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30/09/2025

Equilibrium (2002) di Kurt Wimmer - Minirece

Gaza. Un piano di pace che va bene a Israele. Hamas prende tempo. Rispunta fuori Blair

Come prevedibile il piano di Trump su Gaza è stato accettato da Israele.

“Sostengo il vostro piano per porre fine alla guerra a Gaza che raggiunge i nostri obiettivi di guerra. Riporterà in Israele tutti i nostri ostaggi, smantellerà le capacità militari di Hamas, porrà fine al suo dominio politico e garantirà che Gaza non rappresenti mai più una minaccia per Israele”, ha detto Netanyahu.

Hamas al momento ha fatti sapere che discuterà “in modo approfondito” del piano Trump in 20 punti e “che è pronta a chiudere la guerra” a Gaza. A riferirlo è la tv saudita “Al-Sharq”, che cita due fonti palestinesi, secondo cui “la delegazione negoziale di Hamas ha informato i mediatori che il movimento terrà discussioni approfondite sulla proposta di pace del presidente degli Stati Uniti Donald Trump all’interno della propria leadership e con le fazioni palestinesi per studiarla e presentare una risposta che rappresenti tutti i palestinesi”. Secondo le fonti, “Hamas è desideroso di fermare la guerra e porre fine alle sofferenze del popolo palestinese”.

Una fonte diplomatica informata ha detto ad Al Jazeera che il Qatar e l’Egitto avevano consegnato alla delegazione negoziale di Hamas il piano della Casa Bianca per Gaza e che la delegazione aveva promesso ai mediatori di studiare la proposta in modo responsabile.

I mediatori di Qatar ed Egitto si sono incontrati lunedì con i rappresentanti di Hamas e hanno consegnato loro il piano del presidente degli Stati Uniti Donald Trump

Il segretario generale della Jihad islamica palestinese, Ziad al-Nakhaleh, considera il piano degli Stati Uniti una “ricetta per far saltare in aria la regione” e ha dichiarato che “il piano non è altro che un accordo americano-israeliano che esprime pienamente la posizione di Israele”, aggiungendo che “Israele sta cercando di imporre tramite questo piano ciò che non potrebbe ottenere con la guerra”.

“Siamo molto, molto vicini” al raggiungimento di un accordo di cessate il fuoco per Gaza, ha affermato Trump. “Sento che anche Hamas lo vuole”, ha dichiarato il presidente americano ringraziando Netanyahu “per aver accettato il piano” per far finire la guerra a Gaza. “Se Hamas non accetta, sosterrò pienamente Bibi nel fare quello che deve”, ha aggiunto Trump.

Il piano prevede l’avvio di un dialogo tra Israele e i palestinesi – ma né Hamas né Anp – per raggiungere un “orizzonte politico che garantisca una convivenza pacifica e prospera”, affermando al contempo che Israele non occuperà né annetterà Gaza, e che nessuna parte sarà costretta ad andarsene.

L’iniziativa include la sospensione di tutte le operazioni militari israeliane a Gaza, compresi i bombardamenti aerei e di artiglieria, per 72 ore dal momento in cui Israele dichiara pubblicamente la sua accettazione dell’accordo, durante le quali tutti i prigionieri vivi saranno rilasciati e i resti dei morti consegnati. In base al piano, Hamas rilascerà i resti di un prigioniero israeliano in cambio dei resti di 15 palestinesi deceduti di Gaza.

Il piano prevede il ritiro dell’esercito israeliano secondo calendari e criteri relativi al processo di disarmo, da concordare con le forze israeliane, i garanti internazionali e gli Stati Uniti

Dopo il completamento del rilascio degli ostaggi, Israele rilascerà 250 prigionieri politici palestinesi condannati all’ergastolo oltre ad altri 1.700 detenuti arrestati a Gaza dopo il 7 ottobre 2023.

Il piano garantisce l’accesso completo e immediato alla Striscia di Gaza dopo l’accettazione dell’accordo, mentre le disposizioni, tra cui l’espansione degli aiuti, saranno attuate nelle aree descritte dall’accordo come “libere dal terrorismo” se Hamas ritarda o rifiuta la proposta.

Secondo la Casa Bianca il piano di Trump prevede un passaggio sicuro per i membri di Hamas che desiderano lasciare la Striscia.

Il presidente degli Stati Uniti ha rivelato che il piano proposto prevede l’istituzione di un nuovo organismo di supervisione internazionale sulla Striscia di Gaza chiamato Consiglio di Pace e co-presieduto dallo stesso Trump e dall’ ex premier britannico Blair, che vede così confermate le voci sul suo rientro in campo quando si diffonde l’odore dei soldi.

Il piano si concentrerà poi sulla Gaza del dopoguerra e promuove un “piano di sviluppo economico di Trump” per rivitalizzare Gaza, che ha molti parallelismi con il piano “Riviera” di Gaza che Trump aveva inizialmente proposto.

Anche oggi le forze armate israeliane hanno ucciso almeno 30 palestinesi a Gaza dall’alba, ha riferito Al Jazeera citando fonti ospedaliere. Il numero include almeno 15 palestinesi vicino a un centro di distribuzione degli aiuti nel centro della Striscia di Gaza, hanno riferito gli ospedali di al-Awda e al-Aqsa.

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Due fregate della Marina turca scortano la Sumud Flotilla, a due giorni di viaggio da Gaza

La Turchia ha evacuato oggi nel Mediterraneo i passeggeri di una nave della flotta della Global Sumud Flotilla, riporta l’agenzia di stampa turca Anadolu. L’imbarcazione, denominata “Johnny M” si trovava in una zona compresa nel triangolo tra Creta, Cipro ed Egitto, quando ha inviato un Sos via radio alle prime ore del mattino, riferendo che il vano motore stava imbarcando acqua.

A bordo vi erano attivisti provenienti da Lussemburgo, Francia, Finlandia, Messico e Malesia.

In una dichiarazione rilasciata su Instagram, la Global Sumud Flotilla ha sottolineato che l’evacuazione “si è svolta senza intoppi grazie al rapido coordinamento del governo turco e al contributo della Mezzaluna rossa turca sul campo”.

Ma è evidente che la decisione turca di inviare due fregate della propria marina militare a scortare da vicino la Global Sumud Flotilla cambia anche lo scenario politico che appariva bloccato. Già nei giorni scorsi, del resto, alcuni droni turchi aveva sorvolato la Flotilla con intenzioni chiaramente “difensive”.

A questo punto Israele – se, come ha promesso fin dall’inizio tratterà gli attivisti “come terroristi” – non avrà più di fronte solo dei pacificissmi attivisti, ma direttamente i militari di un paese che fa parte della Nato. E fra l’altro con l’esercito più grande dopo quello statunitense.

La stessa Israele è peraltro un partner dell’Alleanza Atlantica, e la nuova situazione non potrà che mettere in imbarazzo tutti gli euro-atlantici. In primo luogo quelli che – come l’Italietta dei complici del genocidio, sperava di risolvere il problema Flotilla con la sospensione della missione o almeno con una limitazione della violenza da parte dei soldati dell’Idf (in pratica Tajani avrebbe chiesto di arrestarli tutti, ma di evitare cose peggiori).

La presenza militare turca, infatti, è tutt’altro che simbolica. Non si limita, come quella italica, a “controllare da lontano gli accadimenti”, ma viaggia – come si vede nel video allegato – praticamente al fianco della Flotilla. Un eventuale attacco israeliano, insomma, potrebbe provocare reazioni e grossissimi problemi diplomatici dentro la Nato.

Per la prima volta dalla guerra a Gaza del 2023, il Mediterraneo orientale diventa teatro di un possibile scontro tra flotte regolari. Oltretutto appartenenti alla stessa alleanza.

Chi diceva che questa iniziativa “non serviva a niente”, è servito.

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Che cos’è il Golden Dome, lo scudo spaziale di Donald Trump

Raggi laser sparati dai satelliti. E altri satelliti “sentinella” a sorvegliare il cielo statunitense, oltre a batterie antimissile in allerta 24 ore su 24. Il Golden Dome Shield – la “Cupola d’oro” di Donald Trump – sarà una rivoluzione per la Difesa a stelle e strisce. E potrebbe anche sancire l’avvio di una nuova Guerra Fredda, questa volta combattuta in orbita.

Il faraonico scudo spaziale del presidente degli Stati Uniti sta però dividendo il Paese, con una battaglia su un budget da 175 miliardi di dollari e con una raffica di critiche sull’efficacia militare di questo arsenale che “proteggerà la nostra patria”, come ha detto Trump a metà maggio dagli hangar della Al Udeid Air Base, nel deserto del Qatar. Per poi aggiungere, prima dallo Studio Ovale e poi al vertice Nato dell’Aja, che “avremo il miglior sistema mai costruito”. La Cupola d’oro intercetterà i missili “anche se vengono sparati dall’altra parte del mondo” e persino dallo spazio.

Trump mira a realizzare oggi il sogno delle Star Wars di Ronald Reagan negli anni ’80: un “ombrello spaziale” che protegga gli Stati Uniti dalla grande paura di un attacco missilistico sferrato dai suoi nemici: Iran, Corea del Nord, Cina o Russia.

Oltre al programma del suo predecessore, la Cupola d’oro ha un’altra fonte di ispirazione: l’Iron Dome, lo scudo di Israele che – nonostante i dubbi sollevati sulla sua reale efficacia – ha intercettato razzi e missili dall’Iran e dalle milizie proxy filo-iraniane. Secondo Jeffrey Lewis, esperto di Difesa del californiano Middlebury Institute, la differenza tra quest’ultimo e la proposta di Trump sarebbe pari a quella tra “un kayak (l’Iron Dome) e una corazzata (il Golden Dome)”.

L’allarme del Pentagono

Da anni, il Pentagono sostiene che gli Stati Uniti non abbiano tenuto il passo con gli ultimi missili sviluppati da Cina e Russia, che tradotto vuol dire: sono necessarie nuove contromisure. I generali statunitensi hanno rivelato che Mosca e Pechino possiedono centinaia di missili balistici intercontinentali, oltre a migliaia di missili da crociera in grado di colpire la terraferma da New York a Los Angeles.

I sistemi di difesa missilistica a terra statunitensi, in Alaska e in California, hanno fallito quasi la metà dei test. All’inizio dell’anno, un alto ufficiale ha avvertito che – in caso di conflitto, magari legato a un’invasione di Taiwan – i missili cinesi potrebbero colpire la base aerea di Edwards, in California.

In un’analisi dettagliata sulla rivista Defense News, gli esperti Chuck de Caro e John Warden hanno spiegato perché la Cupola d’oro non è sufficiente per fermare un attacco cinese contro gli Stati Uniti: “Oggi gli Stati Uniti potrebbero trovarsi in una situazione simile a quella della Corea nell’ottobre 1950: sebbene il presidente Donald Trump stia compiendo sforzi intensi per rafforzare la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, con iniziative che vanno dall’F-47 e dal B-21 Raider alla promessa di un sistema di difesa aerospaziale denominato Golden Dome, questi sistemi non sono ancora operativi”. Comunque, proseguono gli analisti, “la Cina ha costantemente aumentato il proprio potere offensivo sotto la guida del presidente Xi Jinping”.

Golden Dome: come funziona

Il Golden Dome Shield, sfruttando una costellazione di centinaia di satelliti e grazie a sensori e intercettori sofisticati, potrebbe neutralizzare i missili nemici in arrivo anche subito dopo il loro decollo e prima che raggiungano gli States.

