Pubblichiamo di seguito il nostro contributo al testo “Giovani a sud della crisi”, curato dai compagni di Noi Restiamo, dove sono raccolti gli interventi del festival Collision // Rompere l’equilibrio. Nel ricatto del debito pubblico trovano una sintesi tutte le lotte che attendono i giovani della periferia d’Europa oggi: che fare?
I giovani a sud della crisi lottano ogni giorno per coltivare le loro aspirazioni, rivendicando un presente e un futuro che l’Europa della grande recessione sembra aver affossato definitivamente. Gli studenti medi si ribellano alla beffa dell’alternanza scuola/lavoro – che li vuole sfruttati fin dalla tenera età – mentre i più grandi combattono per sottrarsi al ricatto della disoccupazione, chiedono lavoro, una formazione universitaria di qualità, diritto allo studio e servizi sociali. La risposta che ricevono suona più o meno così: “Bellissime aspirazioni, ma c’è un problema: ognuno di voi nasce con 38.000 euro di debito pubblico sulle spalle, quindi scordatevi il presente, lasciate perdere il futuro e inventatevi qualcosa per iniziare a ripagarlo!”
È la narrazione dominante sul debito pubblico, che ci viene presentato come un mostro che cresce di 70.000 euro al minuto e sembra capace di divorare i sogni e le prospettive dei giovani, fomentando uno scontro intergenerazionale tra padri e figli: quel debito sarebbe il lascito dei nostri padri, che avrebbero vissuto al di sopra delle loro possibilità lasciando a noi il conto salato della loro dissipatezza.
Se il problema è il debito pubblico, quale è la soluzione? Che fare?
Due sembrano essere le possibili risposte politiche. Una è la risposta del potere, l’austerità: dovete ripagare tutto, fino all’ultimo centesimo, con tagli alla spesa pubblica, lacrime e sangue sacrificando sull’altare del risanamento dei conti lo stato sociale ed i diritti conquistati. Dall’altra parte della barricata si fa strada l’idea che si debba combattere il mostro anziché arrendersi ad esso e finire schiavi: il ripudio del debito appare come l’unica reazione politica coerente con le lotte sociali di chi combatte per riprendersi il presente e il futuro. Piuttosto che sdebitarci rimpinguando le tasche di banche e speculatori, rispediamo il debito al mittente e andiamo avanti – come se il debito non ci fosse.
Se il problema del debito pubblico fosse il debito in sé, come ci raccontano ogni giorno, queste sarebbero effettivamente le uniche alternative politiche. Proveremo ad argomentare che così non è, e che un primo atto di resistenza necessario consiste proprio nel rifiuto della logica che ci viene imposta dalla classe dominante. Occorre mettere in chiaro che il debito pubblico rappresenta un fondamentale strumento di politica economica, necessario a garantire crescita e piena occupazione, e dunque appare ineliminabile nel disegno di un’alternativa alla crisi odierna. Per rialzarci non dobbiamo combattere il debito in sé ma il ricatto del debito, che ha le sue basi nell’attuale assetto politico ed istituzionale dell’Europa.
Perché esiste il debito pubblico? Quando le tasse non sono sufficienti a coprire le spese dello Stato, la parte di spesa eccedente le tasse – in gergo il deficit o disavanzo pubblico – deve essere finanziata tramite debito: lo Stato prende in prestito i soldi necessari. Storicamente, la necessità di finanziare i servizi pubblici ben oltre ciò che sarebbe consentito dalle sole entrate fiscali ha costretto tutti gli Stati a prendere in prestito parte delle risorse necessarie. D’altro canto basta guardarsi intorno: la Germania, modello di virtù e parsimonia, ha un debito pubblico di circa 2.000 miliardi di euro – pari al 70% del PIL, ossia pari a più di due terzi della produzione annuale del Paese. Le principali economie mondiali hanno tutte, invariabilmente, un consistente debito pubblico: dagli Stati Uniti, dove supera il 100% del PIL, al Giappone, dove si trova abbondantemente oltre il 200% del PIL, passando per l’Italia dove ammonta al 130% del PIL.
