Una acuta analisi storica
del neoliberismo traccia le tappe dell’affermazione di questa teoria
economica elitistica, che contro ogni logica sostiene politiche
rivelatesi disastrose. Godendo, nonostante questo, di uno status
privilegiato nel dibattito scientifico, al punto che i suoi esponenti
ormai lo considerano l’unico approccio legittimo. Il neoliberismo non è
sempre stato l’unico modo di concepire la realtà: la sua prepotente
affermazione è in realtà il frutto di deliberate scelte politiche da
parte di specifiche classi sociali. Oggi è sempre più evidente che le
ripetute, insensate politiche di austerità, il sottosviluppo perenne dei
paesi periferici del mondo, e le crisi che investono l’umanità come
disoccupazione, emergenze sanitarie e crisi migratorie, sono
direttamente o indirettamente correlate alle politiche neoliberiste. E
allora, come si spiega questa prevalenza, e in che modo è possibile
cambiare prospettiva?
di Jason Hickel, 9 aprile 2012
Come docente universitario trovo spesso che i miei studenti danno per
scontata l’ideologia economica dominante odierna – il neoliberismo –
come naturale e inevitabile. Ciò non sorprende, dato che molti di loro
sono nati nei primi anni ’90, quindi il neoliberismo è l’unica cosa che
hanno conosciuto. Negli anni ’80, Margaret Thatcher dovette darsi da
fare per convincere la gente che “non c’era alcuna alternativa” al
neoliberalismo. Ma oggi questa convinzione è già radicata; è nell’aria,
parte del corredo pratico della vita quotidiana, e generalmente
accettata come dato di fatto sia a destra che a sinistra. Ma non è
sempre stato così. Il neoliberismo ha una storia specifica, e conoscerla
è un importante antidoto alla sua egemonia, poiché dimostra che
l’ordine presente non è naturale né inevitabile, ma che è invece
recente, che ha un’origine precisa e che è stato progettato da persone
particolari con interessi particolari.
Per la maggior parte del XX secolo, le politiche di base che
costituiscono l’ideologia economica oggi ritenuta standard sarebbero
state respinte come assurde. Politiche simili erano state sperimentate
in passato con effetti disastrosi, e la maggior parte degli economisti
era passata ad abbracciare il pensiero keynesiano o qualche forma di
socialdemocrazia. Come scrive Susan George,
“L’idea che il mercato debba essere autorizzato a prendere importanti
decisioni politiche e sociali; l’idea che lo Stato debba ridurre
volontariamente il proprio ruolo nell’economia, o che le imprese debbano
avere una totale libertà, che i sindacati debbano essere tenuti a bada e
che ai cittadini debba essere concessa una minore, e non maggiore,
protezione sociale – queste idee erano del tutto estranee allo spirito
del tempo”.
E allora, come sono cambiate le cose? Da dove viene il neoliberismo? I
paragrafi seguenti offrono un semplice schema della traiettoria storica
che ci ha portato dove siamo oggi. Si dimostra come la politica
neoliberista sia direttamente responsabile del declino della crescita
economica e dell’aumento rapido dei tassi di disuguaglianza sociale –
sia in Occidente che a livello internazionale – e vengono avanzate
alcune idee su come affrontare questi problemi.
Il neoliberismo nel contesto occidentale
La storia inizia con la Grande Crisi degli anni ’30, che fu una
conseguenza di ciò che gli economisti chiamano una “crisi di
sovrapproduzione”. Il capitalismo si era sviluppato aumentando la
produttività e diminuendo i salari, ma ciò generò profonde
disuguaglianze, erose progressivamente la capacità di consumo delle
persone e creò un eccesso di beni che non riuscivano a trovare un
mercato. Per risolvere queste crisi e prevenirle in futuro, gli
economisti del tempo – guidati da John Maynard Keynes – suggerirono che
lo stato avrebbe dovuto impegnarsi nella regolamentazione del
capitalismo. La tesi era che abbassando la disoccupazione, aumentando i
salari e stimolando la domanda di beni da parte dei consumatori, lo
stato poteva garantire una crescita economica continua e un benessere
sociale – una sorta di compromesso di classe tra capitale e lavoro – che
avrebbe impedito ulteriori volatilità.
