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16/03/2020

Degooglizziamoci! Sì, ma come?

Approfittando della chiusura delle scuole, causa coronavirus, Google sta promuovendo i suoi prodotti per la formazione e le lezioni a distanza. Non è la sola azienda a farlo. Questa pagina ufficiale del governo italiano elenca una lunghissima serie di imprese che offrono “solidarietà” in un momento difficile.

Sono numerose le multinazionali come Amazon che si limitano a ritoccare leggermente la durata di promozioni già in essere, in pratica i “periodi di prova”. È un caso di privatizzazione soft, come ben spiegato in questo articolo. Lo stesso testo pone il problema ormai noto della privacy: la multinazionale di Mountain View ricava i suoi profitti esclusivamente dalla rivendita di dati.

Dobbiamo evitare la cessione gratuita delle nostre informazioni personali. A maggior ragione in un settore delicato come la scuola. E dovremmo abbandonare Google a favore di software alternativi.

Viene in mente una prima considerazione. La sospensione delle lezioni ha messo in evidenza la necessità, per gli istituti, di una piattaforma per svolgere didattica a distanza. Numerosi fornitori privati, da piccole aziende a grandi multinazionali, si sono fatti avanti. Tra questi, l’offerta di Google è la più accattivante: gratuita, dotata di un’interfaccia familiare, semplice da usare.

Una infrastruttura digitale è oggi importante quanto quella fisica. Per questo è grave la mancanza di piattaforme pubbliche.

Il problema, però, sta molto più a monte. Se lo Stato, anziché costruire edifici destinati alle scuole, lasciasse che ogni istituto affittasse un immobile, senza un criterio, tutti diremmo che si tratta di una scelta folle. Oggi un’infrastruttura digitale è altrettanto importante di quella fisica. Non avere ancora una piattaforma digitale pubblica è una mancanza in cui per forza di cose multinazionali ben strutturate si inseriscono.

L’articolo già citato pone, tra tantissimi aspetti condivisibili, quattro punti cruciali. Dobbiamo favorire il codice aperto; continuare a produrre codice gratuitamente e farlo circolare senza barriere; temere azioni repressive dalla nostra cessione di dati a piattaforme private come Google; infine abbandonare i software proprietari a favore delle alternative “libere”.

Questi punti meritano un approfondimento.

1) La consueta contrapposizione tra codice aperto e chiuso

Per anni Microsoft è stato il bersaglio preferito del movimento per il software libero. Il motivo è semplice: la scelta di “nascondere” il codice dei suoi programmi. Google, invece, ha sempre favorito la scelta opposta: codice aperto.

Evidentemente non è bastato, così come non è stata sufficiente l’enorme diffusione di Linux. Oggi la maggior parte dei server è equipaggiato con sistemi operativi “open source”, ma questo non le rende migliori.

2) Il lavoro gratuito

Linux così come infiniti altri progetti open source sono stati realizzati e migliorati col lavoro collettivo – e gratuito – di un’enorme comunità di volontari sorretti dall’entusiasmo e dalla speranza di contribuire a un mondo migliore.

Non è andata così. Le multinazionali hanno “catturato” il loro lavoro. Continuano a farlo e ne estraggono valore che non distribuiscono. Microsoft ha acquisito GitHub, la più grande comunità al mondo di sviluppatori che per anni hanno ceduto gratuitamente il proprio lavoro e oggi si trovano sotto il cappello di un’altra multinazionale.

Linux è oggi usato sulla maggior parte dei server delle aziende. Ma questo non le rende migliori.

Gli attivisti hanno sostenuto la necessità di produrre gratis il codice, farlo circolare senza barriere e cancellare il copyright. Non solo per i software, ma per qualunque prodotto culturale. La domanda rimane: “ma come sopravviverà chi lavora in questo modo?” La risposta è solitamente: “vendendo servizi collaterali”. Il presupposto è squisitamente liberista. Avrebbe senso se fossimo tutti uguali. Ma lo sviluppatore a partita Iva può permettersi di sostenersi con “servizi collaterali”? Può cedere il suo lavoro sapendo che lo utilizzerà anche e soprattutto la multinazionale che ha i mezzi per moltiplicarne il valore?

