Al tempo in cui la Lombardia si buttava sulla gastronomia, e tra i rampolli della sinistra metropolitana «Panettone di Stato» era sinonimo di decrepitezza politica, di marcio Welfare State, di socialismo Ottocentesco, anche il proletario di Baggio o di Quarto Oggiaro cedeva al fascino del Culatello, e si riterritorializzava sul Wellness.
La Ragione di Stato – ovvero la politica – inventata in Italia nel XVI secolo, ha avuto il momento di massimo splendore storico proprio col Welfare State. Mai come in questo periodo (i “gloriosi Trenta”, ossia il secondo dopoguerra), il formidabile gioiello dell’Amministrazione, con la statistica e il calcolo, il censimento, la contabilità, la rete sanitaria, la scuola, la fabbrica, i mezzi di trasporto, l’informatica e la telematica, la moneta elettronica, è stato utilizzato in modo così capillare e sistematico, tanto da far scrivere a Foucault e a Goffman di trovarci per davvero in una società del controllo totale.
Ma questa società totalitaria, ammesso che lo fosse, ha prodotto tutto ciò che oggi ci appare nuovo e luccicante.
Il sistema operativo Unix (e i suoi derivati Unix-like), oggi alla base della rete telematica mondiale, dei telefonini Android e iOS, dei sistemi di controllo nell’automotive, nella domotica, eccetera; oppure il Touch screen, il mouse, il telefono portatile – la lista è lunghissima – tutti questi dispositivi sono stati inventati, perlopiù in università pubbliche, nei gloriosi anni del Welfare State. Periodo in cui si capì che a fare la forza è il numero, che la forza dell’università sta nel numero dei professori e degli studenti che la frequentano; che la forza di uno Stato sta nel numero di persone che percepiscono un reddito e lo spendono per stare bene, e non nel numero del PIL, che somma la sfiga alla strafottenza, restituendo una media strampalata.
I grandi numeri non si controllano col pallottoliere, non si può mandare per le calli un sindaco, accompagnato da un messo con penna, carta e tablet, come se fossimo al tempo di Edoardo Plantageneto, quando, per esigere i tributi, si mandava in giro per il Regno il cancelliere con un tavolino a scacchiera (Chancellor of the Exchequer), e chi trovava trovava, chi poteva si nascondeva.
Nel 1589 Giovanni Botero, nato a Bene Vagienna (Cuneo), scrive la Ragion di Stato. Con questo libro, e non con Il Principe, si inaugura la politica moderna, ovvero al bio-politica, come la chiama Foucault.
Siamo nel XVI secolo, le corti italiane sono le più ricche del mondo. I mezzi «atti a fondare, conservare e ampliare un dominio», sono gli stessi raccomandati da Machiavelli, sono le armi, le fortezze, l’astuzia, il coraggio dei capitani, il valore delle milizie, la cavalleria e la fanteria, i modi di tenere una roccaforte, la marina militare e le forze di terra, le leggi dello Stato, la sapienza, eccetera.
Ma soprattutto, e questo Machiavelli non lo dice, per mantenere uno Stato, non è più sufficiente per il Re andare in giro per il Regno con un tavolo a scacchi (da qui il titolo di Cancelliere dello Scacchiere, ancora in uso), ed esigere i tributi dalle persone incontrate per strada. La raccolta dei tributi non può avvenire in modo casuale.
Innanzitutto, le popolazioni devono essere censite, bisogna dotarsi di strumenti statistici, bisogna contare le teste, una ad una, verificare la loro distribuzione sul territorio, registrare le genti per gruppi affini, per professioni, per focolai, per mestieri, eccetera. Per avere il controllo della situazione, per obbligare ciascuno a contribuire alla macchina dello Stato, ma, soprattutto, per far in modo che lo Stato funzioni come una macchina, ci vogliono statisti, politici nuovi, con vedute ampie e controllo della situazione, ci vuole una burocrazia diffusa e preparata, che presidi il territorio, e controlli ogni snodo, ci vogliono registri, sistemi di calcolo automatico, ci vogliono depositi e archivi, eccetera, ci vuole lo Stato.
Quando anche una casa editrice della sinistra radicale ha inaugurato una collana di Gastro-Nomia, sostituendo i titoli di Marx e Keynes con quelli di Carnacina e Carlo Petrini, anche io mi sono sentito un po’ vecchio con il mio Panettone Motta.
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