Questo modello economico è noto come “embedded liberalism” – una
forma di capitalismo incorporato nella società, limitato da opzioni
politiche e finalizzato al benessere sociale. Si trattava di garantire
un salario familiare dignitoso in cambio di una forza lavoro docile e
produttiva, fornendo alla classe media i mezzi per consumare beni
essenziali di produzione industriale. Questi principi furono ampiamente
applicati dopo la seconda guerra mondiale negli Stati Uniti e in Europa.
I politici pensavano che applicando i principi keynesiani si potessero
garantire stabilità economica e benessere sociale in tutto il mondo, e
quindi prevenire un’altra guerra mondiale. Furono a tale scopo create le
istituzioni di Bretton Woods (che in seguito sarebbero diventate la
Banca mondiale, il Fondo monetario internazionale e l’Organizzazione
mondiale del commercio), al fine di risolvere i problemi di bilancia dei
pagamenti e promuovere la ricostruzione e lo sviluppo di un’Europa
lacerata dalla guerra.
Il liberalismo incorporato portò alti tassi di crescita negli anni
’50 e ’60 – soprattutto nell’Occidente industrializzato, ma anche in
molte nazioni postcoloniali. All’inizio degli anni ’70, tuttavia, il
liberalismo incorporato si trovò davanti ad una situazione di
“stagflazione”, ossia una combinazione di alta inflazione e stagnazione
economica. Negli Stati Uniti e in Europa i tassi di inflazione salirono
da circa il 3% nel 1965 a circa il 12% dieci anni dopo. Gli economisti
hanno dibattuto sulle ragioni della stagflazione durante questo periodo.
Studiosi progressisti come Paul Krugman
indicano due fattori. In primo luogo, l’alto costo della guerra del
Vietnam lasciò gli Stati Uniti con un deficit di bilancia dei pagamenti –
il primo del XX secolo – al punto che gli investitori internazionali,
preoccupati, iniziarono a liberarsi dei loro dollari, il che aumentò i
tassi di inflazione. Nixon aggravò l’inflazione quando, nel disperato
tentativo di coprire gli esorbitanti costi della guerra, sganciò il
dollaro dal gold standard nel 1971: il prezzo dell’oro salì alle stelle
mentre il valore del dollaro crollava. In secondo luogo, la crisi
petrolifera del 1973 fece salire i prezzi e rallentare la produzione e
la crescita economica, portando a una stagnazione. Ma gli studiosi
conservatori rifiutano queste ragioni. Preferiscono invece la
spiegazione che vede la stagflazione come una conseguenza delle onerose
tasse sui ricchi e dell’eccessiva regolamentazione economica, e
sostengono che questa è l’inevitabile fine del liberalismo incorporato,
giustificando così la demolizione dell’intero sistema.
All’epoca, quest’ultima argomentazione venne accolta con favore dai
ricchi, che – secondo David Harvey [1] – stavano cercando un modo per
ripristinare il loro potere di classe dopo il liberalismo incorporato.
Negli Stati Uniti, la quota del reddito nazionale percepita dall’1% più
ricco era scesa dal 16% all’8% durante i primi decenni del dopoguerra.
Fintanto che la crescita economica rimaneva elevata, ciò non li
danneggiò molto, perché ottenevano una fetta ancora molto grande di una
torta che continuava a crescere rapidamente. Ma quando la crescita si
fermò e l’inflazione esplose, negli anni ’70, la loro ricchezza iniziò a
diminuire in modo molto più evidente. Come reazione, cercarono non
solo di invertire gli effetti della stagflazione sul loro reddito, ma
anche di sfruttare la crisi come scusa per smantellare lo stesso
liberalismo incorporato.
La soluzione si è presentata sotto la forma del “Volcker Shock”. Paul
Volcker divenne presidente della Federal Reserve degli Stati Uniti nel
1979, nominato dal presidente Carter. Seguendo le raccomandazioni di
economisti della Scuola di Chicago, come Milton Friedman, Volcker
sosteneva che l’unico modo per fermare la crisi fosse calmare
l’inflazione innalzando i tassi di interesse. L’idea era di limitare la
disponibilità di denaro, incentivare il risparmio e quindi aumentare il
valore della valuta. Quando Reagan subentrò a Carter, nel 1981, Volcker venne
riconfermato per continuare ad aumentare i tassi di interesse fino al
20%. Ciò provocò una massiccia recessione, tassi di disoccupazione
superiori al 10% e di conseguenza decimò il potere dei sindacati, che –
nel sistema del liberalismo incorporato – era stato il contrappeso
cruciale agli eccessi capitalisti che avevano portato alla Grande Crisi degli anni '30.