È tempo di chiedersi: perché continuare a favorire il lavoro gratuito?

3) La dittatura

Infine, si dice che non dobbiamo cedere i nostri dati a Google in nome di un pericolo potenziale. Potrebbero essere usati a fini repressivi. È possibile. Ma l’idea che il “capitalismo della sorveglianza” ci porterà a situazioni di tipo “cinese” o favorirà poteri dittatoriali non è scontata.

Google nasce nella cultura anarco-capitalista di San Francisco e, per il momento, ottiene extraprofitti mai visti. Oggi a Mountain View va benissimo un mondo “libero” che permette di fare soldi come mai prima.

Non è quindi detto che i dati saranno usati per arrestarci in piena notte (cosa che comunque possono fare già oggi). Meglio usarli per convincerci a comprare qualunque cosa. Il marketing diventa psicometria ed è già controllo sociale. Insomma, più Marx che Foucault.

Il problema di Google non è quello che potenzialmente potrebbe fare, ma quello che fa già.

Tuttavia, le generazioni che si sono formate leggendo “1984” e che hanno vissuto il nazi-fascismo, hanno giustamente paura del ritorno di un regime che limita la libertà, censura le opinioni scomode, istituisce nuove proibizioni.

È esattamente il contrario di quello che stanno facendo i “Tech Giants” californiani. Se tornerà il fascismo, non sarà a causa loro. Facebook preferisce la diffusione di notizie false su scala mondiale all’istituzione di un filtro efficace. Google ha bisogno di informazioni e quindi di cittadini – consumatori che si spostano e agiscono senza limitazioni. Le barriere sono un ostacolo ai loro profitti.

Il problema è dunque nel modello economico. Queste aziende assumono pochissimi lavoratori, delocalizzano dove conviene, non pagano tasse e distruggono economie locali. Sono desertificatori. Basta e avanza per desiderarne la fine.

4) La via d’uscita

La soluzione indicata, in generale, è quella di passare ai software alternativi. È un po’ come pensare di sconfiggere i supermercati convincendo tutti a fondare un Gruppo di acquisto solidale. Non funziona. Ci proviamo da anni ma i numeri sono sempre troppo bassi. È un tentativo che può essere complementare, ma non può sostituire la politica. Altrimenti si rimane dentro un paradigma individualista (si cambia il mondo con i nostri piccoli gesti etc. etc).

Oggi Google e Facebook possono ricavare i nostri dati anche se non usiamo i loro servizi.

A questo si aggiunge l’enorme fiducia che i giganti del web sono riusciti a conquistare. La prova è arrivata qualche mese fa, in occasione della protesta contro quella che è stata definita password di Stato. In realtà era soltanto la proposta di usare Spid, un sistema di autenticazione crittografato e sicuro usato in alcuni servizi pubblici, anche per qualche sito privato.

La protesta di massa ha causato rapidamente il ritiro dell’idea. Gli utenti non hanno nulla in contrario a usare il “Facebook login”, che scambia la comodità di una password memorizzata con la cessione all’estero e la probabile rivendita dei nostri dati personali. Invece non si fidano assolutamente di un sistema statale e sicuro, che presumibilmente non cederà dati a terzi.

Come riconosciuto nell’articolo citato all’inizio, a Google (o anche a Facebook) non importa nulla se decidiamo di usare sistemi alternativi. Perché possono ottenere i nostri dati dai nostri amici. Perché possono costruire un profilo analogo al nostro attingendo dall’infinità di segmenti che hanno acquisito.

Allora meglio soluzioni “old style” come ad esempio:

- smembrare Google in nome dell’antitrust (proposta di alcuni politici Usa);
- nazionalizzare i dati;
- chiedere trasparenza e accesso ai loro server;
- imporre il pagamento delle tasse locali;
- infine, sviluppare codice pubblico in maniera strutturale e organizzata.

A questo proposito, in Italia esiste solo Agid, un’agenzia che per anni è andata avanti con rinnovi di contratti precari!

Fonte

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