Un esempio? Proviamo a immaginare che un giorno la Cina decida di lanciare un missile contro gli Stati Uniti. Grazie al Golden Dome, i satelliti americani rileverebbero le sue scie luminose. E, mentre il missile sarebbe ancora nella sua fase di “spinta”, uno degli intercettori spaziali tramite un raggio laser, o una munizione alternativa, farebbe esplodere il missile eliminando la minaccia.

Il nuovo sistema di difesa si estenderà su terra, mare e spazio. Servirà per neutralizzare un’ampia gamma di minacce aeree “di nuova generazione”, tra cui missili da crociera, balistici e ipersonici. Questi ultimi, in particolare, sono i più difficili da abbattere per la loro manovrabilità ad alta velocità.

Il Golden Dome dovrebbe fermare i missili in tutte e quattro le fasi di un potenziale attacco: rilevamento e distruzione prima di un’offensiva, intercettazione precoce, arresto a metà volo e arresto durante la discesa verso un obiettivo. E lo farà grazie a una flotta di satelliti di sorveglianza e a una rete separata di satelliti d’attacco. La “Cupola d’oro” fermerà anche i sistemi di fractional orbital bombardment (Fob, Sistema di Bombardamento Orbitale Frazionale) in grado lanciare testate dallo spazio.

In campo i giganti delle armi

Fiutando un’opportunità di business senza precedenti, i giganti dell’industria militare americana – L3Harris Technologies, Lockheed Martin e RTX Corp – si sono già schierati in prima fila. L3Harris ha investito 150 milioni di dollari nella costruzione di un nuovo stabilimento a Fort Wayne, nell’Indiana, dove produce satelliti per sensori spaziali che fanno parte degli sforzi del Pentagono per rilevare e tracciare le armi ipersoniche.

Al 40esimo Space Symposium di Colorado Springs, Lockheed Martin ha invece diffuso un video promozionale che mostra una Cupola d’oro che scherma le strade deserte e notturne delle città americane. Per 25 miliardi di dollari, la Booz Allen Hamilton, società di consulenza tecnologica della Virginia, sostiene di poter lanciare in orbita duemila satelliti per rilevare ed eliminare i missili nemici. Mentre dall’US Space Force, in qualità di vicecapo delle operazioni, il generale Michael A. Guetlein, a cui Trump ha affidato la regia del mega progetto, ha assicurato che il Golden Dome sarà operativo entro la fine del suo mandato nel 2030.

Il finanziamento di quest’opera, però, è una sfida enorme. Per ora sul piatto ci sono 25 miliardi di dollari: un settimo della spesa totale ipotizzata. Il governo stima infatti che la Cupola d’oro possa costare fino a 175 miliardi di dollari, una cifra che il Congressional Budget Office punta a far rientrare nel più corposo bilancio da 542 miliardi che gli Stati Uniti intendono spendere in progetti spaziali nei prossimi vent’anni. Un’iniziativa cara come l’oro, dunque. Anche perché Trump, sembra ossessionato dal prezioso metallo (il suo ufficio alla Casa Bianca è stato del resto letteralmente dorato: dalle tende al telecomando della Tv).

Uomini d’oro e conflitto di interesse

Mentre i colossi della difesa e dello spazio fiutano l’affare, nel resto degli Stati Uniti divampano gli scontri su costi e appalti. Perché a costruire la Cupola d’oro si sono candidati uomini d’oro: in pole position c’è il miliardario Elon Musk, proprietario di SpaceX e della costellazione Starlink, ex braccio destro di Trump prima che la loro liaison finisse, con il magnate che ha lasciato la Casa Bianca sbattendo la porta.

Un voltafaccia che il presidente non ha digerito: sebbene SpaceX rimanga il frontrunner del settore, l’amministrazione USA è a caccia di nuovi partner spaziali da imbarcare nel progetto, a cominciare dal Project Kuiper di Amazon di Jeff Bezos, insieme alle startup Stoke Space e Rocket Lab, mentre la Northrop Grumman sta alla finestra consapevole di poter essere il vincitore nel lungo periodo.

Siccome il Golden Dome sarà un concentrato tecnologico, in campo ci sono anche Palantir, società di analisi dei big data del tycoon conservatore Peter Thiel, e Anduril di Palmer Luckey, azienda specializzata in sistemi autonomi avanzati, dall’intelligenza artificiale alla robotica.

Intanto un gruppo di 42 membri del partito Democratico ha scritto all’ispettore generale del Pentagono per aprire un’indagine, dopo che si è saputo che SpaceX potrebbe aggiudicarsi un maxi contratto per la costruzione del Golden Dome. Con in testa la senatrice Elizabeth Warren, i democratici chiedono trasparenza ed esprimono timori per possibili “conflitti di interesse” tra l’amministrazione Trump, Musk e le altre aziende americane.

Lo scetticismo dei militari

Passando dal fronte economico a quello militare, più di un esperto è scettico sull’efficacia del Golden Dome Shield: malgrado Trump continui a dire che frenerà le minacce al 97%, sul progetto aleggia più di un interrogativo. Anzitutto, come saranno gli intercettori? È ancora da decidere. Un dirigente della stessa Lockheed Martin non ha nascosto, parlando con il sito Defense One, che intercettare un missile nella sua fase di spinta è “terribilmente difficile” e che si potrebbe metterlo fuori combattimento solo “nelle fasi relativamente lente dopo il suo lancio”.

Per Thomas Withington, esperto di electronic e cyber warfare del Royal United Services Institute, i raggi laser sono preferibili ai missili, pesano meno e riducono il costo di lancio dell’intercettore. Ma ammette che questa tecnologia non è mai stata testata nello spazio.

Un gruppo indipendente dell’American Physical Society ha calcolato che servirebbero 16mila intercettori per mettere fuori uso 10 missili intercontinentali simili all’ipersonico Hwasong-18 nordcoreano. Per questo motivo, su The Spectator, Fabian Hoffmann, ricercatore di tecnologia missilistica del Centre for European Policy Analysis, ha definito il Golden Dome un “progetto mangiasoldi”.

Una nuova Guerra Fredda

Negli Stati Uniti non mancano i perplessi. L’ufficio indipendente del bilancio del Congresso ha avvertito che il progetto potrebbe costare fino a 524 miliardi di dollari e richiedere 20 anni per essere realizzato. Ma i dubbi riguardano anche la validità e utilità dello scudo spaziale. Scienziati come Laura Grego, intervistata dal MIT Technology Review, definiscono il progetto, da sempre, “tecnicamente irraggiungibile, economicamente insostenibile e strategicamente poco saggio”.

E poi ci sono le conseguenze geopolitiche, che potrebbero minare gli equilibri delle superpotenze. La Cina ha già espresso la sua preoccupazione su questo progetto. Il Cremlino è pronto a parlare con Washington di armi tattiche e nucleari. Nel prossimo decennio, il pericolo è che si inneschi una spirale incontrollata, con una corsa agli armamenti anti-satellite per bucare il Golden Dome.

Come all’inizio di una nuova Guerra Fredda, è possibile che Trump stia cercando di costringere i suoi nemici a investire in tecnologie costose al fine di indebolirne l’economia, così come le “guerre stellari” di Reagan avevano contribuito a mandare in bancarotta l’Unione Sovietica.

Ma c’è anche il rovescio della medaglia: se la prossima amministrazione statunitense decidesse di cancellare il Golden Dome, a quel punto a finire in un buco nero sarebbero decine di miliardi di dollari statunitensi.

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Guerra in Ucraina - Il “pacco” di Trump è stato consegnato. Contiene dinamite

Sul conflitto in Ucraina è importante seguire i giornali europei più “bideniani” e guerrafondai per capire quale sia il “clima” all’interno dei vertici della UE (più la Gran Bretagna), e quali soluzioni siano in ballo sia per la prosecuzione della guerra che per la sua eventuale conclusione.

L’evento più rilevante delle ultime settimane è stata certamente la “svolta” verbale di Trump, che si è prima detto “deluso” da Putin (come se nelle relazioni tra superpotenze i sentimenti avessero anche solo un minimo di ruolo), quindi ha dichiarato che “l’Ucraina può vincere” (tre mesi prima Zelenskij aveva ammesso che proprio non era possibile), poi ha detto “sì” all’eventuale abbattimenti di “oggetti volanti russi” sul territorio della Nato, poi ha rimproverato la stessa UE perché continua a comprare gas e petrolio da Mosca anziché da Washington, esortando a mettere dazi al 100% sulle merci di Cina e India perché fanno la stessa cosa.

Nell’insieme queste sconclusionate affermazioni erano state accolte positivamente, dai guerrafondai nostrani. Poi anche i più entusiasti hanno cominciato a rifarsi i conti.

Tenuta sottotraccia come notizia, a Bruxelles hanno comunque dovuto registrare che gli Stati Uniti, nel frattempo, stavano smettendo di mandare armi “efficaci” – anche se pagate dalla UE – per scarsità di produzione e mutate esigenze yankee. E questo mentre l’attore di Kiev chiedeva nientepopodimeno che i missili Tomahawk per bombardare direttamente Mosca o San Pietroburgo. A quel punto mancava solo la richiesta di testate nucleari e il sogno poteva arrivare in fondo... 

Non serve aver studiato alla scuola del “realismo politico” – basta aver appreso qualcosa da Lenin – per sapere che molto prima di quei “trasferimenti” di armi saremmo già dentro la Terza Guerra Mondiale. E subito oltre(tomba), perché col nucleare non si scherza... 

Fantasie belliche a parte, è cominciato a serpeggiare il sospetto che la “svolta di Trump” fosse in realtà la versione yankee del “vieni avanti, cretino!” dell’antica tv anni ‘60. Insomma, un “pacco”, come si dice a Napoli.

Ha cominciato il Donald dei poveri, il polacco Tusk, avvertendo che la svolta trumpiana in realtà maschera “una promessa di ridotto coinvolgimento americano e un trasferimento di responsabilità all’Europa per porre fine alla guerra”. Poi, su X, ha sintetizzato: “Meglio la verità che le illusioni”. Detto da quello che aveva fatto bombardare una casa polacca per dimostrare che era riuscito ad abbattere dei “droni russi” non è poco... 

Ma la sveglia è suonata anche a Bruxelles. “Questo è l’inizio di un gioco delle colpe”, ha detto un funzionario sotto anonimato. “Gli USA sapevano che i dazi su Cina e India sarebbero stati impossibili” da accettare per l’UE. Trump “sta costruendo la via di uscita” per “poter incolpare l’Europa del fallimento, quando e se ne avrà bisogno”.

Insomma, “Trump vuole evitare che, dopo nove mesi al potere, questa guerra diventi anche la sua guerra” e non sia più solo “la guerra di Biden”, ha spiegato Carlo Masala, professore di affari internazionali all’Università della Bundeswehr (l’esercito tedesco) di Monaco.

Persino Kaja Kallas – cosiddetta “alto rappresentante della UE per la politica estera” – a lungo considerata fedele esecutrice dei desiderata Usa, sentita da POLITICO, sembra colta da dubbi amletici prima inammissibili: “Capisco ciò che stanno dicendo gli americani – che non possono esercitare pressioni sulla Russia perché ciò chiuderebbe i canali di comunicazione che hanno con la Russia, e loro sono gli unici a mediare”.