Il Volcker Shock ebbe effetti devastanti sulla classe lavoratrice; ma
fu efficiente per far scendere l’inflazione.
Se la politica monetaria del rigore (cioè, mirata alla bassa
inflazione) fu la prima componente del neoliberismo a essere messa in
atto nei primi anni ’80, la seconda fu la teoria economica dal lato
dell’offerta. Reagan riteneva che dare più soldi a chi era già ricco
fosse un modo per stimolare la crescita economica, partendo dall’ipotesi
che li avrebbero investiti in maggiore capacità produttiva, creando
così profitti che sarebbero gradualmente “gocciolati” verso il resto
della società (che non aveva lavoro, come vedremo). A tal fine, diminuì
l’aliquota d’imposta marginale superiore dal 70% al 28% e ridusse
l’imposta più alta sui capitali al 20%, il livello più basso dalla
Grande Depressione. Un effetto meno noto correlato a questi tagli è che
Reagan ha anche aumentato le tasse sui salari della classe
lavoratrice, spostandosi verso l’obiettivo repubblicano di una “flat
tax” generalizzata. Un terzo componente del piano economico di Reagan
consisteva nel deregolamentare il settore finanziario. Poiché Volcker
rifiutava di sostenere questa politica, Reagan nominò al suo posto Alan
Greenspan nel 1987. Greenspan – un monetarista fautore di tagli fiscali e
della privatizzazione della sicurezza sociale – è stato riconfermato da
una serie di presidenti sia repubblicani sia democratici fino
al 2006. La deregolamentazione da lui avviata ha finito per scatenare la
crisi finanziaria globale del 2008, durante la quale a milioni di
persone sono state pignorate le case.[2]
Nel complesso, queste politiche (che durante lo stesso periodo
venivano simmetricamente applicate da Margaret Thatcher in Gran
Bretagna, insieme alle privatizzazioni selvagge) hanno portato la
disuguaglianza sociale negli Stati Uniti a livelli senza precedenti,
come dimostrano i seguenti grafici. Il grafico 1 mostra come la
produttività abbia continuato ad aumentare costantemente durante questo
periodo mentre i salari sono crollati dopo il Volcker Shock del 1979,
spostando effettivamente una percentuale crescente di plusvalore dai
lavoratori al capitale. Illustrando ulteriormente questa tendenza, gli
stipendi dei CEO sono aumentati in media del 400% durante gli anni ’90,
mentre i salari dei lavoratori sono aumentati di meno del 5% e il
salario minimo federale è diminuito di oltre il 9%[3]. Il
grafico 2 mostra come la quota del reddito nazionale accaparrata dagli
strati più alti della società sia aumentata a un ritmo allarmante: la
quota che va all’1% superiore è più che raddoppiata dal 1980, dall’8% al
18% (lo stesso vale per la Gran Bretagna, con un balzo dal 6,5% al
13% durante questo periodo), ripristinando livelli che non si vedevano
dall’epoca vittoriana. Secondo i dati del censimento, il 5% più ricco
delle famiglie americane ha visto aumentare i propri redditi del 72,7%
dal 1980, mentre contemporaneamente i redditi medi delle famiglie
ristagnavano e per il 20% inferiore i redditi diminuivano del 7,4% [4].
Figura 1. L’attacco al lavoro: salari reali e produttività negli Stati Uniti, 1960-2000
Fonte: R. Pollin, Contours of Descent (New York, Verso, 2005).
Figura 2. Quota del reddito nazionale, 1979-2008
Fonte: Mother Jones Magazine, basata sui dati del censimento degli Stati Uniti
Altro che effetto cascata;
come ha giustamente affermato l’economista di Cambridge Ha-Joon Chang,
“rendere più ricchi i ricchi non rende più ricco il resto di tutti noi”.
Né stimola la crescita economica, che è l’unica giustificazione per le
politiche economiche dal lato dell’offerta. In realtà, è vero il
contrario: dall’inizio del neoliberalismo, il tasso di crescita medio
pro capite dei paesi industrializzati è sceso dal 3,2% al
2,1%.[5] Come mostrano questi numeri, il neoliberismo ha completamente
fallito come strumento di sviluppo economico, ma ha funzionato
brillantemente come espediente per ripristinare il potere della ricca
élite.
