La letteratura gialla e quella noir
sono ricche di personaggi che, avendo commesso un orribile crimine,
provano a tenere nascosta la propria colpa, ma vengono costretti da un
insopprimibile istinto a rivelare, in un modo o nell’altro e più o meno
esplicitamente, il delitto che hanno compiuto.
Lunedì scorso il Presidente della Banca
Centrale Europea, Mario Draghi, ha tenuto un discorso alla Commissione
Affari Economici del Parlamento Europeo.
Deaghi ha fatto il punto
su quella che secondo lui è la situazione economica dell’Eurozona e ha
elencato i rischi ai quali vanno incontro gli incauti Paesi che non
applicano le ricette consigliate dalle istituzioni comunitarie. Alcune
frasi che ha pronunciato sono interessanti e vale la pena
approfondirne il significato: come vedremo, questo esercizio ci sarà
utile a comprendere come l’indipendenza di una banca centrale dal
Governo si traduca nella perdita di uno strumento vitale di
perseguimento dei più concreti obiettivi di equità sociale e piena
occupazione.
Scorrendo i resoconti di stampa
forniti dai vari giornali che si sono affrettati a diffondere il suo
Verbo, scopriamo che secondo il Governatore «un Paese perde sovranità
quando il debito è troppo alto»: a quel punto, infatti, «sono i mercati
che decidono». Ne consegue che ogni decisione politica «deve essere
scrutinata dai mercati, cioè da persone che non votano e che sono fuori
dal processo di controllo democratico». Draghi cita come esempio quanto
accaduto in Grecia, che dimostrerebbe che «il debito viene prodotto da
decisioni politiche dei Governi» e che «la sovranità viene persa a causa
di politiche sbagliate».
Le politiche sbagliate, quindi, sarebbero
secondo Draghi quelle che generano un debito pubblico troppo elevato.
Quelle giuste, per converso, sarebbero rappresentate da una ‘sana’
disciplina di bilancio. Niente di nuovo sotto il sole, verrebbe da dire.
Eppure vale la pena leggere con più attenzione alcuni passaggi della fatwa di Draghi contro la prodigalità dei governi nazionali spendaccioni.
Cominciamo dalla considerazione che un
Paese perde la sovranità quando il debito è alto perché quando, per
l’appunto, il debito è alto, sono i mercati a decidere. Cosa vuol dire,
in primo luogo, che i mercati decidono? Significa che i soggetti che
operano sul mercato dei titoli di Stato decidono, con le loro scelte di
acquisto e vendita di titoli del debito pubblico, se impiegare o meno i
propri denari per finanziare il debito pubblico di determinati Paesi.
Quando, infatti, un operatore acquista un titolo del debito pubblico
italiano, sta di fatto prestando denaro allo Stato italiano. In cambio
egli ottiene un documento rappresentativo di tale prestito: un titolo di
Stato, per l’appunto. Le ragioni per le quali un soggetto acquista un
titolo di Stato sono sostanzialmente quelle che spingono un soggetto ad
acquistare una qualsiasi obbligazione: impiegare il proprio risparmio in
un investimento abbastanza sicuro e ottenere, in cambio, il periodico
pagamento di interessi. Oltre a queste operazioni che potremmo definire
‘da cassettista’, per le quali i margini sono piuttosto bassi (un titolo
di Stato, generalmente, rende poco), le obbligazioni si prestano
tuttavia anche a manovre speculative: un soggetto può acquistare oggi un
titolo del debito pubblico italiano ad una certa cifra sperando di
rivenderlo domani ad una cifra più alta.
La questione è che (ed è qui che “i
mercati decidono”) sono le stesse decisioni degli investitori di vendere
e comprare titoli che influiscono sui prezzi, e come vedremo sui
rendimenti, dei medesimi. Quando, infatti, molti investitori cedono
titoli di Stato, fanno ridurre il prezzo degli stessi e, di conseguenza,
fanno aumentare gli interessi che lo Stato italiano dovrà pagare sui
titoli di nuova emissione. Bisogna ricordare che le obbligazioni sono
titoli che pagano una cedola fissa: un titolo dal valore nominale di 100
con cedola al 3% è un titolo che rende ogni anno 3 euro. Immaginiamo
che quel titolo diventi oggetto di una massa di vendite tale che il suo
prezzo scenda a 75: poiché il titolo paga una cedola di 3 euro all’anno
(corrispondenti al 3% del valore nominale, valore dal quale si è
discostato il prezzo di mercato), quel titolo adesso offre un rendimento
del 4% – essendo 3 euro il 4% dei 75 euro pagati per acquistare il
titolo sul mercato secondario. Ecco spiegato perché il rendimento di
un’obbligazione è inversamente correlato al proprio prezzo. Una volta
che i mercati hanno spinto il rendimento di quel titolo al 4%, lo Stato
si trova costretto a garantire il nuovo e maggiore rendimento sui titoli
di nuova emissione: nessuno infatti comprerebbe nuovi titoli di Stato
al 3% se può comprarne con un rendimento maggiore sui mercati
finanziari. Per questa ragione, il costo del debito pubblico dipende dai
movimenti dei prezzi dei titoli di Stato sui mercati finanziari.
Movimenti che spesso e volentieri finiscono per essere diretti da
dinamiche speculative. Ricordate la crisi degli spread di qualche anno fa? Beh, pare che alcune banche, anche in quegli anni, abbiano fatto ‘cartello’ per orientare l’andamento del prezzo dei titoli di stato sui mercati e trarne un profitto speculativo.