Però, se “offri tutto questo affinché [la Russia] venga al tavolo delle trattative, ma loro in realtà non fanno che escalare... questa buona volontà viene abusata da Putin. Ora la domanda è: cosa si fa a questo punto?”

Il problema è che proprio mancano le basi per impostare una risposta realistica, visto che il ragionamento si fonda su presupposti buoni per la propaganda spicciola, non certo per una postura strategica razionale.

Parte infatti dalle balle messe su dalla stessa UE (“Putin ci sta mettendo alla prova, per vedere fino a che punto può spingersi. Vuole vedere la nostra reazione”), per poi ammettere che “Se la tua risposta è troppo forte, anche questo ha un effetto [negativo, ndr] sulle nostre società”, perché i cittadini sono in ansia per un possibile tracimare della guerra nei loro territori (in realtà, come dicono i sondaggi, sono totalmente contrari a stragrande maggioranza). “Quindi questo è l’equilibrio che i leader devono trovare: non alimentare la paura all’interno della nostra società”. Pur alimentando la corsa alla guerra...

Gente che ragiona così ha problemi gravi. Da una parte partecipi entusiasticamente ad una guerra “fino all’ultimo ucraino”, spingi perché la Nato venga coinvolta più direttamente, metti in piedi una campagna di falsi allarmi che avrebbe l’unico scopo di creare consenso per un riarmo che altrimenti verrebbe rifiutato a furor di masse... E dall’altra ti preoccupi perché la paura – contrariamente ai tuoi obbiettivi – sta moltiplicando l’ostilità sociale alla guerra.

Dei governanti seri – non “comunisti”, ma almeno seri – si fermerebbero a ragionare sulla pesantezza del “pacco” consegnato via Casa Bianca (oltrepassava di molto i limiti di Amazon). E invece questi si mettono a ragionare su come espropriare 300 miliardi di depositi di cittadini o società russe fermi nelle banche europee.

E lo spiegano anche con un altro ragionamento delirante: “Se abbiamo raggiunto la conclusione per cui nessuno attorno al tavolo possa nemmeno lontanamente immaginare che la ricostruzione dell’Ucraina venga pagata dalle tasche dei nostri contribuenti, allora abbiamo bisogno di soluzioni. La Russia dovrebbe pagare per i danni che ha causato”.

Suona quasi logico, nel mondo astratto dei format propagandistici: prendiamo i soldi dei russi e li diamo agli ucraini, senza che noi ci rimettiamo un soldo. Anzi... 

Peccato che nel mondo reale del capitalismo tutto funziona in un altro modo. Se un intero continente decide di sequestrare beni finanziari depositati nelle proprie banche o, in altre “attività”, in base a una decisione politica fondata su qualsiasi motivo (non importa se eticamente condivisibile o meno, sapete come sono fatti i miliardari...), è certo che dal giorno dopo cominceranno le manovre di qualsiasi altro investitore straniero per evitare in anticipo di finire nel mirino di politici così volubili. Anzi, sono probabilmente già cominciate per il solo fatto che se ne stia parlando... 

Per esempio: quelle centinaia o migliaia di miliardi appartenenti a soggetti sauditi, secondo voi, resteranno lì in attesa che magari un giorno Bruxelles si ricordi di un giornalista dissidente – Kashoggi – fatto a pezzi in un’ambasciata di Bin Salman? O non correranno piuttosto verso lidi meno ciclotimici e senza doppio standard?

Il rischio che la signora Kallas e i suoi co-equipier non vedono – non importa se per ignoranza o suprematismo deficitario – è che il capitale finanziario europeo si ritrovi in tempi medi svuotato di asset di passaggio.

Ma c’è sempre di peggio, per dimostrare l’insufficiente Q.I, di questa classe politica presa sugli scaffali dei supermercati. Non si erano neanche accorti che abbiamo vissuto per oltre tre decenni nella “globalizzazione”, quando era possibile spostare capitali praticamente ovunque. E dunque, come Mosca ha voluto ricordare, se è pur vero che 300 miliardi russi sono investiti in Europa, ci sono pur sempre 150 miliardi di capitali europei investiti in Russia.

Sono la metà, e quindi un danno ci sarebbe. Ma vuoi mettere la dimensione del danno per “l’Europa” che dovrà sommare ai 150 miliardi bloccati in Russia anche quelli che fuggiranno da questo continente per normale “cautela dell’investitore”?

Resta perciò senza soluzioni la domandina della signora Kallas: chi paga il costo della guerra e della ricostruzione in Ucraina se gli Usa si sfilano e metterli a conto dei contribuenti potrebbe generare terremoti sociali?

Non c’è il classico mattone in quel “pacco”, ma dinamite...

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Il 70% dei cittadini europei preoccupato dall’economia e dalla precarietà

Il 70% degli europei si considera in una situazione di precarietà a causa dei propri redditi insufficienti. L’89% afferma che questa situazione riguarda anche le persone che conoscono o con le quali lavorano. A rivelarlo è la XIX edizione del “Barometro europeo sulla povertà e sulla precarietà economica”, la rilevazione realizzata da IPSOS France per conto del Secours Populaire Francais presentata l’ 11 settembre scorso.

La ricerca ha coinvolto Francia, Germania, Gran Bretagna, Grecia, Italia, Moldavia, Polonia, Portogallo, Romania e Serbia, ed ha messo in evidenza come la principale preoccupazione delle persone sia la grande difficoltà a far fronte all’aumento inarrestabile delle spese per l’abitazione, la salute, la spesa alimentare.

Secondo la ricerca gli italiani sono quelli che denunciano il rischio più alto di ritrovarsi nel prossimo futuro in una situazione di precarietà (62%).

Gli europei condividono anche la sensazione di un accesso più difficile a una serie di servizi pubblici rispetto alle generazioni precedenti. Un dato ancora più marcato in Italia e Francia per quanto riguarda i servizi per la salute (50%), mentre il dato italiano che riguarda la sensazione di non poter accedere ad un impiego stabile (65%) è il peggiore tra quelli rilevati negli altri Paesi.

Il dato più eclatante è quello che evidenzia che un europeo con un lavoro su tre ritiene di non avere un reddito sufficiente per far fronte a tutte le spese: più di un europeo su quattro ha già dovuto saltare un pasto, nonostante avesse fame, a causa della propria situazione finanziaria, mentre un genitore su tre dichiara di non essere riuscito a provvedere ai bisogni essenziali dei propri figli. Una situazione che incide sulla salute mentale delle persone e le rende decisamente più pessimiste rispetto al futuro del loro benessere.

Molto interessante anche il focus della ricerca su ciò che i giovani pensano della loro situazione e del loro futuro. Uno su due non è soddisfatto delle proprie condizioni e anche tra gli studenti si riscontra una difficoltà crescente di vita con percentuali molto alte sia in Grecia che in Germania, dato che colpisce vista la differenza strutturale tra le due economie. Una situazione che si ripercuote sulla loro salute mentale: un giovane europeo su cinque denuncia che la sua situazione è oggi problematica in termini di stress, mancanza di sonno, depressione.

Insomma nella prospera Europa la maggioranza della popolazione appare tutt’altro che sicura, al contrario la precarietà di vita ormai è radicata e segnala il crescente aumento delle disuguaglianze. Le persone non si curano come dovrebbero, molte rinunciano ad un'alimentazione corretta o sufficiente per sostenere le spese dei figli, il lavoro precario e mal pagato dilaga nel mercato del lavoro.

I segnali di mobilitazione sociale provenienti da Francia ed ora anche dall’Italia, fanno ben sperare per un ciclo di conflitto che riponga con forza l’affermazione delle esigenze popolari rispetto a quelle dell’economia di guerra e del profitto privato.

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Il Piano Trump su Gaza. Israele tira calci. Manca l’approvazione di Hamas

Il quotidiano israeliano Hayom ha riferito che l’incontro tra Netanyahu, l’inviato Usa Witkoff e il genero di Trump, l’affarista Jared Kushner, è durato più di sei ore e ha affrontato la proposta del piano di Trump per Gaza.

Una fonte vicina a Netanyah ha dichiarato alla televisione israeliana IBC che le possibilità che Israele approvi il piano di Trump sono in aumento.

Da parte sua, il quotidiano Yedioth Ahronoth citando un funzionario israeliano scrive che ci sono stati progressi significativi verso il raggiungimento di un accordo su Gaza, e ha affermato che Israele e Stati Uniti sono molto vicini a raggiungere un’intesa dopo diverse bozze ed emendamenti alla formulazione.

Axios citando un funzionario della Casa Bianca ha detto che dopo i colloqui di Witkoff e Kushner con Netanyahu che gli Stati Uniti e Israele erano molto vicini a concordare il piano, mentre una fonte che ha familiarità con la questione ha detto ad Haaretz che le differenze tra le due parti sul piano di Trump si stavano riducendo ma anche che l’approvazione di Hamas è necessaria anche per raggiungere un accordo, che non è stato ancora formalizzato.

Secondo quanto riporta Al Jazeera Hamas ha affermato la sua disponibilità a studiare qualsiasi proposta riceva dai mediatori in modo positivo e responsabile, in modo da preservare i diritti nazionali del popolo palestinese. Giovedì Hamas aveva detto che le sue “armi non possono essere toccate” e che la resistenza è una responsabilità nazionale e morale che deriva la sua legittimità dal popolo palestinese.

Trump ha presentato il suo piano ai leader dei paesi arabi e musulmani durante un incontro presso la sede delle Nazioni Unite a New York martedì scorso, e il Washington Post ha riferito che il piano prevede l’arresto immediato di tutte le operazioni militari.

Il piano include il congelamento delle operazioni nelle loro posizioni, il rilascio di tutti gli ostaggi israeliani entro 48 ore, la distruzione di tutte le armi offensive di Hamas, l’offerta di amnistia per i suoi militanti e la facilitazione di un passaggio sicuro in altri paesi per i membri del movimento che scelgono di andarsene.

L’analista palestinese Saeed Ziad ha riassunto la posizione di Hamas in un’intervista ad Al-Jazeera.

“Hamas non ha partecipato direttamente o indirettamente a questi negoziati e aveva annunciato il suo boicottaggio dei ‘colloqui’ pochi giorni fa”, ha detto Ziad, sottolineando che “Hamas sperava che sarebbero andati all’esecuzione di una ‘proposta precedente’ piuttosto che ai negoziati ‘di una nuova’”.

“Stiamo, infatti, tornando indietro nei negoziati, non andando avanti. Le affermazioni americane secondo cui gli ultimi due giorni sono stati i più fruttuosi per i negoziati sono menzogne assolute. Siamo di fronte al completo collasso dei negoziati”.

Ziad ha detto che i negoziati stanno affrontando un completo disaccordo su questioni vitali, non una discussione sui dettagli. “Israele sta completamente facendo marcia indietro su tutto ciò che era stato proposto e concordato dai mediatori”, ha detto Ziad, rivelando informazioni secondo cui “il Qatar e l’Egitto hanno offerto a Israele più di dieci proposte diverse, ieri e oggi, e Israele le ha respinte tutte”.

Quindi quali sono i punti della contesa? Secondo Ziad, Israele insiste ancora per avere il pieno controllo dell’area di Netzarim, nel centro di Gaza, della Rotta Philadelphia, che separa Gaza e l’Egitto, del valico di Gaza, del ritorno dei palestinesi sfollati dal sud al nord e dei meccanismi di spostamento tra una fase e l’altra dell’accordo.