Se la politica neoliberista è stata così distruttiva per la maggior
parte della società, com’è possibile che i politici siano riusciti a
farla passare? In parte ciò ha a che fare con la disfatta delle
organizzazioni dei lavoratori dopo il Volcker Shock, la demonizzazione
dei sindacati come “soffocanti” e “burocratici”, i tentativi della
sinistra di prendere le distanze dal socialismo dopo il crollo
dell’Unione Sovietica, e l’ascesa del “consumatore” come figura chiave
della cittadinanza, particolarmente in America. Potremmo anche indicare
la crescente influenza delle lobby corporative nel sistema politico
statunitense e i conflitti di interesse
recentemente venuti alla luce tra gli economisti accademici finanziati
da Wall Street. Ma forse, cosa più importante, a livello ideologico il
neoliberismo è stato commercializzato con successo attraverso il tipico
valore americano della “libertà individuale”[6]. Think-tank conservatori
come la Mont Pelerin Society, la Heritage Foundation e la Business
Roundtable hanno dedicato gli ultimi quarant’anni della propria attività a spacciare l’idea che
la libertà individuale possa essere realmente raggiunta solo attraverso
la “libertà” del mercato. Per loro, qualsiasi forma di intervento
statale può condurre al totalitarismo. Questa visione ha acquisito
credito quando le due icone della teoria neoliberista – Frederich Von
Hayek e Milton Friedman – hanno vinto il Premio Sveriges Riksbank negli
anni ’70, un premio comunemente indicato come “il Premio Nobel per
l’Economia”, nonostante sia in realtà assegnato da banchieri svedesi e
non dalla Fondazione Nobel.
Il Neoliberismo sulla scena internazionale
Non solo i paesi occidentali come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna
hanno sperimentato il neoliberismo nelle proprie economie, ma lo hanno
anche aggressivamente – e spesso violentemente – imposto al mondo
post-coloniale, addirittura in modo ancora più estremo.
La storia del neoliberismo sulla scena internazionale inizia nel
1973. In risposta all’embargo petrolifero dell’OPEC di quell’anno, gli
Stati Uniti minacciarono un’azione militare contro gli Stati arabi a
meno che questi non accettassero di investire i loro petrodollari
eccedenti attraverso le banche di investimento di Wall Street, cosa poi
avvenuta. Le banche dovettero quindi capire cosa fare con tutto questo
denaro e, dal momento che l’economia nazionale era stagnante, decisero
di spenderlo all’estero sotto forma di prestiti ad alto interesse ai
Paesi in via di sviluppo, che avevano bisogno di fondi per superare lo
shock dell’aumento dei prezzi del petrolio, soprattutto in
considerazione degli alti tassi di inflazione del tempo. Le banche
pensarono che si trattasse di un investimento sicuro perché presumevano
che i governi non potessero fallire.
Ma si sbagliavano. Poiché i prestiti erano effettuati in dollari
statunitensi, erano per questo vincolati alle fluttuazioni dei tassi di
interesse statunitensi. Quando nei primi anni ’80 il Volcker Shock
esplose e i tassi di interesse salirono alle stelle, i Paesi in via di
sviluppo più vulnerabili – a cominciare dal Messico – scivolarono
sull’orlo del default, dando il via alla cosiddetta “crisi del debito del Terzo mondo”.
Sembrava che la crisi del debito avrebbe distrutto le banche di Wall
Street e quindi minato l’intero sistema finanziario internazionale. Per
prevenire una simile crisi, gli Stati Uniti sono intervenuti per mettere
il Messico e altri Paesi in condizione di rimborsare i loro prestiti.
Lo hanno fatto riproponendo il FMI. In passato, il FMI aveva utilizzato i
propri fondi per aiutare i paesi a risolvere i problemi della bilancia
dei pagamenti, ma ora gli Stati Uniti avrebbero usato il FMI per
assicurarsi che i paesi del Terzo mondo rimborsassero i loro prestiti
alle banche di investimento private. Secondo David Harvey, durante
questo stesso periodo – a partire dal 1982 – le istituzioni di Bretton
Woods furono sistematicamente “epurate” dalle influenze keynesiane e
divennero portavoce dell’ideologia neoliberista.
