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05/03/2020

Coronavirus, territorio ignoto del politico


Una collettività esiste come cosa pubblica, ed è messa in discussione quando in essa si forma uno spazio estraneo alla cosa pubblica, che contraddice efficacemente quest’ultima” (Carl Schmitt)

Se adattiamo questa citazione di Schmitt a quanto sta accadendo a causa del coronavirus possiamo affermare che l’epidemia in corso, nel momento in cui si espande, è quello spazio estraneo che cresce dentro la cosa pubblica e la contraddice in modo efficace: ne mette cioè in discussione il funzionamento e i modi stessi di pensarla.

Infatti nel momento in cui l’Organizzazione mondiale della sanità del coronavirus dice “siamo di fronte ad un territorio ignoto” non rivela solo lo stato di crisi della governance sanitaria globale ma anche della stessa cosa pubblica, della collettività, disgregate da qualcosa di estraneo a cui non si sa come far fronte. E, alla fine, nonostante Schmitt siamo anche all’evaporazione del politico: nell’epidemia nessun sovrano è in grado di decidere efficacemente nello stato di emergenza.  E come durante la grande peste di Londra del 1665: nel caos la medicina cerca disperatamente nuove tecnologie per capire cosa sta accadendo mentre la politica è ridotta alla sopravvivenza (fenomeno, quello della parentela tra politico e grigia sopravvivenza, che la grande letteratura politica tende a rimuovere ma che antropologi come Abélès hanno descritto in modo efficace). Poi, come accaduto allora, dopo la crisi, una volta rimosse le macerie, la cosa pubblica torna in qualche modo coesa. Ma, appunto, dopo lo stato di minorità e sofferenza indotto dalla crisi e con una ristrutturazione mai indolore di poteri e società.

In questo senso, come spesso accade, la teoria politica e le prescrizioni sanitarie si incontrano. Ma non in presenza di immaginifici stati di eccezione, anche se tratti da un’ottima letteratura, come di altrettanto immaginifici stati di panico, ma di fronte al peggior nemico della dimensione medica e di quella politica: l’ignoto. La dimensione che manda in crisi radicale il campo medico come quello politico sul punto più delicato: la legittimazione, nel primo caso della medicina come pratica, a qualunque costo, della cura, nel secondo del politico come pratica, a qualunque costo, dell’ordine.

Sulla vicenda coronavirus, come sempre quando si tratta di ignoto, si sono creati degli equivoci che si sono trasformati in veri ostacoli epistemologici per niente utili in questa situazione:

- primo ostacolo: la comparazione tra coronavirus e influenza: ha anche creato una corsa a dimostrare l’esistenza di una bolla mediale, che gonfiava il pericolo del virus, invece che la mappatura di un terreno ignoto (ammesso dalla stessa Oms);

- secondo ostacolo: l’affermazione dell’esistenza di panico in corso quando a livello planetario abbiamo semplicemente visto un picco di acquisti di supermercati dovuto alle notizie su qualcosa di sconosciuto. Il panico, si ricorda, è fatto di saccheggi e violenze, non di carrelli che fanno la fila alla cassa, e finora questo non si è visto (e il panico è mancato anche nelle zone rosse cinesi);

- terzo ostacolo: l’instaurazione di uno stato di eccezione in cui il politico è sovrano in ultima istanza.

In realtà neanche la Cina ha instaurato questo genere di regime ed è accaduto qualcosa di simile al periodo della Sars: una originale governance, tra poteri molto diversi tra loro: il sovrano locale in cooperazione con l’organizzazione deterritorializzata, l’Oms.

Anche in Italia è accaduto qualcosa di simile con il comitato di scienziati voluto da Conte (a sua volta collegato alla concertazione con le parti sociali). Il risultato è sempre simile: la cosa pubblica, qualsiasi sia, ridefinisce i propri poteri interni e nuovi equilibri verso l’esterno, perde porzioni di sovranità e di governo a favore della furia del virus: è riorganizzazione caotica nello stato di emergenza non dittatura nello stato di eccezione.

Quello che sta accadendo, infatti, è qualcosa che Schmitt conosce bene: il progressivo esaurirsi del nomos (capacità di creare ordine nel senso più profondo) nell’epoca della globalizzazione: per cui un virus non fa altro che accelerare le tendenze profonde presenti nella secolare disgregazione del nomos: provoca perdita di sovranità di fronte ad un fenomeno qui alieno, le difficoltà di riorganizzazione del potere medico, l’incapacità materiale di far valere poteri e norme e l’incerta cooperazione tra poteri per la sopravvivenza nel presente e nell’immediato futuro.

Da questa serie di equivoci, e dalla difficoltà a concepire come il virus disgrega la cosa pubblica che lo ospita, vediamo il classico travisamento su quello che accade sul punto più alto del potere del mondo: il dominio finanziario. Infatti l’equivoco della bolla mediatica ha creato l’equivoco della bolla finanziaria: la finanziarizzazione di ogni atto della vita umana, dovuta all’egemonia della finanza su ogni sfera pubblica e non solo sull’economia, non significa che l’eventuale panico sociale diventa anche panico di borsa (casomai accade sempre il contrario). Il coronavirus significa soprattutto che, con le misure di emergenza, sono state colpite diverse filiere della globalizzazione produttiva e, con loro, tutte le filiere di finanziarizzazione della produzione e anche del consumo legate a questo fenomeno. Lo stato, già precario, della finanza globale ha fatto il resto. Di lì il ritorno della volatilità in borsa e l’intervento delle banche centrali.

Una volta chiariti gli equivoci, la realtà: siamo di fronte ad una ridefinizione di poteri e di fronte ad un arretramento della sovranità della società su se stessa dovute al crescere dell’alieno, il virus. Quando tutto questo sarà finito ci saranno nuovi equilibri, magari precari, e nuovi modi di definire vecchie disuguaglianze. Ad oggi il viaggio nell’ignoto porta a questo.

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