Fonte

USA - Guerra civile ontro gli ‘Antifa’. Truppe a Portland e alle sedi ICE

La guerra civile strisciante che vivono gli Stati Uniti non è più tanto strisciante. Trump ha ordinato il dispiegamento di truppe a Portland, nello stato dell’Oregon, dove da alcune settimane avvengono proteste antigovernative e contro la violenza dell’Immigration and Customs Enforcement (ICE), e presso le sedi dell’agenzia federale che si occupa della gestione dei confini e dell’immigrazione in tutto il paese.

Come suo solito, Trump ha annunciato la decisione sul social Truth: “su richiesta del segretario della Sicurezza Nazionale, Kristi Noem, ho ordinato al segretario alla Guerra, Pete Hegseth, di fornire tutte le truppe necessarie per proteggere Portland, devastata dalla guerra, e qualsiasi struttura dell’ICE assediata dagli Antifa e altri terroristi interni. Autorizzo anche il ricorso alla forza massima, se necessario”.

Cosa significhino concretamente queste poche frasi è ancora in dubbio. Non è infatti chiaro se Portland e le strutture dell’ICE vedranno l’arrivo della Guardia Nazionale, di militari propriamente detti, o di entrambe le forze, come era successo a Los Angeles lo scorso giugno; per le proteste scoppiate in seguito ai raid contro gli immigrati, in città erano arrivati Marines e Guardia Nazionale.

Qualcosa di simile era già avvenuto a inizio agosto, nella capitale Washington, mentre unità della Guardia Nazionale stanno per essere dispiegati a Memphis, nel Tennessee, “contro la criminalità dilagante”, dice il tycoon. La Casa Bianca sta valutando se fare la stessa scelta anche per altre grandi città come Baltimora e Chicago.

Ma se per Memphis Trump aveva l’appoggio del governatore repubblicano Bill Lee, non è così per Portland, ad esempio. “Come altri sindaci in tutto il paese, non ho chiesto e non ho bisogno di un intervento federale”, ha dichiarato il sindaco Keith Wilson. La questione delle volontà degli amministratori locali non è di secondo piano.

Stando alla legge statunitense, il dispiegamento della Guardia Nazionale e in generale delle forze armate per motivi di ordine interno può avvenire solo su richiesta dei governatori dei singoli stati, e proprio per questo sono in corso verifiche legali sulla legittimità di precedenti decisioni dell’amministrazione federale.

Il presidente degli USA ha vari strumenti per impiegare direttamente l’esercito. Il dibattito intorno al suo uso verso cittadini statunitensi è però piuttosto complesso. Le forze armate possono essere mobilitate sul territorio nazionale sulla base dell’Insurrection Act del 1807, che è stato pensato per affrontare rivolte, insurrezioni, disordini che minacciano la sicurezza pubblica o impediscono l’applicazione delle leggi federali.

Il riferimento, nelle parole di Trump, all’utilizzo della “massima forza”, altra formula che rimane oscuro così significhi operativamente, fa pensare alle AUMF, risoluzioni del Congresso che permettono al presidente di usare l’esercito contro nemici esterni con “tutta la forza necessaria e appropriata”.

Nel 2011 sono state però usate anche per uccidere Anwar al-Awlaki, cittadino statunitense che era anche leader di al-Qaeda nella Penisola Arabica. Che lo stesso procedimento possa avvenire su territorio nazionale sarebbe una forzatura ulteriore della legge stelle-e-strisce, ma il fatto che per Trump l’esercito sta combattendo dei ‘terroristi’ non esclude questa possibilità.

Al di là dell’interpretazione in punta di legge, il riferimento a una Portland “devastata dalla guerra” condotta da “terroristi interni”, con tutti coloro che protestano contro le politiche del governo raccolti sotto la dicitura ‘Antifa’ e dichiarati ‘organizzazione terroristica’ da un ordine esecutivo firmato a inizio della scorsa settimana, palesa come gli Stati Uniti siano in una vera e propria guerra civile.

La militarizzazione delle città e la dimensione dello scontro interno, che passa lungo faglie di classe tanto quanto lungo faglie etniche, ha reso evidente il fallimento del modello sociale e politico statunitense, che con la crisi economica, egemonica e persino di proiezione verso l’esterno delle contraddizioni interne, vede ora conflagrare le contraddizioni accumulate in decenni di unipolarismo.

E non sono i comunisti il cui unico scopo è odiare Washignton, come direbbe qualche commentatore. È Trump stesso a dichiarare che nel suo paese c’è una guerra civile.

Continuare a controllare gli spiragli di rottura definitiva di questo equilibrio precario deve rimanere una priorità per chiunque voglia costruire un’alternativa al baratro in cui le classi dominanti occidentali ci stanno gettando.

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29/09/2025

L'ora di religione (2002) di Marco Bellocchio - Minirece

OCSE: salari bassi e austerità azzoppano il PIL, i dazi peseranno sulla crescita globale

L’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) ha rilasciato qualche giorno fa una versione aggiornata del suo Interim Economic Outlook, ovvero delle previsioni sull’andamento dell’economia globale. Le notizie per il futuro non sembrano essere rosee, mentre l’Italia già vede peggiorare le sue stime di crescita.

Partiamo dall’area euro, il cui PIL è previsto in aumento dell’1,2% nell’anno in corso e dell’1% nel 2026, con stime differenti per i diversi paesi. Ad esempio, la Germania dovrebbe riuscire a evitare la recessione per un soffio quest’anno, ma potrà beneficiare di politiche fiscali espansive per il prossimo anno, mentre il consolidamento dei conti pubblici in Francia e in Italia, imposto dalle procedure per disavanzo eccessivo, frenerà l’attività economica.

Ad ogni modo, anche i transalpini godranno comunque di una crescita maggiore. Se nel 2026 Berlino crescerà dell’1,1% e Parigi dello 0,9%, in Italia la previsione è stata persino ritoccata al ribasso di 0,1 punti percentuali rispetto ai dati di giugno, passando allo 0,6% sia per il 2025 sia per il prossimo anno. La metà della crescita attesa per l’eurozona.

A ciò si aggiunge il peso dell’inflazione. L’aumento dei prezzi è atteso all’1,9% nel 2025 e addirittura all’1,8% nel 2026, stabilmente sotto il 2% considerato ottimale. Tuttavia, l’OCSE evidenzia che “la combinazione di un rallentamento della crescita dei salari nominali e di un’inflazione dei prezzi che rimane elevata ha causato un indebolimento della crescita dei salari reali dall’ultimo trimestre del 2024 in molte economie avanzate, tra cui Giappone, Italia, Canada, Spagna e Regno Unito”.

C’è poi un ulteriore nodo che l’Organizzazione con sede a Parigi sottolinea, e di cui su questo giornale abbiamo ampiamente parlato. Forti pressioni sui prezzi alimentari (l’OCSE ricorda l’Italia, ma anche la Corea del Sud, il Sudafrica e il Regno Unito) sollevano incertezze sul percorso che seguirà l’inflazione, e colpiscono duramente i salari dei redditi più bassi.

Per quanto riguarda il Belpaese, ad ogni modo, Álvaro Santos Pereira, capo economista dell’OCSE, continua a ripetere la stessa formula che si è già dimostrata fallimentare: “l’Italia oggi è in una posizione migliore rispetto a qualche anno fa, ma è importante continuare gli sforzi di risanamento e riduzione del debito, andare avanti con le riforme e investire in competenze”. È chiaro che non saranno i vincoli di bilancio UE a portarci fuori dalla crisi, ma un cambio di rotta totale delle politiche economiche.

Guardando brevemente al mondo, la crescita globale è prevista fare un sostanziale balzo indietro nel prossimo anno, dal 3,2% del 2025 al 2,9% del 2026, soprattutto a causa di dazi e incertezza geopolitica. Per ora gli investimenti in IA negli Stati Uniti e gli stimoli fiscali della Cina hanno sostenuto le due più grandi potenze economiche (con le previsioni sulla Cina addirittura migliorate rispetto ai dati di giugno), e a cascata il mercato mondiale.

Ma l’OCSE chiarisce: “le tariffe [doganali USA, ndr] effettive complessive sono salite a circa il 19,5% alla fine di agosto, il livello più alto dal 1933. Gli effetti completi degli aumenti tariffari devono ancora farsi sentire, con molti cambiamenti introdotti gradualmente nel corso del tempo e le aziende che inizialmente hanno assorbito alcuni aumenti tariffari attraverso i margini, ma stanno diventando sempre più visibili nelle scelte di spesa, nel mercato del lavoro e nei prezzi al consumo”.

Criticità che si trasferiranno agli altri mercati, e dunque a tutto il globo. Un’ultima nota va sottolineata nlle stime economiche. L’Ocse mette in guardia sulla volatilità delle criptovalute e sulla loro crescente interconnessione con il sistema finanziario. La capitalizzazione di mercato delle monete digitali ha toccato circa 3.900 miliardi di dollari, rispetto agli 830 miliardi di inizio 2023.

Per quanto riguarda l’esposizione delle istituzioni finanziarie, essa rimane limitata, ma è tuttavia in crescita, soprattutto in virtù dei recenti sviluppi normativi, in particolare negli USA e nella UE. “Ad esempio – si legge nell’Outlook – le stablecoin – un tipo specifico di cripto-asset – sono garantite da attività finanziarie tradizionali, come i titoli di Stato, e le pressioni sulla valutazione potrebbero innescare corse destabilizzanti con implicazioni più ampie per la stabilità finanziaria”.

Temi che bisogna continuare a tenere d’occhio.

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“Ora tocca all’Italia”. La strategia delle balle guerrafondaie

Sembra abbastanza evidente che il susseguirsi di allarmi inverificabili circa la presenza di “droni russi” sui cieli d’Europa, o di “interferenze” nelle comunicazioni, sia piuttosto chiaramente una “strategia comunicativa” attribuibile per intero all’Unione Europea, proprio mentre l’America di Trump sta scaricando la guerra ucraina sul Vecchio Continente.

Mettiamo in fila solo gli episodi più clamorosi, per non farla troppo lunga.

1) Prima c’è stata la notizia che l’aereo di Ursula von der Leyen aveva perso il segnale gps mentre volava sulla Bulgaria, dove era diretto, al punto da costringere i piloti ad usare “vecchie mappe cartacee” come i turisti degli anni ‘70 e ad accumulare 1 ora di ritardo, dopo aver rischiato di mancare l’atterraggio.

Nel giro di poche ore l’episodio è stato sbugiardato:
– dalla Bulgaria, paese Nato, che non ha rilevato nulla di anomalo sui propri radar;
– da alcune migliaia di esperti di aviazione, che hanno spiegato come il gps non serva per l’atterraggio (ci sono da decenni sistemi più moderni ed efficaci, specie su un aereo “presidenziale”); 
– dagli enti di controllo del volo, come FlightRadar e altri, che non hanno tracciato né cambiamenti di rotta né mancato funzionamento dei sistemi di bordo (la comunicazione tra velivolo e centrali di controllo è costante);
– dai registri dell’aeroporto, con l’aereo che aveva solo 5 minuti – e non un’ora – di ritardo.

Assodato questo, non è arrivata nessuna scusa per la bufala ammannita al pubblico mondiale. Anzi continua a essere ricordata, sui media, come un fatto accertato e confermato.