Il piano avrebbe dovuto funzionare così: il FMI offriva di differire i
debiti dei Paesi in via di sviluppo a condizione che questi
accettassero una serie di “programmi di riforme strutturali”. Le riforme
strutturali promuovevano una radicale deregolamentazione del mercato,
partendo dal presupposto che ciò dovesse automaticamente migliorare
l’efficienza economica, aumentare la crescita economica e consentire
quindi il rimborso del debito. Per far ciò venivano tagliati i sussidi
governativi per aspetti come alimentazione, sanità e trasporti,
privatizzato il settore pubblico, ridotte le norme sul lavoro, l’uso
delle risorse e l’inquinamento ed abbassate le tariffe commerciali al
fine di creare “opportunità di investimento” e aprire nuovi mercati di
consumo. Inoltre si mirava a mantenere bassa l’inflazione in modo che il
valore del debito del terzo mondo verso il FMI non diminuisse, anche se
ciò riduceva la capacità dei governi di stimolare la crescita. Molte di
queste politiche erano specificamente progettate per promuovere gli
interessi delle multinazionali, alle quali era spesso data la libertà di
acquistare beni pubblici, fare offerte per i contratti governativi e
rimpatriare i profitti a proprio piacimento.
Questi stessi principi neoliberisti erano imposti ai paesi in via di
sviluppo attraverso la Banca Mondiale, che concedeva prestiti per
progetti di sviluppo vincolati da “condizionalità” economiche, tra le
quali una liberalizzazione forzata del mercato (in particolare durante
gli anni ’80). In altre parole, il FMI e la Banca Mondiale sfruttarono
il debito come strumento per manipolare le economie di Stati sovrani.
Anche l’Organizzazione mondiale del commercio – insieme a vari accordi
bilaterali di libero scambio, come il NAFTA – promuove il neoliberismo,
concedendo ai paesi in via di sviluppo l’accesso ai mercati occidentali
solo in cambio di riduzioni tariffarie, che hanno l’effetto di
indebolire l’industria locale nei paesi poveri. Nessuna di queste
istituzioni è democratica. Il potere di voto nel FMI e nella Banca
Mondiale viene ripartito in base alla quota di proprietà finanziaria di
ogni nazione, proprio come nelle corporazioni. Le decisioni importanti
richiedono l’85% dei voti, e gli Stati Uniti, che detengono circa il 17%
delle azioni di entrambe le società, esercitano di fatto il potere di
veto. Nell’OMC, le dimensioni del mercato determinano il potere
contrattuale, e quindi i Paesi ricchi riescono sempre a imporre la loro
opinione. Se i Paesi poveri scelgono di disobbedire alle regole del
commercio che danneggiano le loro economie, i Paesi ricchi possono
reagire con pesanti sanzioni.
L’effetto finale di questa fase neoliberale della globalizzazione è
stato una corsa al ribasso: poiché le multinazionali possono governare
il mondo alla ricerca delle “migliori” condizioni di investimento, i
Paesi in via di sviluppo devono competere tra loro per offrire il lavoro
più economico e risorse, spesso al punto di concedere vacanze fiscali
prolungate e ingressi gratuiti agli investitori stranieri. Tutto questo
ha portato fantastici profitti alle multinazionali occidentali (e ora
cinesi). Ma invece di aiutare i Paesi poveri, come inizialmente
si prefiggevano, le politiche neoliberali di aggiustamento strutturale
li hanno praticamente distrutti. Prima degli anni ’80, i Paesi in via di
sviluppo avevano un tasso di crescita pro capite superiore al 3%. Ma
durante l’era neoliberista i tassi di crescita si sono dimezzati,
scendendo all’1,7%[7]. L’Africa sub-sahariana illustra bene questa
tendenza al ribasso. Durante gli anni ’60 e ’70, il reddito pro capite è
cresciuto ad un tasso modesto dell’1,6%. Ma quando la terapia
neoliberale fu forzatamente applicata al continente, a partire dal
Senegal nel 1979, il reddito pro capite cominciò a scendere ad un tasso dello 0,7% all’anno. Il PNL del paese africano medio si è ridotto
di circa il 10% durante il periodo neoliberale dell’adeguamento
strutturale [8]. Di conseguenza, il numero di africani che vivono nella
povertà è più che raddoppiato dal 1980[9]. Il grafico 3 illustra come la
stessa cosa sia accaduta in America Latina. L’ex-economista della Banca
mondiale William Easterly ha dimostrato che più prestiti di
aggiustamento strutturale vengono ricevuti da un Paese, più è probabile
che la sua economia subisca un collasso[10].