Dietro al debito pubblico, dunque, c’è l’accumulazione di disavanzi pubblici, e l’analisi economica ci insegna che il disavanzo pubblico genera reddito privato: il denaro che lo Stato spende per costruire una scuola, ad esempio, è il reddito di chi realizza quel lavoro, dall’architetto alla ditta di costruzioni, ma non solo; questi soggetti, a loro volta, spenderanno una parte di quel reddito in consumi, alimentando così un circolo virtuoso che produce altri redditi e stimola l’occupazione. In altre parole, la spesa pubblica in deficit è il motore della crescita e la condizione necessaria ad una politica di piena occupazione, perché quando la spesa pubblica eccede le tasse ciò significa che lo Stato sta aggiungendo risorse all’economia, stimolando consumi e investimenti. Tutto dobbiamo fare fuorché liberarci di questo fondamentale strumento di stimolo dell’economia: non è il debito pubblico, in sé, il nostro nemico – e di conseguenza non sono le generazioni passate ad averci condannato a questo presente di miseria e sfruttamento.
L’incubo di un debito pubblico che deve essere azzerato è una menzogna, una trappola ideologica che rappresenta il primo avamposto di chi ci vuole servi dell’austerità europea: il debito pubblico può infatti essere sempre ripagato tramite altro debito, e storicamente è sempre stato rifinanziato in questa maniera per due ragioni essenziali. In primo luogo perché, come abbiamo detto, la stessa spesa in deficit che crea quel debito fornisce uno stimolo decisivo all’economia e genera, corrispondentemente, extra reddito (privato). In questa maniera si creano i risparmi – cioè quella parte di reddito che non viene spesa e che quindi non contribuisce all’incremento di produzione e reddito – che potranno essere utilizzati per acquistare titoli pubblici. Lo Stato può così generalmente continuare a finanziare il proprio debito pubblico senza problemi sui mercati, perché se c’è una robusta spesa pubblica vi sarà sempre risparmio accumulato da prendere in prestito. Il debito pubblico crea, quindi, le condizioni affinché possa essere rifinanziato.
Anche se questo meccanismo fosse ostacolato da speculazioni finanziarie e turbolenze di breve periodo, c’è un ulteriore motivo per il quale possiamo affermare che il finanziamento del debito rappresenta un problema tutto politico e non, come vorrebbero farci credere, un problema di scarsità delle risorse: il debito pubblico può sempre essere finanziato dalla banca centrale. Questa particolare istituzione è l’autorità monetaria, cioè l’autorità che governa il sistema finanziario di un Paese e dunque detiene il potere di creare moneta, moneta con cui può finanziare il debito pubblico senza limiti semplicemente acquistando i titoli pubblici: dagli Stati Uniti al Giappone, il debito pubblico delle moderne economie capitalistiche è sempre stato reso sostenibile dalla mera cooperazione tra governi e banche centrali, con la creazione di moneta messa al servizio del finanziamento del debito pubblico senza produrre alcun problema di inflazione. Con l’adesione all’euro e l’istituzione della Banca Centrale Europea (BCE) abbiamo rinunciato ad una delle più importanti prerogative di uno Stato sovrano, la possibilità di emettere moneta, cosicché ciò che rappresentava il fisiologico funzionamento di una qualsiasi economia moderna – il costante rifinanziamento del debito pubblico – appare ora come una trappola infernale. L’altalena dello spread, le minacce dei mercati, l’instabilità finanziaria e la vulnerabilità agli attacchi speculativi derivano principalmente dalle scelte di politica monetaria della BCE, che impiega la sua autorità nel settore finanziario non per rendere possibili crescita e piena occupazione – come potrebbe e dovrebbe – ma per condizionare le scelte politiche dei governi nazionali e imporvi il disegno politico neoliberista. È questa la radice del ricatto del debito pubblico, ed il problema della scarsità di risorse che strangola l’Europa appare finalmente in tutta la sua natura politica: i soldi ci sono ma non ce li fanno toccare perché povertà, disoccupazione e precarietà sono formidabili strumenti di disciplina dei lavoratori, necessari a tenere in vita un modello economico e sociale basato sullo sfruttamento e incentrato sul profitto di pochi. Se dunque il problema non è il debito pubblico in sé, ma il ricatto del debito pubblico operato in Europa dalla BCE – che nega agli Stati la sua copertura finanziaria per condizionarne le scelte politiche – dobbiamo tornare sul piano politico per capire cosa possiamo fare, come agire, partendo da quelle che inizialmente sembravano le uniche due risposte possibili: austerità o ripudio.
Una volta abbandonato il punto di vista dominante, la stessa austerità si dimostra incapace di contenere il presunto mostro del debito pubblico: proprio perché il debito è uno strumento di crescita, la riduzione dei disavanzi pubblici attuata nell’Europa della disciplina di bilancio è la ragione principale dell’attuale prolungata crisi. In Grecia, dove l’austerità è stata applicata con maggiore decisione, il rapporto tra debito pubblico e PIL è cresciuto anziché ridursi, principalmente perché proprio l’austerità faceva cadere il PIL più di quanto potesse incidere sul livello del debito. Fuori dall’ideologia dominante sul debito pubblico, la realtà ha dimostrato che l’austerità non riesce neppure a contenere il peso del debito sull’economia.
Cosa possiamo opporre all’austerità? Il ripudio del debito pubblico è davvero la nostra arma migliore? Anzi, alla luce di questa breve analisi possiamo ancora ritenere che il ripudio sia realmente un’arma efficace contro il ricatto del debito?
Una risposta a questo quesito proviene dalla semplice osservazione dei fatti. Il ripudio del debito – lungi dall’essere un progetto utopistico rivoluzionario – è stato effettivamente praticato sotto il nostro naso, proprio al centro della crisi: la Grecia, nel 2012, ha cancellato più di 100 miliardi di euro di debito pubblico su un totale di 300 miliardi. Un terzo del debito pubblico cancellato con un tratto di penna, all’interno del programma di aggiustamento del paese concordato con i creditori e denominato PSI (Private Sector Involvement). Con quali effetti? Evidentemente nessuno: il proseguimento dell’austerità unito alla continua impossibilità di finanziare il debito pubblico attraverso la banca centrale ha in pochi mesi riportato il rapporto tra debito pubblico e PIL a superare il livello precedente al taglio del debito. Il ripudio, dunque, è stato messo in campo da chi questa crisi la gestisce dall’alto, viene oggi sostenuto con forza dal Fondo Monetario Internazionale (FMI) e non sembra produrre alcun ostacolo al massacro sociale e allo sfruttamento. Al contrario, diventa il pretesto per rafforzare gli impegni del Paese che riceve la grazia di un taglio (haircut) del debito: nell’anno del PSI la Grecia ha dovuto sottoscrivere un nuovo Memorandum of Understanding, ossia una serie di impegni all’abbattimento dello stato sociale e dei diritti dei lavoratori.
Ma se il ripudio del debito è un vicolo cieco cosa ci resta per combattere l’austerità? Di nuovo, che fare?
La sinistra radicale negli ultimi trent’anni è stata egemonizzata dall’idea che – dopo la sconfitta subita negli anni Settanta e Ottanta e dopo la caduta del muro di Berlino – la lotta dovesse cambiare natura: non più una battaglia per prendere il potere, ma una polverizzazione delle ribellioni contro ogni forma di potere. Il ricatto del debito, che sta condannando i giovani a sud della crisi ad una lenta agonia, ci permette di cogliere tutta la debolezza di quella impostazione del radicalismo di sinistra: il potere, in questo caso, è rappresentato plasticamente dalla BCE, l’autorità monetaria che ha il dominio dei mercati finanziari. L’unica via d’uscita dal ricatto del debito consiste nello stravolgimento dell’attuale assetto politico europeo e nella riconquista del potere di finanziare liberamente il debito pubblico: il nuovo Palazzo d’Inverno nella lunga crisi europea si trova a Francoforte, e se non sapremo mettere in discussione l’Europa ed i suoi meccanismi disciplinanti non riusciremo mai a rimuovere la cappa che opprime le nostre più alte aspirazioni. È solo la lotta senza quartiere alle istituzioni europee, a partire dalla BCE, che può liberarci dal ricatto del debito. La proposta di ripudio del debito calza invece perfettamente con l’idea che l’unica strategia rivoluzionaria sia quella che si tiene alla larga dal potere: come se si potesse, al tempo stesso, promuovere la crescita e l’occupazione e rinunciare allo strumento della spesa pubblica in deficit. Pensiamo per un attimo a cosa accadrebbe se cancellassimo il debito pubblico dalla sera alla mattina senza mettere mano sulla BCE: per crescere avremmo bisogno di spesa pubblica in disavanzo, creeremmo immediatamente nuovo debito ma non sapremmo a chi piazzarlo, perché la BCE non sostiene l’indebitamento pubblico. Riprendendo il controllo della banca centrale, invece, non avremmo più alcun bisogno di cancellare il debito pubblico, perché avremmo il potere di rifinanziarlo continuamente creando nuova moneta.
Non possiamo più permetterci il lusso di ignorare il potere e le sue meccaniche. Per restituire una prospettiva concreta alle nostre rivendicazioni dobbiamo rompere l’equilibrio europeo che ha nella BCE il suo baricentro: il nostro futuro è ostaggio di vincoli politici imposti dall’Europa, vincoli contro cui si può e si deve lottare.
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