2) È stata poi la volta dei “droni russi sulla Polonia”, con addirittura una casa danneggiata come prova. Anche qui si è accertato che i droni erano in parte anche ucraini, che uno di quelli mostrati in foto era tranquillamente parcheggiato su una conigliera (senza neanche danneggiarne il tettuccio di eternit) e con il muso tenuto insieme con nastro isolante. E che la casa era stata colpita da un missile di fabbricazione americana sparato da un aereo polacco che intendeva abbattere uno dei droni.
Qualche giorno di silenzio per far dimenticare l'accaduto, quindi si è continuato a citare l’episodio come accertato e confermato.

3) È quindi stata la volta dell’Estonia, con tre aerei russi che avrebbero “invaso lo spazio aereo” su un’isola disabitata in mezzo al golfo di Finlandia.
Anche qui gli analisti militari hanno smontato il caso facendo vedere – cartine alla mano – che in quella zona le acque e i cieli territoriali di Estonia, Russia e Finlandia sono praticamente a contatto, e aerei o navi diretti o provenienti da San Pietroburgo hanno un corridoio ristretto dove passare.
Al punto che gli “sconfinamenti” sono così frequenti – da decenni – da essere risolti in genere con una telefonata tra controllori di volo.
Solita trafila: dopo qualche giorno è come se il fatto fosse di nuovo tornato vero, per la stampa occidentale.

4) La patata dell’allarme è poi passata a Danimarca e Norvegia, con altri “droni russi” che apparivano di sera su alcuni aeroporti.
Grande diffusione di allarme, al punto da costringere lo stesso ministero della difesa di Copenhagen ad affermare che “non c’era nessuna prova che quei droni fossero russi”. E che “non sono stati abbattuti per non far correre rischi alla popolazione”, o per non mostrare resti che avrebbero potuto dare altre certezze.

5) Il contagio si estende poi alla Francia, uno dei paesi “volenterosi” che vorrebbero mandare soldati in Ucraina. “Secondo fonti militari che hanno parlato con Radio France Internationale, questo fine settimana sono stati osservati droni non identificati sopra siti militari vicino a Mourmelon-le-Grand, nella Marna, nel nord della Francia”.
Non identificati ma decisamente distanti dalla frontiere con la Russia. Vero è che – come segnalato da alcuni analisti militari – è possibile far partire droni da navi o camion, come avevano fatto gli ucraini in Russia... E qui qualche sospetto comincia a venire...

6) Se poi Zelenskij twitta che “l’Italia potrebbe essere la prossima” il sospetto si fa quasi certezza. Poi toccherà alla Spagna e al Portogallo, così da completare il puzzle.
Basta considerare come avvengono i rapporti tra paesi alleati. Se hai una informazione su un possibile attacco o provocazione verso un tuo alleato metti in moto i normali canali di comunicazione, attraverso ministeri della Difesa e servizi segreti (se non altro per non allertare “il nemico”). I social non fanno parte della diplomazia ufficiale, ma del fantastico circo barnum della propaganda.

7) A coronamento di questa escalation di panna montata, i vertici europei avrebbero detto ai funzionari russi, a porte chiuse, che la NATO è pronta a intensificare l’abbattimento degli aerei russi, una sorta di avvertimento finale. Al che, sia l’ambasciatore russo in Francia, sia il navigatissimo ministro degli esteri Lavrov hanno risposto con l’ovvio “fatelo e saremo in guerra”.

Accertato insomma che sono tutte balle, che purtroppo producono comunque effetti politici – allarme sociale, spesa militare in drastico aumento, militarizzazione della società e dell’immaginario collettivo – c’è da chiedersi se questa “strategia” ha un senso e quale.

Mettiamo da parte per il momento l’ipotesi che “l’Europa”, da sola, si stia preparando alla guerra contro la Russia (solo dei dementi con deficit grave possono pensare di andare allo scontro diretto con una delle due principali potenze nucleari).

Restano le ipotesi “minori”.

a) Tanto allarmismo servirebbe a convincere Trump a non lasciare la patata ucraina nelle sole mani europee. Ma se questa raffica di allarmi sembra ridicola a noi, sicuramente alla Casa Bianca hanno informazioni migliori. E quindi non produrrà effetti (se non qualche ciclotimica affermazione di Trump via Truth).

b) Utilizzare l’antichissima arma del “nemico alle porte” per ridurre al minimo le frizioni sempre più evidenti tra paesi europei con interessi e pesi diversi, mettere la museruola alle proteste popolari (non solo in Francia), ecc. Nascondere insomma le molte crisi convergenti sotto il tappetone della corsa al riarmo per “difendere la nostra sicurezza”.

Se ci fosse un centro di comando unificato e funzionante non ci sarebbero così tanti dubbi su quale ipotesi sia più probabile. E proprio l’incertezza appare la dimostrazione della confusione che regna ai vertici della UE, costretti a passare in pochi mesi da un “sistema di regole” ormai mandato a memoria ad un mondo in cui non c’è più alcuna certezza per colpa del tuo “capo” o principale “alleato”.

Per fortuna l’allarmismo senza freni è stato fin qui un boomerang: nella misura in cui si è “spaventata”, l’opinione pubblica europea è diventata complessivamente ancora più contraria alla partecipazione ad una qualsiasi guerra.

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La Cina contro Nvidia

Il 17 settembre il governo cinese ha ordinato alle principali aziende tecnologiche del paese di interrompere l’acquisto e l’uso di chip Nvidia, inclusi l’RTX Pro 6000D e l’H20, due chip progettati appositamente per aggirare le restrizioni imposte dal governo americano all’export di hardware USA avanzato in Cina.

Nei giorni immediatamente precedenti, la Cina aveva avviato un’indagine antitrust in merito all’acquisizione di Mellanox: un’azienda israelo-americana, specializzata nell’interconnessione di rete ad alte prestazioni, comprata da Nvidia nel 2020 per oltre 7 miliardi di dollari. L’indagine antitrust segna l’ingresso in una nuova fase della “guerra dei chip”, che ora si estende non solo ai singoli processori ma a tutti i componenti delle infrastrutture di calcolo critiche.

La posizione cinese ha ovviamente fatto molto rumore, con il titolo di Nvidia che ha immediatamente subito una flessione e il CEO dell’azienda – Jensen Huang – che si è detto estremamente deluso (“disappointed”) dalla decisione di Pechino.

Dal canto suo, come spesso accade, subito dopo aver acceso il fuoco il governo cinese ha indossato i panni del pompiere. Il giorno successivo all’annuncio del veto, il ministero degli Esteri ha assicurato che, in ogni caso, la Cina “intende mantenere il dialogo con tutte le parti”, e non intende “danneggiare le catene globali del valore della micro-elettronica”. Frasi che paiono messaggi in codice inviati ai centri di potere di Washington, in passato accusati proprio di provocare danni sistemici.

Un asset geopolitico

Da quando le sue GPU sono finite al centro dell’ecosistema hardware legato all’addestramento dell’IA, i ricavi e la capitalizzazione di Nvidia sono aumentati esponenzialmente. I dati dell’ultimo trimestre, comunicati a fine agosto, parlano di 46,7 miliardi di ricavi, per un utile ad azione pari a 1,05 dollari e un valore della singola azione che è decuplicato negli ultimi 5 anni.

In parallelo a questa crescita se ne è però verificata un’altra, di cui i vertici dell’azienda di Santa Clara avrebbero fatto volentieri a meno: un boom di esposizione (geo)politica. Data la centralità di Nvidia nell’ecosistema IA – e data la centralità di questo ecosistema nelle politiche di potenza degli Stati contemporanei – negli ultimi anni Nvidia è diventata uno dei più contesi asset tecnologici del pianeta.

È dal 2022 che l’azienda si trova sotto l’attenzione costante dei doganieri di Washington e deve fare i conti con la necessità di trovare escamotage (tecnici o politici) ai loro divieti. In particolare durante gli anni di Biden, la Casa Bianca ha inasprito le restrizioni all’export di semiconduttori avanzati verso la Cina, vietando la vendita dei chip più potenti e imponendo licenze anche per le versioni “ridotte” progettate apposta per il mercato cinese. Per Nvidia questo ha significato rivedere continuamente il proprio catalogo: dal chip A100 si è passati a modelli “castrati” come l’A800 e l’H800, fino ad arrivare all’H20, le cui prestazioni rientrano nei limiti imposti dagli Stati Uniti ed è stato pensato appositamente per aggirare le restrizioni.

La parabola dell’H20 è particolarmente emblematica. Nato come compromesso per mantenere aperto il mercato cinese pur rispettando i vincoli imposti da Washington, il chip è stato accusato dai media di Pechino di contenere un “kill-switch”, ovvero un meccanismo occulto di disattivazione remota che avrebbe reso vulnerabili le infrastrutture cinesi in caso di conflitto.

Nvidia ha smentito con forza queste insinuazioni, chiarendo che nessuna delle sue GPU include funzioni di spegnimento a distanza o backdoor segrete. Ma il sospetto ha contribuito a erodere ulteriormente la fiducia, offrendo alle autorità cinesi un nuovo appiglio per giustificare le sue misure restrittive. Il caso dell’H20 mostra come, in un’industria estremamente complessa dal punto di vista tecnico (e dunque, per natura, opaco), la percezione conti quanto la realtà: persino in assenza di prove concrete, il timore di vulnerabilità latenti è sufficiente per spostare interi equilibri di mercato. Il dubbio diventa un’arma politica.

Nel frattempo, la politica americana ha oscillato tra rigore e pragmatismo. Dopo la stagione Biden, fortemente orientata al contenimento tecnologico di Pechino, l’amministrazione Trump ha riaperto degli spiragli negoziali, concedendo le licenze che hanno effettivamente consentito la vendita proprio di chip come l’H20. Secondo alcune ricostruzioni giornalistiche, il cambio di orientamento sarebbe stato il risultato di un efficace e paziente lavoro di “diplomazia” di Jensen Huang, che ha saputo costruire una relazione personale privilegiata con il presidente degli Stati Uniti.

La realtà – come vi avevamo raccontato anche qui – è che, nonostante gli embarghi e i compromessi, i chip Nvidia hanno continuato a circolare in Cina persino all’apice dei veti bideniani, in alcuni casi attraverso intermediari o triangolazioni con Paesi terzi, aggirando così i divieti formali e confermando quanto sia difficile bloccare del tutto il flusso tecnologico in un mondo di catene di fornitura globalizzate.

Perché il veto cinese e perché proprio ora?

Lungi dall’essere puramente ritorsiva, la decisione cinese di colpire Nvidia va letta come parte di un disegno più ampio. Apparentemente drastica, essa risponde a una logica “strutturalista” che mira a riequilibrare il rapporto di dipendenza con i fornitori stranieri. Pechino non intende più accontentarsi di avere accesso a versioni “attenuate” dei chip americani: l’obiettivo adesso è la conquista di un’autonomia tecnologica che abbracci l’intera filiera del calcolo, dai semiconduttori all’infrastruttura, riducendo al minimo i punti di vulnerabilità. È del resto lì che si gioca la sfida della “sovranità tecnologica”, che la leadership cinese ha ormai posto tra le proprie priorità politiche. Ma perché tutto questo avviene proprio ora?

