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01/08/2019

La “bestia” ammutolita. Triplo smacco per Salvini

La “bestia” tace. Il sistema di manipolazione mediatica messo in piedi dalla banda Salvini si sta ancora leccando le ferite dalla clamorosa toppata presa sulla vicenda del carabiniere ucciso a Roma. Ma la “bestia” per ora è solo ferita, non sconfitta, ci vorrà ancora del tempo affinché gli influencer dell’odio siano costretti a trovarsi un altro lavoro. Una volta che Salvini non sarà più ministro le fonti, i soldi e la dettatura dell’agenda politica non saranno più gli stessi.

Ma hanno fatto esperienza, sapranno riciclarsi, sempre al servizio del potente del momento. Come i fascisti, i più servi e i più stupidi, di sempre e da sempre, come quello qua sotto.


Il micidiale combinato disposto – dall’alto con un ministro che dichiara e ciancia ogni quarto d’ora, dal basso con un sistema di penetrazione massivo nei social – aveva già preparato l’operazione. Un carabiniere ucciso in servizio, immigrati indicati come assassini, ondata di sdegno nel paese, escalation di richieste di vendetta (“legale” o di fatto) e di misure repressive. Da ambienti delle forze dell’ordine era stata fatta partire una fake news addirittura con le foto dei nordafricani “colpevoli”.


Ma i fatti hanno demolito tutto questo, tranne uno: un carabiniere è davvero rimasto ucciso.

Gli assassini non erano arrivati sui barconi, ma con un volo di linea; sono extracomunitari ma di lusso, anzi cittadini di una potenza dominante ancorché “alleata”; non ciondolavano per le strade in “attesa di delinquere”, ma delinquevano per cercare un po’ di cocaina per festeggiare alla grande le vacanze romane.

Una fattualità che ha costretto la “bestia” ad ammutolire dopo aver provato per un'intera giornata a orchestrare un impressionante volume di menzogne e strumentalizzazioni, partite dall’interno stesso delle “forze dell’ordine”. Un primo smacco per Salvini.

Ma la ricostruzione della vicenda sta portando alla luce particolari assai poco chiari sull’intervento dei carabinieri che ha portato alla morte di uno di loro. Per la prima volta, nella nostra pur non breve vita, abbiamo visto da vicino un “facilitatore di pusher” invocare l’intervento dei carabinieri, piuttosto che “gente del giro” per recuperare lo zaino sottrattogli da due sbarbatelli statunitensi. Le anomalie sui tempi e le modalità dell’intervento dei carabinieri sono al vaglio della magistratura. Ci sono cose che continuano a non quadrare sul piano della “regolarità” dell’intervento. Si sente da lontano la “manina” che cerca di “aggiustare” tutte le tessere del mosaico per salvaguardare l’immagine santificata dell’Arma.

Contemporaneamente alla vicenda di Roma, mentre la retorica ufficiale si concentrava sul militare ucciso, altri fatti mettevano alla sbarra episodi molto poco edificanti e altrettanto delittuosi che investono proprio l’arma dei Carabinieri. Tre sottufficiali del corpo sono stati rinviati a giudizio per l’omicidio e l’occultamento del cadavere di una ragazza ad Arce, provincia di Frosinone, provando per anni a depistare le indagini. Un quarto carabiniere sarebbe stato istigato al suicidio da uno degli imputati.

Poche settimane prima in un’altra località di provincia, Civitavecchia, un altro sottufficiale dei carabinieri è finito indagato per favoreggiamento e falsa testimonianza in un omicidio: quello di Marco Vannini. Nell’operazione contro la ‘ndrangheta in Calabria è stato arrestato anche un “membro delle forze dell’ordine” di cui si tace pudicamente norme e corpo d’appartenenza.

Coincidenze temporali, certo, ma sempre più numerose. Il cesto delle mele marce comincia ad essere un po’ troppo pieno per non essere considerato nel suo peso effettivo. I vertici dell’Arma cominciano ad avere un bel da fare per tamponare domande sempre più insistenti e sempre più scomode. La retorica di Salvini non basta a stopparle.

Infine la circolazione della foto di uno dei due ragazzi fermati per l’omicidio di Roma, in cui lo si vede bendato e legato alla sedia in una caserma e circondato dai militi. Chi l’ha messa in circolazione, è stato anche ammesso, viene dall’interno. Un altro episodio di “fuga di foto” era già avvenuto pochi giorni prima nel caso di Carola, la capitana della Sea Watch che la “bestia” aveva voluto mettere alla berlina. Due punti fanno una linea, la “pratica” – per le vicende che si intende spingere mediaticamente – è questa. Ed è un secondo smacco.


La foto messa in circolazione è un boomerang totale per la “bestia” di Salvini, per due motivi che un qualsiasi ministro dell’Interno dovrebbe conoscere.

Il primo è che rischia di invalidare la correttezza degli interrogatori degli imputati. Il secondo è che gli imputati sono cittadini statunitensi e non della Nigeria, verso i quali la “Bestia” – e i suoi “corrispondenti” nelle caserme o nei commissariati – avrebbe voluto far gonfiare una gogna mediatica con possibili effetti di pogrom anti-migranti (CasaPound e Forza Nuova stanno lì per quello).

Aver dato in pasto ai media quella foto consente a qualsiasi collegio di difesa di chiedere l’invalidamento delle prime ammissioni degli imputati (checché ne dicano i solerti magistrati dell’accusa), soprattutto se quel collegio di difesa vedrà degli avvocati statunitensi (con dietro la potenza di fuoco dell’ambasciata).

In secondo luogo, un infame trattato internazionale imposto da Washington a tutti gli Stati con cui hanno un rapporto feudale, prevede che i cittadini statunitensi non possano essere processati nei paesi in cui commettono reati ma solo negli Usa.

È il trattato, ad esempio, che ha salvato il culo ai piloti Usa responsabili della strage del Cermis. Salvini potrà starnazzare quanto vuole, ma visto che anche lui è andato a leccare le scarpe a Trump, sarà costretto a lasciar andare i due imputati statunitensi negli Usa per essere processati là e non qua. Il rodomonte della sovranità dovrà così abbassare la testa davanti all’imperatore.

E sarà il terzo smacco. Un primato di servilismo.

Come dicevano i saggi? Mai sputare verso il cielo!

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