiesta.

4) Quale è il significato ultimo di tanta dietrologia sul rapimento Moro? Estirpare da ogni ordine del pensabile l’idea stessa di rivoluzione. Sradicare quegli eventi dall’ordine del possibile. Negarne non solo la verità storica (su cui il dibattito resta, ovviamente, aperto), ma l’ipotesi stessa che possa essere avvenuta. Presentare, quindi, le rivoluzioni come eventi inutili, se non infidi, sempre e comunque manovrati dai poteri forti, in cui c’è sempre un grande vecchio che non si trova e una verità occulta che sfugge continuamente. Si è diffusa una sorta di malattia della conoscenza, una incapacità ontologica che impedisce di accettare non solo la possibilità ma la pensabilità stessa che dei gruppi sociali possano aver concepito e tentato di mettere in pratica una strada diretta al potere. La dietrologia e il cospirazionismo hanno come essenza filosofica il negazionismo della capacità del soggetto di agire, di pensare in piena autonomia secondo interessi legati alla propria condizione sociale, ideologica, politica, culturale, religiosa, di genere.
Infine, impedisce di vedere ciò che appare acclarato, talmente grande ed evidente, che finisce sempre per rimanere celato dalle “rivelazioni”: lo Stato, i partiti, assunsero durante i 55 giorni del rapimento Moro una posizione ben precisa. Non trattarono. Fu una legittima scelta politica che, però, conteneva in sé la potenzialità che Moro potesse venire ucciso. Si tratta di una responsabilità non da poco ma, lo ripetiamo, assolutamente legittima. In tale contesto, i servizi potevano logicamente servire a trovare Moro, o a controllare che non uscisse vivo dalla prigione del popolo? Più si insiste sulla seconda ipotesi, più sfugge il lato politico della vicenda. Più si preme il tasto della dietrologia, meno si ricordano le dichiarazioni quotidiane di quei giorni, per cui, come disse un alto esponente del Pci dopo la prima lettera a Cossiga, “per noi Moro è politicamente morto”.

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