Un indizio si trova nello “strano” tempismo con cui – due giorni dopo l’annuncio del blocco a Nvidia – Huawei ha svelato una roadmap di sviluppo di chip che copre i prossimi tre anni e che, se realizzata nei tempi e nelle modalità annunciate, potrebbe ridisegnare l’intero equilibrio competitivo del settore.

La punta di diamante della strategia dell’azienda di Shenzhen è lo sviluppo della linea di chip Ascend, una serie lanciata nel primo trimestre del 2025 con l’Ascend 910 C e che, attraverso una progressione esponenziale dei nodi e delle interconnessioni, punta a quadruplicare la capacità di calcolo da qui al 2027.

Sebbene, a oggi, le GPU Nvidia siano ancora considerate superiori per prestazioni e affidabilità, l’uscita allo scoperto di Huawei riflette la consapevolezza, da parte cinese, che la capacità manifatturiera domestica di chip costituisce sempre meno un collo di bottiglia sensibile alla volubilità di Washington.

La roadmap di Huawei non è solo un piano industriale, ma un atto politico: un manifesto che intende rassicurare gli alleati interni e spaventare i concorrenti esterni. In questo senso, il veto contro Nvidia diventa una leva utile a concentrare investimenti pubblici e privati sul fronte della produzione nazionale, rafforzando l’idea che la “dipendenza dall’Occidente” non sia più insuperabile.

In altre parole: il veto cinese a Nvidia e l’annuncio di Huawei non vanno letti come episodi isolati, ma come due mosse coordinate di una identica strategia. Un messaggio al mondo – e in particolare, ovviamente, all’inquilino della Casa Bianca – che la Cina non intende più limitarsi a comprare e inseguire, ma vuole innovare e guidare.

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500 dipendenti degli Esteri chiedono al governo di non essere complice del genocidio

Mentre il ministro degli Esteri Antonio Tajani era a ballare alla festa di Forza Italia, qualcosa si era già mosso nel suo dicastero. Qualcosa che mostra come le contraddizioni di questo governo complice del genocidio che si intesta, nel contempo, il ruolo di difensore dei diritti stanno esplodendo. E, più in generale, come la crisi di egemonia delle nostre classi dirigenti è sempre più profonda.

Infatti, in questi giorni sul tavolo del ministro è arrivata una lettera aperta firmata da almeno 500 dipendenti degli Esteri, di tutti i livelli e di tutte le categorie, che chiedono una cosa semplice: di cambiare rotta sulla questione palestinese, per evitare che il governo sia complice di “violazioni gravi del diritto internazionale” e del “genocidio in atto”.

Stando a quel che riporta Fanpage.it, continua ad aumentare il numero di coloro che hanno firmato una serie di richieste precise e ben dettagliate sulla base delle responsabilità che un ministero degli Esteri dovrebbe avere verso il diritto internazionale. La lettera gira solo all’interno della Farnesina, ma il contenuto di questa petizione è stato diffuso da varie testate giornalistiche.

Tra le altre cose, c’è la sospensione dell’Accordo di associazione tra Israele e Unione Europea, il riconoscimento dello Stato di Palestina, sanzioni al governo Netanyahu e ai vertici militari israeliani, lo stop a ogni cooperazione militare con Tel Aviv (incluso il transito di armamenti nei porti italiani), la tutela della relatrice ONU Francesca Albanese e della Global Sumud Flotilla.

I firmatari hanno fatto presente a Fanpage.it il “disagio” del loro ruolo di fronte a quel che succede a Gaza. Poco tempo fa alcuni ex ambasciatori avevano scritto al governo per lo stesso motivo, ma in questo caso si parla di personale in servizio, che sente sulla propria pelle il macigno di dover mandare avanti gli ingranaggi di impegni governativi che coinvolgono anche affari o personalità israeliane.

La linea del ministero, dicono i firmatari, deve cambiare per “consentire all’amministrazione e ai suoi dipendenti di operare in piena coerenza con la Costituzione, con gli impegni internazionali assunti dallo Stato e con l’etica del servizio pubblico”. Nel documento viene ricordato anche il risultato dell’indagine indipendente ONU che ha confermato che a Gaza, Israele sta commettendo un genocidio.

Stando a ciò che è trapelato ai media, la lettera aperta si concluderebbe con una frase molto netta: “come dipendenti del ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale e cittadini e cittadine della Repubblica italiana le chiediamo urgentemente di non renderci complici”.

Al di là del contenuto della lettera, questo tipo di iniziativa rappresenta, dall’interno del cuore della politica estera, un colpo durissimo alla pretesa superiorità delle ‘democrazie’ dei diritti, la cui difesa viene auto-propagandata come cifra costitutiva dei sistemi politici occidentali, e dunque anche dell’Italia.

Oggi, invece, di fronte a un genocidio, i dipendenti degli Esteri stanno dimostrando di ripudiare l’auto-assoluzione di tutti quei funzionari pubblici che, 80 anni fa, provarono a difendersi dalle accuse di aver partecipato all’Olocausto dicendo che, semplicemente, avevano eseguito gli ordini.

Non si tratta certo di un ‘ammutinamento’, ancora, ma rimane comunque una potente espressione di coscienza che pone ulteriormente sotto accusa il governo.

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Assata Shakur è morta all’Avana

Rivoluzionaria afroamericana, attivista per i diritti sociali, militante delle Pantere Nere, Madrina del Rapper Tupac, perseguitata per oltre 40 anni dalla CIA e dal FBI aveva trovato un porto sicuro a Cuba.

La Casa Bianca aveva messo una taglia di un milione di dollari sulla sua testa ma l’Isola Ribelle le offrì asilo politico, accogliendola e proteggendola fino all’ultimo dei suoi giorni.

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Assata Shakur, le stagioni afroamericane

Assata Shakur, militante rivoluzionaria afroamericana, è morta il 25 settembre scorso a Cuba, dove risiedeva come rifugiata politica dal 1984. Era nata nel 1947, e il suo «nome da schiava» era JoAnne Chesimard.

Aveva attraversato tutta la vicenda delle lotte di liberazione afroamericane, contro il razzismo e la guerra, il nazionalismo nero, il Black Panther Party, la clandestinità con la Black Liberation Army. Era stata arrestata nel 1973 dopo uno scontro con la polizia, in cui due agenti erano rimasti feriti, il suo compagno era stato ucciso e lei stessa gravemente ferita (la forma delle ferite dimostrava, secondo la sua difesa, che non poteva avere sparato ed era stata colpita con le mani alzate).

Nella sua autobiografia (Assata, tradotta in Italia nel 1992), racconta le manipolazione dei processi, le violenze e le torture dopo l’arresto, in ospedale e da un carcere all’altro. Evade nel 1979, con l’aiuto di alcune compagne (per avere partecipato a questa azione Silvia Baraldini si vide aggiungere vent’anni di carcere alla sua condanna). Dopo alcuni anni di clandestinità, riuscì a raggiungere Cuba.

Nella sua vicenda convergono una molteplicità di fili della storia afroamericana, dai diritti civili a Black Lives Matter. Per esempio: viene fermata perché la sua macchina ha una luce posteriore che non funziona. È la stessa ragione per cui nel 2016 in Minnesota la polizia ferma Philando Castle e finisce per ucciderlo.

A quel tempo, J. Edgar Hoover, il famigerato direttore dell’Fbi, aveva ordinato di arrestare i «sovversivi» con la scusa di violazioni ai codici della strada (già Martin Luther King fu incarcerato per aver guidato in Alabama con una patente della Georgia).

Ma la prassi continua: afroamericani hanno continuato a morire per un cambio di corsia mal segnalato (Sandra Bland), un passaggio col rosso (Andrew McDuffie), o violazioni imprecisate (Dijon Kizzie, a Los Angeles).

In realtà, quando viene fermata, la polizia sa benissimo chi è: ricercata per un rapimento e due rapine in banca, accuse da cui verrà poi assolta, sta nella liste dei sovversivi pericolosi. L’altro filo dunque è la continuità fra le forme della resistenza afroamericana e della repressione.

Assata Shakur non è la prima militante afroamericana che ha trovato asilo a Cuba. Già nel 1961 vi si era rifugiato Robert F. Williams, reo di avere invocato nel 1959 una risposta armata al razzismo dopo che a Monroe, North Carolina, un bianco era stato assolto dopo aver violentato una donna nera.

Erano gli anni del movimento non violento di massa; sconfessato da Martin Luther King, perseguitato dalla polizia razzista del suo stato, Robert F. Williams si rifugia a Cuba, e poi in Cina.

A Cuba scrive un libro, Negroes with Gun, neri con le armi. Williams non ha mai sparato un colpo, ma – in un paese armato fino ai denti – la sola idea che anche i neri possano avere armi spaventa i suprematisti bianchi fin dai tempi della Guerra Civile («non finirò mai di stupirmi per quanta paura hanno i bianchi di neri con le armi», scrive Assata Shakur).

Erano gli anni del movimento non violento di massa, ma già Malcolm X aveva rivendicato il diritto di usare «ogni mezzo necessario», proclamando il diritto degli oppressi di scegliere loro stessi i mezzi della propria liberazione e resistenza «con ogni mezzo necessario».

Erano gli anni del movimento non violento per i diritti civili, sì: «In nessun posto del mondo, in nessun momento della storia», scrive Assata Shakur, «nessuno ha ottenuto la libertà facendo appello al senso morale dei suoi oppressori».

Così, nel 1964, in Louisiana nascono i Deacons for Self Defence. Deacons, perché i fondatori, tra cui il reverendo Frederick Doughlss Kirkpatrick erano uomini di chiesa; e «self-defense», autodifesa, come nel nome completo e non sempre ricordato del partito nato due anni dopo in California – il Black Panther Party for Self-Defense.

Malcolm X e le Pantere Nere sono passati alla storia come apostoli della violenza, ma nei suoi anni di militanza Malcolm X non ha mai dato neanche uno schiaffo a nessuno, e quanto alle Pantere Nere sono molti di più i loro militanti uccisi dallo stato (Bobby Hutton nel 1968, ucciso mentre alzava le mani per arrendersi; Mark Clark e Fred Hampton, ucciso nel sonno accanto alla sua compagna incinta, nel 1969 – durante un’irruzione illegale della polizia, come più tardi Brenna Taylor, uccisa in casa sua a Louisville nel 2020) che le azioni violente attribuibili a loro.

La scintilla delle rivolte dei ghetti, da Watts a Harlem, era – come nel 2021 – la violenza della polizia nelle loro strade (nel caso di Watts, anche lì per motivi di traffico). La violenza era dappertutto, in un paese in guerra: come disse Martin Luther King, «ci applaudono quando siamo non violenti nei confronti dei razzisti in Alabama e Mississippi. Ma poi ci chiedono di essere violenti contro i bambini vietnamiti».

Assata Shakur si forma in questo contesto, ma la sua vicenda appartiene a un momento successivo, dopo l’assassinio di Martin Luther King (che nella sua autobiografia indica come il vero momento di svolta), dopo la svolta autoritaria e leaderistica del Black Panther Party, dopo che le lotte degli anni ’70 sono sfociate nell’elezione e rielezione di Richard Nixon.

L’autodifesa non le basta più, si convince che i mezzi necessari sono altri. Esclusa dal partito, ricercata dalla polizia, entra in clandestinità e si avvicina al Black Liberation Army, più una costellazione di gruppi underground che una vera e propria organizzazione.