Normalmente, gli Stati hanno diversi modi per ‘difendersi’ dagli attacchi speculativi, checché ne dica Carlo Cottarelli.
L’argine principale alla speculazione vede protagonista l’autorità che
emette la moneta di un Paese, ovvero la sua banca centrale. Al
comportamento degli investitori che cedono titoli di Stato italiani, ad
esempio, una banca centrale interessata a difendere il valore dei
medesimi potrebbe opporre il comportamento inverso, consistente nell’acquisto
massiccio di titoli: proprio in virtù del suo potere di creare moneta,
la banca centrale può acquistare titoli senza limiti. In caso di
attacco speculativo, la banca centrale avrebbe quindi tutti gli
strumenti per ‘difendere’ il prezzo dei titoli pubblici italiani.
Proprio quella crisi degli spread si risolse con un intervento
massiccio della BCE attraverso un programma di acquisti di titoli di
Stato sui mercati, il Securities Markets Programme: un sostegno
istituzionale al debito pubblico, che fu condizionato alla
sottoscrizione di programmi di austerità fiscale (i famosi tagli del
Governo Monti), come placidamente ammesso dalla Prof.ssa Fornero.
Un altro modo per ridurre l’influenza
della speculazione sui prezzi e i rendimenti dei titoli del debito
pubblico consiste nell’introduzione di limitazioni ai movimenti di
capitale: è del tutto evidente che se gli investitori sono liberi di
spostare i capitali a proprio piacimento, per essi è molto più facile
trovare impieghi alternativi per il proprio denaro. In altre parole, per
essi è molto più facile perseguire i propri intenti speculatori
portando altrove i propri capitali, tenendo quindi sotto scacco paesi
apparentemente sovrani. Come usava dire Guido Carli, storico governatore
della Banca d’Italia, la libertà di circolazione dei capitali consente
ai risparmiatori di “votare” ogni giorno, perché consente di esercitare
pressione sui governi spostando i proprio risparmi dai titoli di Stato
italiani ai titoli di Stato di altri paesi; dimenticava di dire, Carli,
che questa “libertà di voto” è assai poco democratica, essendo il voto
in questione direttamente proporzionale alla propria ricchezza. Imporre
controlli ai movimenti di capitale significa dunque frenare la deriva
plutocratica della nostra democrazia: impedire che pochi gruppi
finanziari decidano per tutti.
Va notato, inoltre, che la possibilità
che si verifichi un attacco speculativo non dipende dal rapporto tra
debito pubblico e PIL, potendosi portare avanti tale attacco anche in
presenza di finanze perfettamente ‘sane’. L’esempio di quanto appena
detto è presto fatto: il Giappone, con il suo rapporto debito/PIL
stabilmente sopra il 200% (253% in base agli ultimi dati disponibili –
per fare un confronto, quello italiano si aggira intorno al 132%), è la
plastica dimostrazione del fatto che, in presenza di determinate regole
istituzionali, un elevato debito pubblico non porta necessariamente alla
speculazione finanziaria e all’apocalisse. A dirlo non siamo noi, non è
un convinto signoraggista, non è un complottista. È Alberto Quadrio Curzio, il quale, sulle pagine del Sole 24 Ore, scriveva nel lontano 2013 (con argomentazioni tuttavia attuali): «Come
mai il Giappone può permettersi di far galoppare la spesa pubblica pur
convivendo da tempo con parametri di indebitamento molto simili a quelli
della Grecia? Perché rispetto alla Grecia, o a un qualunque Paese
dell’Eurozona, ha almeno due cartucce in più da giocare: la possibilità
di stampare moneta della Bank of Japan [che, per legge, deve prendere le
proprie decisioni di politica economica in maniera armonica rispetto
alle decisioni del Governo, ndr] e la protezione del debito pubblico da
parte dei cittadini e degli investitori interni che ne detengono la
quasi totalità».
Possiamo quindi prendere per buona almeno
una delle affermazioni di Mario Draghi e considerarla come una parziale
confessione: la sovranità viene persa a causa di politiche sbagliate,
questo è indubbio. Solo che queste politiche sbagliate non sono quelle
che ci racconta il Governatore, e alle quali contrappone le politiche giuste
(secondo lui) dei tagli alla spesa pubblica, ossia a sanità, istruzione
e pensioni: le politiche che mettono i governi in balìa delle decisioni
dei mercati sono piuttosto quelle che rendono indipendente la Banca
Centrale Europea, che fanno sì che quest’ultima abbia come obiettivo
principale il contenimento dell’inflazione, che impongono l’assoluta
libertà di movimento dei capitali. È in questo modo che ogni decisione
di politica finisce per «essere scrutinata dai mercati, cioè da persone
che non votano e che sono fuori dal processo di controllo democratico».
Per invertire la rotta e riacquisire la
sovranità della politica economica, dunque, non si devono rispettare
presunte norme di prudenza fiscale, che altro non fanno che peggiorare
crisi e disoccupazione, a tutto vantaggio dei padroni. Bisogna liberarsi delle assurde norme che costringono i governi a misurarsi con gli appetiti degli speculatori, rimettendo la politica monetaria
al servizio della politica fiscale, in quanto quest’ultima ha tutti gli
strumenti per perseguire gli emancipatori obiettivi della piena
occupazione e dell’estensione dei diritti sociali. Basterebbe volerli
usare.
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