Figura 3. Indice del reddito pro-capite in America Latina: effettivo e tendenziale 1950-2003
Fonte: W. Easterly, The White Man’s Burden (Londra, Penguin, 2006).
Quanto è successo non dovrebbe sorprendere. Qui è evidente un
innegabile doppio standard: i politici occidentali hanno detto ai Paesi
in via di sviluppo che devono liberalizzare le loro economie per
crescere, ma questo è esattamente ciò che l’Occidente non ha fatto
durante il proprio periodo di consolidamento economico. Come ha
dimostrato l’economista di Cambridge Ha-Joon Chang, ognuno dei paesi
ricchi di oggi ha sviluppato la propria economia attraverso misure protezionistiche.
Di fatto, fino a poco tempo fa, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna
erano i due paesi più aggressivamente protezionisti del mondo:
costruivano il loro potere economico usando sussidi governativi, tariffe
commerciali, brevetti ristretti – tutto ciò che oggi il copione
neoliberista condanna. William Easterly nota che i paesi non occidentali
che non hanno implementato principi di libero mercato in
maniera indiscriminata sono riusciti a svilupparsi ragionevolmente bene,
tra cui il Giappone, la Cina, l’India, la Turchia e le “Tigri”
dell’Asia orientale.
Il punto chiave che se ne può dedurre è che il neoliberismo è l’utilizzo selettivo
dei principi del libero mercato a favore di potenti attori economici.
Ad esempio, i politici statunitensi celebrano il libero mercato se
questo consente alle imprese di sfruttare manodopera a basso costo
all’estero e indebolire i sindacati nazionali. Ma d’altra parte si
rifiutano di ascoltare le richieste dell’OMC di abolire i loro massicci
sussidi agricoli (che distorcono il vantaggio competitivo dei paesi del
Terzo mondo), perché ciò andrebbe contro gli interessi di una potente
lobby aziendale. I salvataggi bancari del 2008 forniscono un altro
esempio di questo doppio standard. Un vero mercato libero avrebbe
lasciato che fossero le banche a pagare per i propri errori. Il
neoliberismo, tuttavia, spesso significa intervento statale per i
mercati ricchi e libero mercato per i poveri. *In effetti, molti dei
problemi prodotti dal neoliberismo potrebbero essere mitigati da
un’applicazione più equa dei principi di mercato. Nel caso del commercio
agricolo, ad esempio, i Paesi poveri trarrebbero enormi benefici da una
maggiore liberalizzazione del mercato. Un altro tipico esempio è il sistema tedesco. Basandosi su una teoria nota come ordoliberismo, la Germania usa l’intervento statale per prevenire i monopoli e incoraggiare la concorrenza tra le piccole e medie imprese* (questa parte è da brividi di disgusto - nd Re-Carbonized).
Come conseguenza della globalizzazione neoliberale, il divario di
reddito tra il quinto delle persone del mondo che vivono nei Paesi più
ricchi e il quinto nei più poveri si è ampliato in modo significativo,
passando da 44:1 nel 1980 a 74:1 nel 1997 [11]. Il grafico 4 illustra
questa tendenza, che l’analista Lant Pritchett ha giustamente descritto
come “divergenza al massimo livello”. Oggi, come conseguenza di queste
politiche, le 358 persone più ricche del mondo hanno la stessa ricchezza
del 45% più povero della popolazione mondiale, ovvero 2,3 miliardi di
persone. In modo ancora più scioccante, i primi 3 miliardari hanno la
stessa ricchezza di tutti i Paesi meno sviluppati messi insieme, ovvero
600 milioni di persone[12]. Queste statistiche segnalano un massiccio
trasferimento di ricchezza e risorse dai Paesi poveri ai Paesi ricchi e
da individui poveri a individui ricchi. Oggi, l’1% più ricco della
popolazione mondiale controlla il 40% della ricchezza mondiale, il 10%
più ricco controlla l’85% della ricchezza mondiale e il 50% più povero
controlla solo l’1% della ricchezza mondiale [13].