«La lotta armata da sola non può dar vita a una rivoluzione», scrive: «La guerra rivoluzionaria è una guerra di popolo, e nessuna guerra di popolo si può vincere senza il sostegno delle masse popolari».

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Gli italiani sono contro il genocidio e con la Flotilla… anche quelli di destra

Un sondaggio pubblicato il 26 settembre dall’Istituto Ixè ha dato risultati molto interessanti per ciò che riguarda l’opinione del popolo italiano in merito al genocidio in corso in Palestina e alla missione della Global Sumud Flotilla. Dai numeri che l’Ixè ha fornito, emergono anche i motivi per cui il governo sta cercando di correre ai ripari sul tema (senza potervi inoltre riuscire senza rompere con Israele).

Infatti, il 73,7% degli intervistati è d’accordo sul fatto che i palestinesi stanno subendo un genocidio. Scorporando i dati sulla base dei voti espressi alle europee del 2024, risulta che la percentuale più bassa di coloro che sono convinti che stiamo assistendo a un genocidio è tra gli elettori di Forza Italia e Noi Moderati, che comunque si attesta al 56%: più di uno su due.

Quasi il 59% di chi ha partecipato al sondaggio vorrebbe l’interruzione dei rapporti con Israele. Su questo tema, sono gli elettori di Fratelli d’Italia a esprimere la percentuale minore di coloro che vogliono la rottura con Tel Aviv, ma anche in questo caso parliamo di un 40%: non uno su due, ma quasi.

Il 70,6% degli italiani, stando al sondaggio di Ixè, è favorevole alla missione della Global Sumud Flotilla. Ma qui c’è anche il risultato più interessante: tra Fratelli d’Italia, Forza Italia e anche Lega, non c’è una volta che la quota di elettori intervistati che vedono positivamente l’impegno della flotta umanitaria scenda sotto il 56%.

Possiamo dire che probabilmente, nella marea di persone che ha attraversato le strade italiane in occasione dello sciopero generale del 22 settembre, senza ombra di dubbio ci sono state anche persone che propendono verso formazioni di centrodestra. Ma per Palazzo Chigi il problema è sorto quando quelle piazze hanno mostrato che la solidarietà con la Palestina e con la Flotilla può essere davvero di massa.

Finché i solidali davano vita a manifestazioni che i media potevano facilmente oscurare, le faglie interne al proprio elettorato potevano essere facilmente gestite, mentre la repressione avrebbe fatto il resto in piazza. Ma ora la contraddizione di un governo complice con un genocidio in diretta TV è evidente a tutti, proprio mentre Israele minaccia di attaccare la Flotilla.

Ora anche gli elettori di destra potrebbero chiedere conto a Meloni&Co. come mai una compagine governativa che ha fatto dell’orgoglio italiano uno dei suoi tratti distintivi si ritrova a essere complici con uno dei più efferati crimini della storia dell’umanità. E magari la paura è che queste domande si estendano ad altri argomenti.

Ad esempio, nel sondaggio Ixè si legge che il 51% degli italiani è ancora contrario alla creazione di un Esercito Europeo, e ben il 66,3%, ovvero due persone su tre, è contrario all’aumento delle spese militari. È vero che gli elettori dell’attuale maggioranza sono i più propensi a questa corsa al riarmo, ma è anche vero che parliamo pur sempre di un italiano su due.

Se a ciò si aggiunge che la fiducia nel governo è al 37%, uno dei livelli più bassi dall’arrivo di Meloni a Palazzo Chigi, è facile capire la profonda crisi in cui si è impantanato il centrodestra. Il timore è quello che, considerato il chiaro collegamento che le piazze fanno tra la politica guerrafondaia europea e la fallimentare politica estera in tema di Palestina, il dissenso possa dilagare.

Il governo è dunque colpito su vari lati, e in sostanza si può facilmente dire che la contraddizione fondamentale che lo sta mettendo oggi in difficoltà è la scelta di allinearsi, senza se e senza ma, al terrorismo sionista. Una scelta che non è condivisa dalla sua stessa base sociale e che è infine esplosa in una mobilitazione popolare di massa che sta mettendo a nudo tutta l’ipocrisia dell’Occidente.

Il compito è quindi quello di continuare su questa strada, e di insinuarsi nelle difficoltà di questa classe politica sempre più indecente.

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Gli USA stanno sospendendo silenziosamente alcune vendite di armi all’Europa

Questo articolo è stato pubblicato da The Atlantic, rivista statunitense di area liberal. Non condividiamo ovviamente nessuna opinione qui espressa, ma le informazioni che fornisce sulla scarsità di armi “utili” persino negli Stati Uniti ci sembrano piuttosto interessanti.

Buona lettura.

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Il primo indizio che qualcosa fosse cambiato nell’approccio degli Stati Uniti alla vendita di equipaggiamenti militari all’Europa si è avuto quando la Danimarca si è avvicinata alla decisione sull’acquisto di un sistema di difesa aerea multimiliardario. Per settimane, i negoziatori americani e francesi avevano perseguito con aggressività l’accordo. Ma con l’avvicinarsi della scadenza, il Pentagono ha improvvisamente perso interesse.

“Non riuscivamo a capirne il motivo”, mi ha detto un appaltatore che aveva seguito le discussioni. “Sembrava una cosa ovvia, ma a loro non interessava”.

Poi, durante una chiamata all’inizio di questo mese con il Dipartimento di Stato, il Sottosegretario alla Difesa per la Politica Elbridge Colby ha dichiarato di non credere nel valore di alcune vendite militari all’estero, secondo due funzionari dell’amministrazione a conoscenza della discussione.

Ha aggiunto di non gradire l’idea di vendere Patriot – in grado di intercettare i missili in arrivo – alla Danimarca, perché sono scarsi e dovrebbero essere riservati agli Stati Uniti, che potranno utilizzarli in base alle necessità. (I funzionari, come altri con cui ho parlato, hanno parlato a condizione di anonimato perché non erano autorizzati a discutere di questa situazione delicata e in continua evoluzione). 

I commenti hanno sorpreso alcuni funzionari statali, ma hanno presto scoperto che non era solo la Danimarca ad avere l’accesso bloccato. Funzionari dell’amministrazione, attuali ed ex, mi hanno detto che il Pentagono ha identificato alcune armi come carenti e si sta muovendo per bloccare le nuove richieste per quei sistemi provenienti dall’Europa.

Non è stato immediatamente chiaro a coloro con cui ho parlato quanto durerà il blocco, quante armi siano presenti nell’elenco o se possa essere esteso per includerne ancora di più. Saranno concesse poche esenzioni.

Da mesi si teme la carenza di Patriot: gli Stati Uniti dispongono solo del 25% circa degli intercettori missilistici necessari ai piani militari del Pentagono, secondo i funzionari del Dipartimento della Difesa. Ma il Patriot non ha un equivalente europeo, il che lo rende un sistema prezioso e molto ricercato in un continente recentemente preoccupato per gli attacchi aerei, un rischio reso evidente oggi dopo che l’Estonia, membro della NATO, ha dichiarato che i jet militari russi hanno violato il suo spazio aereo.

Se la restrizione dovesse protrarsi a lungo, rischierebbe di creare nuove fratture con gli alleati, indebolendo le loro difese in un momento in cui la Russia rappresenta una minaccia imminente e riducendo l’influenza militare statunitense nel continente.

Il cambiamento comporterebbe anche la perdita di miliardi di dollari di entrate pubbliche e private, la riduzione del numero di posti di lavoro nell’industria della difesa, la limitazione dell’espansione dei prodotti e la riduzione della ricerca e dello sviluppo.

La scorsa settimana, la Danimarca ha firmato un accordo da 9,1 miliardi di dollari per l’acquisto di sistemi di difesa aerea a lungo raggio realizzati da una joint venture franco-italiana e di sistemi a medio raggio da Norvegia, Germania o Francia. Si è trattato del più grande acquisto di armi mai effettuato dalla Danimarca. (RTX, l’azienda precedentemente nota come Raytheon, che produce il sistema Patriot, non ha risposto a una richiesta di commento). 

Le vendite di equipaggiamento militare sono da tempo uno strumento chiave della politica estera statunitense: un modo per tutelare gli interessi di sicurezza nazionale all’estero rafforzando le capacità di difesa dei paesi amici. Gli Stati Uniti iniziarono a vendere equipaggiamento militare a nazioni che consideravano amiche per consolidare le alleanze al culmine della Guerra Fredda ed espandere la propria influenza all’estero.

I missili antinave, i lanciarazzi e i caccia americani stanno rafforzando la capacità di Taiwan di difendersi dalla minaccia di un’invasione cinese. Le vendite di materiale militare straniero a Israele, sebbene controverse, hanno protetto il paese da numerosi attacchi, compresi quelli recenti di Hamas e Iran. Ed è grazie ai sistemi di difesa aerea e anticarro americani, ai veicoli trasporto truppe e ad altri mezzi di artiglieria – alcuni dei quali acquistati da nazioni europee e poi ceduti all’Ucraina – che il governo di Kiev non è crollato di fronte all’invasione russa su vasta scala.

Questi sono solo alcuni esempi di trasferimenti per un valore di 117,9 miliardi di dollari nell’anno fiscale 2024.

Ma le priorità sono cambiate, con un numero sempre maggiore di sostenitori del motto “America First” tra i vertici della seconda amministrazione del presidente Donald Trump. L’amministrazione sembra pronta a dare priorità alla ricostituzione delle scorte americane rispetto alle relazioni con gli alleati di lunga data.

Tuttavia, sarebbe insolito che una decisione così cruciale venisse presa senza un ampio contributo e una revisione da parte delle agenzie governative, in particolare del Dipartimento di Stato.

Il portavoce del Pentagono, Kingsley Wilson, ha definito “assurdo” qualsiasi suggerimento secondo cui Colby stesse segretamente attuando decisioni politiche, aggiungendo che “vive e respira la cooperazione con i suoi colleghi interagenzia e del Dipartimento della Guerra”. (Trump ha dato al Dipartimento della Difesa il “titolo secondario” di Dipartimento della Guerra). Wilson non ha risposto alle domande sulla sospensione da parte degli Stati Uniti di nuovi ordini da parte delle nazioni europee per determinate armi.

Il consigliere del Dipartimento di Stato, Michael Needham, ha respinto le insinuazioni secondo cui il dipartimento sarebbe stato colto di sorpresa. “Chiunque cerchi di creare storie di una frattura tra il Dipartimento di Stato e il Dipartimento della Guerra lo fa perché si oppone al programma America First del Presidente Trump”, ha affermato in una risposta via email alle mie domande.

Funzionari e osservatori dell’amministrazione Trump affermano che il cambiamento è in linea con la convinzione di Colby che la Cina sia l’unico Paese dotato dell’ambizione, delle risorse e della potenza militare necessarie per scalzare gli Stati Uniti dal loro piedistallo di principale superpotenza mondiale. L’unico modo per fermare la loro corsa al predominio globale, sostiene Colby, è che gli Stati Uniti investano tutto il possibile per proteggere il Pacifico occidentale, anche se, potenzialmente, a scapito della sicurezza europea.

Diverse nazioni europee hanno inviato alcune delle loro armi migliori all’Ucraina per aiutarla a difendersi dall’invasione russa, e a loro volta hanno acquistato armi di fabbricazione statunitense per rifornire le proprie scorte. Trump ha spinto gli stati membri della NATO a fare di più per farsi carico dell’onere della sicurezza europea.

