Una
riflessione un poco più ravvicinata su questo disegno di riforma sarà
quindi utile per contribuire criticamente allo sviluppo del dibattito.
La decisione del Governo di intervenire sulla materia spinosa e
magmatica del mercato del lavoro non può giustificare, infatti, una
levata di scudi a difesa dell'esistente. Occorre prendere atto che la via su
cui lo sviluppo dei rapporti sociali pare già incamminato, condurrà naturaliter all'esaurimento delle garanzie consolidate del diritto del lavoro (e in primis
della tutela reale contro il licenziamento), nonché anche al
progressivo estinguersi della tutela pensionistica come forma specifica
di assicurazione contro la vecchiaia. Rispetto alla condizione sociale
di milioni di lavoratori (non più così giovani, ormai) dispersi in
micro-imprese in appalto, cooperative, datori di lavoro capaci di
offrire soltanto contratti a termine o a progetto, non ha più un
significato concreto il richiamo all'articolo 18; e lo stesso può già
dirsi per la previdenza pubblica, resa incapace dalle riforme degli
ultimi anni di fungere da garanzia tangibile per la dignità della
persona nella fase di riposo dalla vita lavorativa. Non c'è spazio
dunque per la difesa dell'esistente, c'è un bisogno pressante, al
contrario, di nuovi diritti e nuove tutele. Da questo punto di vista il
ddl menzionato, sicura fonte di ispirazione per l'azione del Governo,
merita di essere valutato attentamente quanto meno per l'effetto di
rottura dall'inerzia che promette di produrre.
Il punto cruciale della nuova disciplina proposta sta nel superamento dei
vincoli alla cosiddetta flessibilità in uscita (licenziamenti più
"facili", dunque), in cambio di una sostanziosa indennità di
disoccupazione della durata di quattro anni, pari al 90% dell'ultimo
salario percepito nel corso del primo anno, e poi a scalare pari all'80,
al 70 e al 60 per cento negli anni successivi al primo. Inoltre il
lavoratore licenziato gode al momento dell'interruzione del rapporto
lavorativo di una buonuscita una tantum pari a una mensilità di
salario per ogni anno di anzianità aziendale. Questo nuovo regime
caratterizzato da ammortizzatori sociali sensibilmente più generosi di
quelli oggi disponibili si applica solo ai lavoratori che siano riusciti
a superare un anno di anzianità di servizio all'interno di una stessa
azienda. In cambio di questa maggiore generosità nell'accesso al
sussidio il disoccupato deve acconsentire a stipulare un accordo di
ricollocazione con una apposita agenzia privata, che gli eroga il
sussidio (anche con proprie risorse, aggiuntivamente alle risorse
provenienti dal sussidio oggi a carico dell'INPS) e che ha un interesse
economico a situare velocemente il lavoratore in un nuovo contesto
produttivo.
Su questo disegno di riforma, qui velocemente tratteggiato, si rassegnano di seguito alcune brevi osservazioni.
1) Il progetto di legge in oggetto mira ad introdurre una semplificazione
del mercato del lavoro mediante una drastica riduzione delle forme
contrattuali esistenti. Sia le forme contrattuali subordinate che
quelle parasubordinate dovrebbero confluire nel nuovo "contratto di
transizione" destinato a diventare forma contrattuale tendenzialmente
unica per tutta la popolazione attiva e in posizione economicamente
dipendente. Resterebbero in vigore soltanto i contratti a termine (ma
ridotti nel numero perché ricondotti alla presenza di esigenze
produttive realmente temporanee), alcune forme di lavoro interinale e
forse l'apprendistato. La proposta di un "contratto unico" è stata
avanzata anche da altri commentatori (primi fra tutti Boeri e
Garibaldi) ed apre una prospettiva interessante e da discutere in modo
costruttivo. Il rischio sotteso a simili progetti è quello di una eccessiva astrazione
dai reali rapporti produttivi, poiché se è vero che negli ultimi anni
il legislatore si è spinto decisamente troppo in là nell'invenzione di
tipologie contrattuali sempre nuove, è vero anche che imporre a forza un
unico modello contrattuale a un mercato del lavoro che comunque
esprime un'esigenza di flessibilità potrebbe non essere rispondente
alle reali esigenze dei produttori. Forse perché consapevole di questi
rischi la proposta Ichino (diversamente da quella Boeri-Garibaldi che
impone il "contratto unico" ope legis a partire da una certa
data e per le nuove assunzioni) lascia alla contrattazione collettiva
(e individuale) la scelta per il nuovo "contratto di transizione",
scommettendo sulla sua convenienza per imprese e lavoratori.
2) Il disegno di riforma prevede dunque un progressivo ampliamento del
nuovo strumento contrattuale, una sua applicazione a macchia d'olio,
fino all'integrale sostituzione di tutte le forme contrattuali vigenti.
Anche qui si vede una certa astrattezza di impostazione, che non tiene
conto delle specificità talora spiccate dei vari contesti produttivi.