Figura 4. Divergenza dei redditi in paesi ricchi e poveri 1970-1995
Fonte: Rapporto sullo sviluppo mondiale della Banca Mondiale 1999/2000.
Se la politica neoliberale ha portato a tassi di crescita economica peggiori
(e in molti casi stagnanti o in calo), allora il rapido accumulo di
ricchezza da parte di persone ricche e Paesi ricchi non è avvenuto solo appropriandosi della poca crescita, ma più efficacemente rubando
ai più poveri. Ad esempio, secondo un recente articolo dell’Economist,
quasi tutti i guadagni derivanti dalla ripresa post-crisi negli Stati
Uniti sono stati accumulati dall’1% più ricco. Mentre uno studio di Global Financial Integrity
dimostra come dal 1970 le multinazionali abbiano letteralmente rubato
fino a 1,17 miliardi di dollari solo dall’Africa sui prezzi di
trasferimento e altre forme di evasione fiscale.
Un altro mondo è possibile
La lezione principale che si può trarre da questa storia è che il
modello neoliberista è stato creato – intenzionalmente – da specifiche
persone. E poiché è stato creato dalle persone, può essere annullato
dalle persone. Non è una forza della natura, e non è inevitabile; un
altro mondo è infatti possibile.
Ma come ci si arriva? Negli Stati Uniti, un primo passo cruciale
sarebbe quello di emendare la Costituzione in modo da precludere la
possibilità di dare personalità giuridica alle imprese. In seguito alla
recente sentenza Citizens United vs. FEC, che consente alle imprese di
spendere somme di denaro illimitate per la pubblicità a fini politici
come un esercizio della “libertà di parola”, numerose campagne
hanno fatto progressi verso questo obiettivo. Un secondo passo sarebbe
quello di rafforzare il potere dei lavoratori come contropartita contro
l’eccesso di potere del capitale. Ciò potrebbe essere fatto mantenendo
il salario minimo federale ancorato all’inflazione, approvando
l’Employee Free Choice Act con una disposizione “card check” che
consentirebbe ai lavoratori di formare sindacati senza timore di
intimidazioni da parte dei datori di lavoro e modificando il
Taft-Hartley Act per autorizzare sportelli sindacali e sportelli di
agenzie. Un terzo passo sarebbe quello di ri-regolamentare il settore
finanziario, ripristinando il Glass-Steagall Act, che – fino alla sua
abrogazione nel 1999 – moderava la speculazione finanziaria e separava
le banche commerciali da quelle di investimenti.
La resistenza popolare contro il neoliberismo si è sviluppata dopo la
crisi finanziaria del 2008. Non solo la crisi ha rivelato i difetti di
una deregolamentazione estrema, ma i politici conservatori hanno cercato
di sfruttare la recessione per giustificare misure di austerità
senza precedenti con la scusa della “riduzione del deficit”, come
disastrosi tagli all’assistenza sanitaria, all’istruzione, ai programmi
di case a prezzi accessibili, ai buoni alimentari e altri programmi
sociali (mentre miliardi di dollari dei contribuenti vengono elargiti alle banche private).
In altre parole, i politici sperano di aggiustare la crisi del
capitalismo neoliberista prescrivendo ancora più neoliberalismo. Questo è
vero non solo negli Stati Uniti ma anche in Europa. Non sorprende che
questa sfacciata presa di potere abbia favorito l’ascesa di nuovi
movimenti sociali come Occupy Wall Street, gli “indignati” in Spagna e
in Grecia, e in Gran Bretagna la più grande ondata di proteste
studentesche e scioperi da oltre cinquant’anni.
Sul piano internazionale, la soluzione più comune alle crisi
umanitarie è stata “l’aiuto allo sviluppo”, che – dopo circa
quarant’anni – non ha avuto un impatto significativo. Ciò non sorprende,
vista la contraddizione che sta alla base del modello di sviluppo, che
distribuisce gli aiuti nello stesso momento in cui impone
adeguamenti strutturali economici. Come ha sottolineato l’economista
Robert Pollin, anche se l’Occidente avesse rispettato le raccomandazioni
del Millennium Development Project delle Nazioni Unite e aumentato gli
aiuti ai Paesi in via di sviluppo a 105 miliardi di dollari l’anno (un
invito quanto meno improbabile), questa somma sarebbe ancora troppo poco
rispetto a quanto i Paesi in via di sviluppo hanno perso a seguito dell’adeguamento strutturale a partire dagli anni ’80, che ammonta a circa 480 miliardi di dollari
all’anno in termini di PIL potenziale. Di nuovo, l’irrazionalità della
cooperazione economica è che di solito viene usato come un modo per
contrabbandare le stesse identiche politiche economiche che hanno creato
il problema. Tale è l’egemonia dell’ideologia neoliberale nell’economia
di oggi.