I funzionari hanno affermato che le ultime discussioni sulla sospensione delle armi non includono quelle inviate direttamente all’Ucraina, che vengono fornite attraverso un programma separato. (Le armi all’Ucraina sono state temporaneamente sospese durante l’estate, sorprendendo i funzionari che di solito sono coinvolti nelle discussioni su tali accordi). 

“Diciamo agli europei che vogliamo che mandino armi in Ucraina e ne comprino di nuove, ma poi diciamo: ‘Non potete averle’”, mi ha detto Mark Cancian, colonnello dei Marines in pensione e consulente senior presso il Center for Strategic and International Studies. “Diciamo loro anche di difendersi, ma poi diciamo loro che non gli venderemo le armi di cui hanno bisogno per farlo”.

La guerra in Ucraina ha messo a dura prova le scorte non solo negli Stati Uniti, ma in tutta Europa, innescando discussioni su come rivitalizzare al meglio la base industriale della difesa. Una delle armi più richieste dall’Ucraina è stata il Patriot, il sistema che la Danimarca stava valutando di acquistare.

Il suo massiccio utilizzo nella guerra dell’Ucraina contro la Russia e da parte di Israele in Medio Oriente non ha fatto altro che alimentare preoccupazioni riguardo alle scorte, portando all’attuale blocco delle esportazioni. Questo “mina la sicurezza dei nostri alleati europei”, ha affermato Cancian, “ma l’attuale amministrazione attribuisce alla loro sicurezza una priorità molto inferiore rispetto alle amministrazioni precedenti”.

I sostenitori sostengono che le vendite militari all’estero contribuiscano a finanziare l’espansione delle linee di produzione e la ricerca e sviluppo di nuovi sistemi d’arma. Affermano che la Boeing, ad esempio, è stata in grado di produrre l’F-15EX, una versione aggiornata del caccia F-15, perché l’Arabia Saudita ha ordinato nuovi aerei per miliardi di dollari. E le esportazioni godono di un forte sostegno a Capitol Hill, dove i legislatori apprezzano i posti di lavoro che creano nei loro distretti. Ciò potrebbe alla fine rivelarsi sufficiente a forzare una ripresa delle vendite.

Ma Cara Abercrombie, assistente segretario alla Difesa per gli acquisti dell’amministrazione Biden, ha sostenuto che anche se le discussioni sul sequestro delle armi dovessero portare solo a un rallentamento, gli alleati inizieranno inevitabilmente a spostare i loro affari altrove.

“Se sei un Paese europeo molto attento ai missili o ai droni russi che volano nel tuo spazio aereo, sei ansioso di assicurarti di avere intercettori in magazzino”, ha affermato. “Se ti viene detto che l’attesa, già di due anni, ora diventerà di cinque anni, sarai fortemente incentivato a iniziare a cercare altre alternative”.

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28/09/2025

Festa per il compleanno del caro amico Harold (1970) di W. Friedkin - Minirece

Il “piano” di Trump per Gaza, secondo Israele

La proposta americana in 21 punti, per porre fine alla “guerra Israele-Hamas”, che è stata “supervisionata” da alcuni paesi arabi, e che sarebbe nelle mani di Hamas, verrà sottoposta da Trump a Netanyahu lunedì.

Lo riferisce il Times of Israel, non certo un giornale dell’opposizione israeliana, che ne illustra l’articolazione. Non sappiamo se Hamas e le molte altre organizzazioni della Resistenza l’abbiano davvero ricevuta e potuta discutere.

Noi abbiamo una nostra valutazione, ovviamente, ma non siamo abituati a dare consigli non richiesti a chi sta lottando per la propria sopravvivenza, l’autodeterminazione a la dignità. A voi il testo, per farvi la vostra opinione.

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1. Gaza diventerà una zona deradicalizzata e libera dal terrorismo, che non costituirà una minaccia per i paesi confinanti.

2. Gaza sarà ricostruita a beneficio della sua popolazione.

3. Se entrambe le parti accetteranno la proposta, la guerra terminerà immediatamente, con le forze israeliane che interromperanno tutte le operazioni e si ritireranno gradualmente dalla Striscia.

4. Entro 48 ore dall’accettazione pubblica dell’accordo da parte di Israele, tutti gli ostaggi vivi e deceduti saranno restituiti.

5. Una volta restituiti gli ostaggi, Israele libererà diverse centinaia di prigionieri palestinesi condannati all’ergastolo e oltre 1.000 abitanti di Gaza arrestati dall’inizio della guerra, insieme ai corpi di diverse centinaia di palestinesi.

6. Una volta restituiti gli ostaggi, ai membri di Hamas che si impegneranno a coesistere pacificamente sarà concessa l’amnistia, mentre ai membri che desiderano lasciare la Striscia sarà garantito un passaggio sicuro verso i paesi di accoglienza.

7. Una volta raggiunto questo accordo, gli aiuti affluiranno nella Striscia a tassi non inferiori ai parametri di riferimento fissati nell’accordo sugli ostaggi del gennaio 2025, che prevedeva 600 camion di aiuti al giorno, insieme alla riabilitazione delle infrastrutture critiche e all’ingresso di attrezzature per la rimozione delle macerie.

8. Gli aiuti saranno distribuiti, senza interferenze da entrambe le parti, dalle Nazioni Unite e dalla Mezzaluna Rossa, insieme ad altre organizzazioni internazionali non associate né a Israele né ad Hamas.

9. Gaza sarà governata da un governo provvisorio di transizione composto da tecnocrati palestinesi che saranno responsabili di fornire i servizi quotidiani alla popolazione della Striscia. Il comitato sarà supervisionato da un nuovo organismo internazionale istituito dagli Stati Uniti in consultazione con i partner arabi ed europei. Esso stabilirà un quadro di riferimento per il finanziamento della ricostruzione di Gaza fino al completamento del programma di riforme dell’Autorità Palestinese.

10. Sarà elaborato un piano economico per la ricostruzione di Gaza attraverso la convocazione di esperti con esperienza nella costruzione di città moderne in Medio Oriente e attraverso l’esame dei piani esistenti volti ad attrarre investimenti e creare posti di lavoro.

11. Sarà istituita una zona economica, con tariffe e tassi di accesso ridotti che saranno negoziati dai paesi partecipanti.

12. Nessuno sarà costretto a lasciare Gaza, ma coloro che sceglieranno di andarsene potranno tornare. Inoltre, gli abitanti di Gaza saranno incoraggiati a rimanere nella Striscia e sarà loro offerta l’opportunità di costruirsi un futuro migliore.

13. Hamas non avrà alcun ruolo nella governance di Gaza. Ci sarà l’impegno a distruggere e a interrompere la costruzione di qualsiasi infrastruttura militare offensiva, compresi i tunnel. I nuovi leader di Gaza si impegneranno a coesistere pacificamente con i loro vicini.

14. I partner regionali forniranno una garanzia di sicurezza per assicurare che Hamas e le altre fazioni di Gaza rispettino i propri obblighi e che Gaza cessi di rappresentare una minaccia per Israele o per la propria popolazione.

15. Gli Stati Uniti collaboreranno con i partner arabi e altri partner internazionali per costituire una forza internazionale di stabilizzazione temporanea che sarà immediatamente dispiegata a Gaza per supervisionare la sicurezza nella Striscia. La forza costituirà e addestrerà una forza di polizia palestinese, che fungerà da organo di sicurezza interna a lungo termine.

16. Israele non occuperà né annetterà Gaza e l’IDF cederà gradualmente il territorio che attualmente occupa, man mano che le forze di sicurezza sostitutive stabiliranno il controllo e la stabilità nella Striscia.

17. Se Hamas ritarderà o rifiuterà questa proposta, i punti di cui sopra saranno attuati nelle aree libere dal terrorismo, che l’IDF cederà gradualmente alla forza di stabilizzazione internazionale.

18. Israele accetta di non effettuare futuri attacchi in Qatar. Gli Stati Uniti e la comunità internazionale riconoscono l’importante ruolo di mediazione di Doha nel conflitto di Gaza.

19. Sarà avviato un processo di deradicalizzazione della popolazione. Ciò includerà un dialogo inter-religioso volto a cambiare la mentalità e la narrativa in Israele e Gaza.

20. Quando la ricostruzione di Gaza sarà avanzata e il programma di riforme dell’Autorità Palestinese sarà stato attuato, potrebbero esserci le condizioni per un percorso credibile verso la creazione di uno Stato palestinese, riconosciuto come aspirazione del popolo palestinese.

21. Gli Stati Uniti avvieranno un dialogo tra Israele e i palestinesi per concordare un orizzonte politico per la coesistenza pacifica.

P.S: Notizie dell’ultim’ora. Secondo il giornale progressista Haaretz: “Hamas ha accettato il piano di Trump per la fine della guerra”. Ma il gruppo ha fatto sapere che: “La proposta non è mai stata ricevuta”

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Genova - Nave con materiale bellico diretta verso Israele bloccata dai portuali

Ieri sera a Genova, durante una fiaccolata per Gaza, i portuali del Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali e dell’Unione Sindacale di Base hanno saputo che la nave New Zealand della compagnia ZIM si trovava in porto, pronta a caricare 10 container con materiale esplosivo, per poi dirigersi verso Israele.

I lavoratori non ci hanno pensato un attimo e sono partiti in corteo verso il porto, hanno proclamato immediatamente lo sciopero e hanno occupato il terminal Spinelli. Intorno alle 22 di sera, i manifestanti hanno ricevuto la notizia che le operazioni di carico erano state interrotte e che la nave si stava allontanando dal porto.

Dai terminal, portuali e solidali si sono poi ricongiunti al resto del corteo nel centro cittadino. Non prima di aver portato la propria solidarietà agli studenti che, da martedì, occupano il rettorato dell’università, chiedendo la rescissione di tutti gli accordi accademici con Israele e una presa di posizione netta da parte dei vertici dell’ateneo.

Riportiamo alcuni commenti della grande serata di lotta.

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I portuali di Genova organizzati con il Calp e l’Usb hanno impedito il carico della nave Zim New Zealand di materiale bellico diretto a Israele, occupando il Terminal Spinelli e proclamando immediatamente lo sciopero. Pochi minuti fa, attorno alle 22 (del 27 settembre, ndr), si è avuta conferma che la nave sta abbandonando il porto senza aver caricato i container. A Genova non c’è spazio per i traffici di armi, non c’è spazio per le complicità con il governo genocida di Israele. Con la Palestina nel cuore.

CALP – Unione Sindacale di Base

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Un’altra grande vittoria dei lavoratori portuali di Genova del Calp e l’Usb che hanno impedito il carico di una nave diretta in Israele!

Questa sera è arrivata la notizia che la nave Zim New Zealand dovesse caricare materiale pericoloso diretto a Israele, subito i lavoratori si sono mossi occupando il Terminal Spinelli e proclamando immediatamente lo sciopero. Grazie alla pressione alle 22 (del 27 settembre, ndr), abbiamo avuto conferma che la nave sta abbandonando il porto senza aver caricato i container e ci siamo mossi in corteo verso il centro città.

Genova sa da che parte stare: con il popolo palestinese contro i traffici di armi e contro lo stato terrorista di Israele. Per fermare il genocidio embargo e sanzioni subito! Siamo pronti a bloccare tutto!

Palestina libera!

Potere al Popolo

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