Un'ottima recensione di Vladimiro Giacché all'ultimo libro di Alessandro Somma
Poche
parole hanno conosciuto un improvviso boom negli ultimi anni come i
termini “sovranismo” e “sovranisti”. Di queste parole, ormai
onnipresenti nel nostro dibattito politico, chi compulsasse i quotidiani
anche solo di due-tre anni fa non troverebbe quasi traccia. E francamente
di un’altra parola-contenitore di incerto significato, oltretutto in
genere adoperata come etichetta denigratoria e dispregiativa, proprio
non si sentiva la mancanza.
Un motivo in più per apprezzare l’ultimo libro di Alessandro Somma, “Sovranismi. Stato, popolo e conflitto sociale”
(Roma, Derive/Approdi, 2018), dedicato precisamente al compito di
risalire ai diversi significati che oggi assume il concetto di
“sovranità”, al quale quello di “sovranismo” confusamente allude, e i
limiti ai quali è sottoposto nel contesto dell’Unione Europea. Al
termine di questa disamina, l’autore descrive nell’ultimo capitolo i
compiti e gli obiettivi di un “sovranismo democratico” che voglia porsi
all’altezza delle sfide del presente.
Prima di procedere a un esame
sommario dei contenuti di questo testo, la cui facilità di lettura - un
pregio ben noto ai lettori dei libri di Alessandro Somma - non deve
trarre in inganno (i temi trattati infatti sono molti, importanti e
molto ben approfonditi), devo premettere che mi occuperò qui della linea
argomentativa che mi pare centrale, mentre per motivi di spazio dovrò
lasciare ai lettori del libro il piacere di scoprire numerosi altri temi
importanti.
Il testo parte da un assunto forte sulla fase che
stiamo vivendo: “L’epoca attuale è indubbiamente caratterizzata dal
rigetto del mercato autoregolato e del processo di denazionalizzazione
che ha accompagnato la sua affermazione”. Un rigetto che non si verifica
oggi per la prima volta: il rifiuto del mercato autoregolato quale
fondamento della società si ebbe tra la prima e la seconda guerra
mondiale, e diede luogo a esperienze sociali e politiche radicalmente
diverse tra loro quali l’Unione Sovietica e i fascismi. Dopo la seconda
guerra mondiale, l’esigenza di una regolamentazione del mercato si
tradusse in una rottura con la tradizione liberista che si realizzò da
un lato nella drastica limitazione dei movimenti di capitale conseguente
agli accordi di Bretton Woods, dall’altro nella costruzione - anche
all’interno del mondo capitalista - di strutture sociali e politiche di
redistribuzione della ricchezza che facessero da contrappeso al naturale
squilibrio a favore del capitale dei rapporti capitale/lavoro ove
lasciati a meri meccanismi di mercato (il cosiddetto “compromesso
keynesiano” tra capitale e lavoro).
Solo con gli anni Ottanta
“l’ortodossia neoliberale” - osserva Somma - è tornata ad essere “il
punto di riferimento indiscutibile per ridefinire il rapporto tra
economia e società”. Di più: con la fine del socialismo in Unione
Sovietica e nelle democrazie popolari dell’Est europeo il neoliberismo,
nella particolare declinazione che ne diede von Hayek, “viene
diffusamente concepito come il fondamento di teorie e pratiche a cui non
vi sono alternative”.
Questa vera e propria filosofia della
storia nei decenni successivi manifesta la sua egemonia anche a
sinistra, tanto da far perdere di vista la distinzione e anzi la
contrapposizione tra cosmopolitismo e internazionalismo, che era ancora
fondamentale per la sinistra del nostro paese (e non solo) ai tempi
della creazione della Comunità economica europea. Somma osserva come il cosmopolitismo,
“l’internazionalismo delle élite” e del capitale, sia “buono solo a
presidiare il mercato autoregolato, a spoliticizzarlo in quanto arena
nella quale monta il conflitto redistributivo”; precisamente a questo
fine è funzionale l’indebolimento della sovranità statuale a favore di
organismi sovranazionali sostanzialmente privi di legittimità
democratica, il cui compito si riduce al più a fare da vigili urbani
degli scambi di mercato (il progetto di von Hayek, realizzato almeno in
parte dalla UE).
L’internazionalismo è per contro l’espressione
di una solidarietà tra i popoli, che caratterizza - come riaffermò
Lelio Basso in un memorabile intervento del 1949 - un proletariato che
abbia acquisito “contemporaneamente la coscienza di classe e la
coscienza nazionale”: in tal modo riconoscendo nel terreno dello Stato
nazionale quello proprio al fine di realizzare attraverso le lotte i
diritti del lavoro, e ponendo così “le basi per un vero
internazionalismo, per una federazione di popoli liberi”. Non per caso,
ricorda opportunamente Somma, l’opposizione del Partito Comunista
Italiano alla Comunità economica europea fu motivata in parlamento da
Giuseppe Berti individuando nei “grandi monopoli industriali”, in
particolare tedeschi, i “grandi beneficiari dei Trattati”, e da
Giancarlo Pajetta rammentando “quale valore grande, decisivo sia quello
dell’indipendenza nazionale”, considerato appunto come il terreno per
sviluppare conflitti sociali capaci di emancipare le classi subalterne.
Oggi,
di fronte a una temperie culturale in cui troppo spesso a sinistra
l’internazionalismo viene confuso con un europeismo che è in realtà una
declinazione del cosmopolitismo, Somma rivendica la necessità della
“riaffermazione delle ragioni di una sinistra internazionalista, in
quanto tale non anche cosmopolita”.