Le soluzioni che affrontano i problemi reali in gioco potrebbero
includere quanto segue: in primo luogo, democratizzare la Banca Mondiale, il Fondo monetario internazionale e l’OMC per garantire che i
Paesi in via di sviluppo abbiano la capacità di difendere i loro
interessi economici. Joseph Stiglitz, che è stato licenziato dal suo
incarico di capo economista della Banca Mondiale per la sua critica a
queste istituzioni, ha dedicato la sua carriera allo sviluppo di
proposte in questo senso. In secondo luogo, azzerare tutti i debiti del
Terzo mondo – il grido di protesta del movimento di
alter-globalizzazione – in modo da ridurre la leva che i Paesi ricchi
hanno sulle economie dei paesi poveri. In terzo luogo, eliminare le
condizioni generali di aggiustamento strutturale associate agli aiuti
esteri e ai prestiti per lo sviluppo, riconoscendo che ogni Paese ha
esigenze uniche. In quarto luogo, istituire un salario minimo
internazionale ancorato ai costi locali della vita come modo di mettere
un limite alla “caduta verso il basso” dei salari stessi. In quinto luogo, consentire ai
Paesi poveri di ripristinare i livelli di crescita di cui godevano prima
del periodo neoliberista utilizzando misure strategiche quali dazi
all’importazione, sussidi, disavanzi fiscali marginali, bassi tassi di
interesse, restrizioni sui prezzi di trasferimento e investimenti
statali nelle industrie nascenti.
Infine, forse la cosa più importante, dobbiamo rivendicare l’idea di
libertà. Dobbiamo respingere la versione neoliberista della libertà come
deregolamentazione del mercato, che è in realtà solo una licenza per i
ricchi di accumulare e sfruttare, e arbitrio per pochi di guadagnare a
spese di molti. Dobbiamo affermare che una regolamentazione ponderata
può di fatto promuovere la libertà, se per libertà intendiamo la libertà
dalla povertà e dal bisogno, la libertà di avere la dignità umana di
base offerta da una buona istruzione, una casa e assistenza sanitaria e
la libertà di guadagnarsi un salario dignitoso dopo una dura giornata di
lavoro. Invece di accettare che la libertà significhi scardinare
l’economia dai vincoli della società democratica, dobbiamo affermare che
la vera libertà comporta il controllo dell’economia per aiutarci a
realizzare obiettivi sociali specifici, democraticamente raggiunti e
ratificati collettivamente.
Note
[1] Harvey, David. 2005. A Brief History of Neoliberalism. London: Oxford University Press.
[2] Stiglitz, Joseph. 2010. Freefall. New York: W.W. Norton & Co.
[3] Executive Excess 2006, the 13th annual CEO compensation survey
from the Institute for Policy Studies and United for a Fair Economy.
[4] U.S. Census Bureau, Historical Income Tables: Families.
[5] Chang, Ha-Joon. 2007. Bad Samaritans: The Guilty Secrets of Rich
Nations and the Threat to Global Prosperity. London: Random House. Pg.
26.
[6] Hickel, Jason and Arsalan Khan. 2012. “The Culture of Capitalism
and the Crisis of Critique,” Anthropological Quarterly 85(1).
[7] Chang. 2007. Pg. 27.
[8] Chang. 2007. Pg. 28.
[9] World Bank. 2007. World Development Indicators.
[10] Easterly, William. 2007. The White Man’s Burden. Penguin Books.
[11] United National Development Programme. 1999. Human Development
Report 1999: Globalization with a Human Face. New York. Pg. 38.
[12] Milanovic, Branko. 2002. “True World Income Distribution, 1988 and 1993.” Economic Journal,
[13] United Nations University. 2009. 2008 Annual Report.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento