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19/07/2018

Doppio standard sui Trattati commerciali. Il governo non alza il tiro su Bruxelles

Il ministro del Lavoro e vicepremier Di Maio ha adottato una linea piuttosto contraddittoria in materia di trattati commerciali europei.

Di Maio, nel corso della assemblea della Coldiretti aveva definito scellerato il CETA, il trattato di libero scambio tra Ue e Canada, aveva annunciato che il Parlamento non lo ratificherà e addirittura che sarebbero stati rimossi i funzionari dello Stato che sostengono il CETA.

Sul CETA quindi ha tenuto duro, “Se rimane così il governo italiano non lo ratificherà, se invece si vuole avviare un monitoraggio per correggerlo allora siamo disponibili” aggiungendo poi che: “Noi valutiamo il Ceta nel suo complesso. Il Canada sta esportando grano trattato col glifosato e le loro carni sono piene di ormoni. C’è un problema di salute e uno riguardante la parte più debole della filiera che verrebbe massacrata dal trattato. Il CETA così com’è non passa in Parlamento”.

Nel caso del CETA però, la ratificazione di un accordo commerciale, normalmente di stretta competenza degli organi europei (la politica commerciale non è decisa dagli stati nazionali), è stata devoluta ai parlamenti nazionali. Diversamente invece sta accadendo con il JEFTA (il trattato di scambio commerciale tra Unione Europea e Giappone) dove il parlamento nazionale non ha potere decisionale. Contano invece le decisioni politiche dei governi e l’orientamento del parlamento europeo.

Per non fare i conti con questo “dettaglio”, dopo qualche giorno lo stesso Di Maio ha infatti dato il via libera al JEFTA, dimostrando su questo come l’attuale governo sia in continuità con quelli precedenti. L’intesa sul JEFTA è stata firmata il 17 luglio scorso, dal presidente della Commissione Ue Jean-Claude Juncker e dal presidente del Consiglio europeo Donald Tusk da un lato e dal premier giapponese Shinzo Abe.

All’inizio l’accordo riguarderà principalmente i prodotti alimentari – carne, formaggi, vino e cioccolato – e automobili, con marchi come Toyota e Honda che, con ogni probabilità dovrebbero diffondersi ancora di più nel mercato europeo.

Il Jefta, così come il Ceta aprono la porta alla manomissione del controllo sulla qualità dei prodotti e alla liberalizzazione dei servizi, nonché ad un ulteriore colpo ai diritti dei lavoratori e delle lavoratrici e alla economia delle piccole imprese. Altro che prima gli italiani qui siamo a prima le multinazionali!

L’Intergruppo Parlamentare No CETA, costituitosi già nella scorsa legislatura e composto da deputati e senatori di tutti gli schieramenti, ha chiesto pubblicamente a Di Maio, di far sospendere la firma del Trattato UE-Giappone (JEFTA) e di riferire in Parlamento su un via libera rilasciato senza adeguata consultazione. La Campagna Stop TTIP/Stop CETA si è associata alla richiesta e rilancia la proposta di un incontro con il Ministro per ribadire le proprie preoccupazioni sugli effetti a catena di una eventuale approvazione del JEFTA.

In base al Jefta, il Giappone cancellerà le tariffe su formaggi europei come Gouda e Cheddar (oggi al 29,8%), ma anche quelle sul vino, attualmente soggetto a dazi medi del 15%.

Abolite anche le tariffe sulla carne di maiale (quella processata, su quella fresca si prevede una riduzione dei dazi), mentre quelle sulla carne bovina scenderanno dall’attuale 38,5% al 9%, nel corso di 15 anni. Secondo i calcoli di Bruxelles, l’export di carne e formaggio verso il Giappone dovrebbe salire in futuro del 170-180 per cento, per un valore complessivo di 10 miliardi di euro.

Niente dazi nemmeno su sostanze chimiche, materie plastiche, tessili e cosmetici. Per le calzature invece l’imposizione calerà dal 30% al 21% subito, per poi arrivare alla definitiva soppressione nell’arco di un decennio. Nello stesso arco di tempo infine, verranno cancellati i dazi sui prodotti in cuoio.

Questa vicenda dei trattati commerciali si presta a numerose considerazioni sugli interessi in gioco e le forze in campo in quella che abbiamo definito la competizione globale.

1) In primo luogo questi trattati continuano a reggersi e ad alimentare il dominio del liberscambismo nelle relazioni commerciali. In pratica a blindare la cornice legale per lo strapotere delle multinazionali. Per imporre questa filosofia ultraliberista, si evoca sempre e subito lo spettro del protezionismo come rischio opposto. Non è così. La difesa del mercato interno (sia in termini di produzione che di salari e consumi) non è un orrore economico, anzi è un presupposto per relazioni commerciali internazionali più equilibrate e meno esposte allo strapotere dei più forti, in particolari delle multinazionali.

2) Le oligarchie europee che spingono per la firma dei trattati commerciali con il Canada (CETA) o con il Giappone (JEFTA), la condiscono come una sfida al protezionismo di Trump che ha avviato i dazi contro l’Unione Europea e, come prevedibile, mandato in soffitta il TTIP (il trattato commerciale tra Usa e Ue). Quindi li usano come una leva della competizione globale e non certo per la tutela del mercato interno e delle condizioni di lavoratori, consumatori, piccole imprese strangolate dalla concentrazione intorno ai grandi gruppi multinazionali.

3) Viene dato per scontato il fallace presupposto che “dentro l’Unione Europea” tutti traggano vantaggio allo stesso modo dei benefici del libero scambio, in questo caso con Canada e Giappone. I fatti dicono che non è così. Se è vero che l’euro è la moneta comune europea, è anche vero che dentro l’Eurozona la divisione del lavoro sta arricchendo alcuni (es. la Germania e le sue multinazionali) e impoverendo altri (i paesi Piigs ad esempio). Al contrario, proprio il libero scambio con altre aree rispecchia e rispetta perfettamente questa gerarchia interna all’eurozona. E’ evidente che i lavoratori e i consumatori in paesi come l’Italia, la Spagna o la Grecia abbiano tutto da rimetterci.

Conclusione: è meglio non sottoscrivere i trattati commerciali fondati sul libero scambio, né con il Giappone né con il Canada o gli Usa. Ma è meglio ancora far saltare la gabbia dell’eurozona per riscrivere completamente le relazioni economiche e internazionali del nostro e degli altri paesi “colonizzati” o fondatori che siano dell’Unione Europea.

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