Scrollarsi di dosso la
subalternità all’approccio “europeista”-cosmopolita è essenziale anche
alla luce da un lato della generale incompatibilità tra l’idea di
società contenuta nella nostra Costituzione e quella contenuta nei
Trattati europei, dall’altro della più specifica incoerenza -
argomentata da Somma in pagine che ritengo definitive - tra le cessioni
di sovranità richieste da un entità sovranazionale quale è la UE e le
semplici e condizionate “limitazioni di sovranità” a favore di
organizzazioni internazionali previste dall’art. 11 della nostra
Costituzione (il quale è invece come noto adoperato proprio quale
cavallo di Troia per accettare tout court qualsivoglia normativa della
Unione Europea - e in qualche caso addirittura per conferirle rango
costituzionale).
Assai opportunamente qui Somma richiama il ben
diverso approccio di altri Stati dell’Unione i quali, a cominciare dalla
Germania, controllano passo passo la conformità delle normative europee
alla Carta fondamentale di quel Paese, la quale per giunta è stata
modificata in occasione della ratifica del Trattato di Maastricht “per
affermare il principio secondo cui le cessioni di sovranità sono
ammissibili solo se il livello sovranazionale realizza le finalità prima
perseguita dal livello nazionale”: la disposizione così introdotta
precisa tra l’altro che l’esecutivo tedesco deve assicurare al
parlamento “la possibilità di prendere posizione prima di partecipare
alla produzione normativa europea” (art. 23).
Questa
riaffermazione è importante per due motivi. In primo luogo perché indica
un percorso virtuoso di rapporto tra Stato e Unione Europea. Ma anche
per un secondo motivo: perché ci consente di intendere come sia
impossibile qualsiasi cambiamento del Trattato di Maastricht quanto al
punto decisivo, che attribuisce alla Banca Centrale Europea il compito
di perseguire prioritariamente la stabilità dei prezzi; tale priorità è
infatti pienamente coerente con l’ordinamento costituzionale tedesco, ma
in contraddizione con la priorità attribuita dalla nostra Costituzione
al diritto al lavoro. Per chiarire quest’ultimo aspetto basti ricordare
che per l’Italia il livello di disoccupazione oggi reputato “normale” - in quanto non inflazionistico
- dalla Commissione Europea (in coerenza con la priorità attribuita dal
Trattato di Maastricht alla stabilità dei prezzi rispetto a ogni altro
obiettivo di politica economica) è pari al 10% circa della forza lavoro: entità che qualsiasi nostro costituente (ad
eccezione forse di Luigi Einaudi) avrebbe ritenuto scandalosamente
elevato a fronte del compito di garantire il diritto al lavoro
attribuito alla Repubblica dalla Costituzione. [1]
La conclusione
che Somma trae dall’assetto neoliberistico dell’Unione Europea e dalla
sua irriformabilità è la necessità di un “sovranismo democratico”. “Il
sovranismo democratico – osserva l’autore – non ha alternative: l’Europa
unita in quanto dispositivo neoliberale è irriformabile ed è pertanto
illusorio pensare di democratizzarla, magari nell’ambito di un
ampliamento dell’Unione economica e monetaria. Occorre al contrario
rinazionalizzare le politiche economiche, presupposto irrinunciabile per
riattivare la sovranità popolare e il conflitto sociale quali
fondamenti della democrazia economica”. Occorre “scardinare la
costruzione europea in quanto strumento immodificabile di
spoliticizzazione del mercato, che nei paesi indisponibili ad adottare
il modello di crescita tedesco, come sappiamo non generalizzabile, è
destinata a produrre effetti oramai sperimentati: fare la fine della
Grecia”. Occorre innanzitutto recuperare “la sovranità monetaria” e
ripristinare “i controlli sulla circolazione dei fattori produttivi:
soprattutto dei capitali”. In particolare, secondo Alessandro Somma,
“l’abbandono della moneta unica costituisce una scelta obbligata... Il
recupero della sovranità monetaria è indispensabile anche e soprattutto
per ripristinare i rapporti di forza da cui ha tratto il fondamento il
compromesso keynesiano” tra capitale e lavoro: compromesso di cui “la
possibilità di incidere sulla qualità e sul valore della moneta”
rappresenta un presupposto essenziale.
Ad avviso dell’autore
questo “recupero della sovranità popolare” - perché di questo in ultima
analisi si tratta - potrebbe, abbandonando la strada percorsa negli
ultimi decenni, alimentare un nuovo europeismo: un europeismo lontano
tanto dalla attuale realtà dell’Unione Europea neoliberale (e dalla
“deriva fideistica” dell’“europeismo” che ne costituisce il corollario
ideologico), quanto – è utile precisarlo - dai sogni fumosi e
inconsistenti di “un’altra Europa”, che in ultima analisi rafforzano il
dispositivo di potere attuale prospettando impossibili modifiche dei
Trattati. Somma definisce questo possibile nuovo europeismo come un
“europeismo costituzionale” fondato su politiche nazionali di piena
occupazione, che avrebbero a loro volta quale necessario presupposto un
recupero sostanziale di sovranità da parte degli Stati che oggi
compongono l’Unione Europea.
Recupero della sovranità popolare (e
costituzionale), abbandono della falsa pista attuale dell’integrazione
europea, riformulazione, su basi completamente diverse, del rapporto tra
gli Stati europei: è senz’altro una scommessa difficile. L’autore però
osserva che essa poggia su un punto di forza innegabile: si basa infatti
sulla “inevitabile reazione della società contro la tirannia dei
mercati”, su “una reazione al neoliberalismo che attiene a dinamiche in
qualche modo incontenibili, come sono quelle che concernono il disperato
tentativo della società di opporsi alla sua distruzione da parte del
mercato autoregolato”.
[1] Per una trattazione più dettagliata della questione rinvio al mio Costituzione italiana contro trattati europei (Imprimatur 2015).
Fonte
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