Alla terza settimana di proteste anti-governative, il presidente
sudanese Omar al-Bashir risponde alle incessanti richieste di
abbandonare il potere che occupa da 30 anni: ieri in una base militare
di Atbara, nel nord est della capitale Khartoum, si è rivolto ai soldati
per rivolgersi al paese. E mandare un messaggio chiaro: “Non
abbiamo problemi perché l’esercito non sostiene i traditori, ma si muove
per sostenere la patria e i suoi risultati”, ha detto il presidente,
lui stesso ex generale delle forze armate.
Un messaggio che arriva mente le piazze restano piene e la
polizia continua a disperdere i manifestanti. L’ultima protesta è di
ieri, nella città orientale di al-Qadarif, organizzata dall’Associazione
dei professionisti e una delle più grandi dal 19 dicembre quando tutto è
cominciato: i poliziotti hanno usato gas lacrimogeni ma anche
proiettili veri per svuotare le strade, raccontano i giornalisti
recenti. “Libertà, pace, giustizia”, gridano i manifestanti, “La
rivoluzione è la scelta della gente”.
Per oggi è prevista una nuova marcia, nella città di Omdurman, anche questa guidata dall’Associazione dei professionisti: “Marceremo verso il parlamento – dice Mohamed Asbat, il portavoce dell’Associazione ad al-Jazeera – per consegnare le nostre richieste e continueremo a farlo pacificamente finché il governo non si dimetterà”.
E se quasi tutto il paese è in stato di emergenza e scuole e università sono chiuse in molte province, sarebbero già 40 i morti, uccisi dalle forze di sicurezza, nelle ultime tre settimane
secondo i dati forniti da associazioni per i diritti umani, come
Amnesty e Human Rights Watch. Diciassette, secondo il governo. E
oltre 800 i manifestanti arrestati, 816 per l’esattezza, fa sapere il
ministero dell’Interno. Tanti, troppi.
Ieri è arrivata una prima
reazione da parte dei paesi occidentali con Stati Uniti,
Canada, Norvegia e Gran Bretagna che in un comunicato congiunto hanno
espresso preoccupazione per la reazione governativa alle proteste:
“Siamo inorriditi dalle notizie di morti e gravi ferimenti di chi
esercita il proprio legittimo diritto alla protesta, così come dalle
notizie dell’uso di proiettili contro i manifestanti”.
Manifestanti che restano in strada con una richiesta precisa: le dimissioni di Bashir. Le
manifestazioni sono iniziate per gli effetti devastanti della crisi
economica, con un’inflazione alle stelle, al 70%, e i prezzi dei beni di
prima necessità – pane, medicine carburante, in primo luogo – fuori controllo, raddoppiati e in alcuni casi triplicati. A monte,
oltre a cause strutturali interne ed esterne, dalla corruzione alle
ventennali sanzioni internazionali, c’è l’indipendenza del Sud Sudan di
otto anni fa che ha fatto perdere a Khartoum due terzi delle riserve
petrolifere di cui godeva.
In un primo momento, spaventato dalle proteste, Bashir ha promesso
un’inchiesta sulle uccisioni e il mantenimento dei sussidi per le
famiglie povere, ma alla gente non basta. Non basta nemmeno alle
opposizioni che la scorsa settimana hanno dato vita al National Front
for Change, formato da 22 partiti politici di diversa
estrazione politica, dagli islamisti ex alleati di Bashir alla sinistra:
l’obiettivo dichiarato è ampliare il fronte anti-governativo per
costringere il presidente a dimettersi e ad aprire a un esecutivo di
transizione.
Poco importa, il governo non sembra affatto intenzionato a
“trattare”, a riconoscere la legittimità delle richieste, forte del
sostegno che ancora una parte della popolazione gli garantisce ma
soprattutto dall’appoggio di servizi segreti ed esercito. È forte anche del consenso che la Lega Araba non ritira:
è stato proprio Bashir il presidente scelto per fare visita alla fine
di dicembre, primo rappresentante di un paese della Lega dal 2011, al
siriano Bashar al-Assad, chiara dimostrazione dell’intenzione dei paesi
dell’organizzazione di riaprire alla Siria, estromessa all’inizio della
guerra civile, quasi nove anni fa.
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