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11/07/2018

Guerra commerciale e austerità

Negli ultimi tempi, si fa un gran parlare di “guerra dei dazi” tra Stati Uniti e Unione Europea. Si tratta, come cercheremo di argomentare, di un capolavoro di retorica che vale la pena analizzare, punto per punto, in tutte le sue sfaccettature. Prima però di addentrarci nei singoli argomenti, facciamo un passo indietro: cos’è un dazio? Dal punto di vista di un Paese che voglia limitare le importazioni, esso è una barriera al commercio internazionale che si manifesta sotto forma di una tassa pagata dalle imprese estere (e riscossa dallo Stato) in percentuale al valore del prodotto che vendono in quel paese. Occorre precisare che tali misure non riguardano direttamente specifici paesi – non sono dazi imposti sulla provenienza del bene commerciato – ma li colpiscono indirettamente. Esse, infatti, vengono applicate su quelle merci che tali paesi esportano in grande quantità nel paese che impone il dazio.

Vediamo come funziona concretamente un dazio: supponiamo che l’Unione Europea inizi ad applicare un dazio del 5% sulle importazioni di ghisa e che il valore venduto, all’interno dell’Unione, da un’impresa straniera sia pari a 100 euro. Ciò significa che l’importo del dazio è pari a 5 euro. L’impresa straniera può decidere di reagire all’imposizione del dazio con tre modalità: decidere di pagare interamente il dazio senza farne ricadere le conseguenze sul compratore, ossia senza modificare il prezzo di vendita (rinunciando, in questo modo, a una parte dei profitti); decidere di aumentare il prezzo del bene per far sì che il dazio venga pagato interamente dal compratore (nel nostro caso, il prezzo aumenterebbe di 5 euro e l’esportatore perderebbe competitività rispetto alle imprese che operano senza l’imposizione di dazi); scegliere una posizione intermedia in cui sia venditore che compratore contribuiscono al pagamento del dazio (nel nostro caso, il prezzo aumenterebbe in misura minore di 5 euro).

Ora che abbiamo chiarito quale impatto può avere un dazio sulle imprese straniere, possiamo riprendere il discorso sulla “guerra dei dazi” tra Stati Uniti ed Unione Europea.

A marzo, Trump firmò la legge con la quale venivano introdotti dazi sulle importazioni di acciaio (25%) e di alluminio (10%) colpendo duramente la Cina – che a sua volta ha risposto prontamente con l’imposizione di dazi sull’importazione di alcuni prodotti, come la soia, che provengono principalmente dagli Stati Uniti – ma esentando temporaneamente l’Unione Europea dall’applicazione di questa misura. In pratica gli Stati Uniti sembravano voler colpire solo la Cina, tenendo esplicitamente fuori l’Unione Europea da questi primi fuochi della guerra dei dazi.

L’esenzione nei confronti dell’UE, che inizialmente doveva terminare alla fine di aprile, è stata estesa fino al mese di maggio ma ciò ovviamente non è bastato a placare gli animi dell’industria europea. Immediata infatti è stata la reazione di Juncker, presidente della commissione UE, che – dopo aver minacciato “reazioni dure” per una eventuale misura protezionistica degli Stati Uniti – ha rilanciato rinnovando l’appello affinché questa temporanea esenzione dai dazi diventasse permanente per l’Unione Europea.

Si noti che la difesa del libero mercato non è mai una bandiera di principio: l’Europa non si sogna neppure di criticare i dazi americani contro la Cina, dai quali potrebbe addirittura trarre profitto, ma si preoccupa solo di implorare agli Stati Uniti l’esenzione per le merci europee.

All’inizio della guerra dei dazi tra USA e Cina, infatti, l’Unione Europea si sfregava le mani in quanto questo avrebbe permesso alle imprese dei paesi membri della UE di aumentare le esportazioni sia negli Stati Uniti sia in Cina, per un valore stimato tra i 4 e i 7 miliardi di euro nei prossimi due anni. La maggior parte di questo introito sarebbe arrivato proprio dagli Stati Uniti, dove è diretta la quota maggiore di esportazioni europee.

Sebbene dunque predichi il libero commercio, l’Unione Europea non avrebbe detto una parola se i dazi avessero colpito solamente la Cina: essa agita il vessillo del libero mercato solo quando ci guadagna o vede minacciati i suoi interessi. Durante il periodo 2008-2016, che ad eccezione del primo anno ricade sotto l’amministrazione Obama (2009-2017), sono state introdotte 1.084 misure – circa un quarto delle misure prese complessivamente in tutto il mondo – nel paese a stelle e strisce, che di fatto è la nazione con il maggior numero di provvedimenti che limitano il libero scambio. Tuttavia, solamente di recente tali iniziative hanno suscitato l’interesse, o meglio il risentimento, dell’Unione Europea. Il motivo sta nel fatto che i provvedimenti recenti colpiscono in misura sensibile le imprese europee, cosa che non avveniva nelle precedenti misure protezionistiche.

Qui entriamo nel campo della retorica o, per meglio dire, della propaganda. Nel corso degli ultimi trent’anni, è diventato un mantra l’espressione “the freer, the better”: più è libero (il mercato) e meglio è. Tuttavia resta da capire chi effettivamente ci guadagna dal libero mercato. Innanzitutto, ogni qualvolta si parla di processi di liberalizzazione di un mercato, si sta in realtà parlando della sua deregolamentazione. Questa dinamica, per la quale le regole sono un problema e vanno rimosse per lasciar fluire il mercato, vale tanto all’interno dei confini nazionali quanto all’esterno. In questo senso, non sorprende come all’interno di un impianto estremamente liberista, quale l’Unione Europea, le misure protezionistiche vengano declinate come “guerra dei dazi”.

Ma è sempre stato così? L’avversione alla regolamentazione è connaturata agli scambi internazionali? Senz’altro, no: negli anni in cui vigeva il sistema di Bretton Woods, dal secondo dopo guerra al 1971, il commercio internazionale era regolamentato da molte misure (come i dazi) che proteggevano alcuni settori strategici dei Paesi membri ma nessuno avrebbe mai pensato di definire quelle politiche come una minaccia, o peggio ancora una guerra. Una valida spiegazione di ciò la si può trovare nel fatto che i singoli Paesi perseguivano politiche di pieno impiego attraverso il sostegno alla domanda interna, che costituiva a sua volta una premessa per lo sviluppo del commercio internazionale.

L’allontanamento dei principi keynesiani dai menù di politica economica negli Stati Uniti e nei Paesi più sviluppati, dalla fine degli anni ’70, ha trasformato la visione del commercio internazionale. Prima, esso era visto come un frutto dello sviluppo. Oggi, in un mondo in cui il liberismo regna sovrano e il sostegno alla domanda attraverso un ruolo attivo dello Stato è un tabù, il commercio internazionale diventa strumento di un modello di crescita trainato dalle esportazioni. Ciò significa che le imprese dei paesi membri dell’Unione Europea ora sono costrette a gettarsi sui mercati internazionali per poter vendere i loro prodotti, data la scarsa domanda interna causata dalle politiche di austerità. Questo spiega perché l’imposizione dei dazi preoccupa, con dovute ragioni, le imprese che vedono ridotta la domanda rivolta verso i loro prodotti. Se la domanda interna è bassa, per stupidi dogmi neoliberisti ed una distribuzione del reddito sbilanciata a favore dei capitalisti, le esportazioni diventano fondamentali per le sorti delle imprese.

Ma qual è, in concreto, la conseguenza di tutto ciò sulle condizioni dei lavoratori? È una corsa selvaggia al taglio dei costi di produzione, in particolare dei salari, per inseguire la competitività. E gli strumenti utilizzati per ottenere questo risultato sono tristemente noti: austerità e deregolamentazione del mercato del lavoro (si veda il caso della Germania nel contesto europeo). Tutto ciò smonta la retorica dei benefici del commercio internazionale e svela la natura di classe della progressiva liberalizzazione degli scambi. Ciò, non significa, però, che qualsiasi restrizione del commercio internazionale possa avere conseguenze benefiche sulle condizioni dei lavoratori. Come molti strumenti di politica economica, anche i dazi possono essere utilizzati per favorire una o l’altra classe. Ci occuperemo di questo argomento in separata sede.

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