In particolare non è ben chiara la convenienza per le piccole imprese
(sotto i 15 dipendenti) a entrare nel nuovo regime. Se infatti per le
grandi imprese l'interesse sta nel superamento della tutela reale contro
i licenziamenti prevista dall'art. 18 dello Statuto dei lavoratori, lo
stesso non può dirsi per le unità produttive più piccole. Il ddl
prevede infatti, a vantaggio delle sole imprese sotto i 15 dipendenti,
il versamento di un contributo statale in favore dell'agenzia di
ricollocamento - vi è dunque un trasferimento di risorse pubbliche per
incentivare l'attivazione di uno speciale rapporto contrattuale di
natura privatistica tra il dipendente licenziato e l'agenzia di
ricollocamento. Ma pur con questo incentivo non è per nulla certo che la
piccola impresa trovi conveniente abbandonare il regime esistente
fondato su contratti a termine, forme parasubordinate, precariato. E'
dunque assai probabile che il nuovo "contratto di transizione" non
riesca a raggiungere la semplificazione sperata, ma che al contrario
finisca per un creare un'ennesima figura contrattuale - modulata sugli
interessi della grande impresa - da affiancare a tutte le altre oggi
esistenti.
3) Il proposito della
riforma è quello di superare il dualismo del mercato del lavoro,
caratterizzato - secondo quanto si dice nella relazione introduttiva -
da una vera e propria apartheid tra lavoratori protetti e
lavoratori precari che portano da soli tutto il peso della
flessibilità. La risposta che si tenta di dare a questa condizione sta
nella creazione di una forma di tutela uniforme, che si colloca a un
livello "mediano" rispetto alla polarizzazione oggi esistente. Rispetto
a questa analisi, ancora una volta, è forse il caso di delineare
un'immagine più realistica della realtà del lavoro nel nostro paese,
che non è tanto caratterizzato da un dualismo, quanto piuttosto da una moltiplicazione indefinita delle posizioni,
fino quasi a un'individualizzazione della situazione di ciascuno. E
anche qui: se in parte vi è stata una cedevolezza eccessiva da parte del
legislatore alle esigenze dell'impresa, in parte questa situazione è
anche lo specchio fedele di una produzione che si è fatta "liquida", non
catalogabile, irriducibile a macro schemi unificanti. Non di
dualizzazione, dunque, si deve parlare, piuttosto di propagazione
indeterminata di rapporti contrattuali sempre diversi e cangianti (forse
la condizione singolare di ciascuno è ancora più ricca rispetto alla
pur abbondantissima offerta legislativa di ben 44 forme contrattuali
ammesse). Mettere un programmatore di computer nella stessa casella del
fattorino ed entrambi loro in quella della colf o dell'operaio edile
rischia di essere un'iniziativa velleitaria e disperata. Siamo dunque
destinati alla balcanizzazione delle tutele e delle società? Niente
affatto, il punto sta nell'accordare un livello universale di tutele che
faccia da contraltare alla molteplicità delle esperienze contrattuali
individuali. Con alcune garanzie forti, valide per tutti e introdotte
per legge (e non con la sempre più fragile contrattazione collettiva),
si potrebbe guardare alla segmentazione esistente con meno allarme,
perché sarebbero esclusi alla radice i rischi di dualizzazione.
4) Le tutele universalistiche da introdurre per legge sono la previsione
di un salario minimo orario (che il ddl S1481 non contempla, ma che è
oggetto di altro ddl degli stessi proponenti), di sostegni formativi e
in generale welfaristici per i lavoratori in fase di transizione
occupazionale, di una tutela compiuta ed efficace del reddito in tutte
le fasi della vita produttiva e non. Solo quando sarà realizzato l'obiettivo di "dare forza" al cittadino produttivo
anche fuori e oltre la sfera lavorativa, si potrà dire superata la
condizione di precarietà esistenziale che oggi affligge gran parte della
popolazione più o meno giovane. Occorre insomma rendere garantito per
il lavoratore, anche fuori dal rapporto contrattuale con l'impresa, un
livello minimo e intangibile di diritti, così da portarlo a un livello
di sostanziale parità con l'imprenditore nel momento della
contrattazione delle condizioni di lavoro (e senza più timori, a questo
punto, per la fioritura esasperata di modelli contrattuali diversi). Un
incontro finalmente alla pari tra domanda e offerta di lavoro potrebbe
dare luogo a dinamiche sociali fortemente innovative, capaci di
coniugare le esigenze di flessibilità delle imprese con le
incomprimibili (e rigide) esigenze vitali dei cittadini lavoratori.
5) Il ddl in questione, occorre dirlo, è totalmente refrattario rispetto a questo nuovo e urgente obiettivo di crescita civile e sociale. Nonostante il richiamo alla flexicurity scandinava, la riforma è saldamente ancorata alla concezione - prevalentemente diffusa nei paesi anglosassoni - del welfare to work,
che viene peraltro proposta in una forma coercitiva raramente
riscontrabile nei paesi europei. Siamo quindi assai distanti da
quell'ipotesi patrocinata dai giuslavoristi più avvertiti (il più
eminente dei quali è forse Alain Supiot, ma qui da noi si veda pure
Massimo Paci o anche Massimo D'Antona) di rispondere alla crisi del
lavoro, andando "al di là del lavoro", cioè fornendo riconoscimento e
garanzie alle attività oggi considerate extramercantili ed
extralavorative. Al contrario la proposta in commento mira a stringere i
vincoli sul lavoro mediante una più intensa mercificazione e un più
veloce turnover della forza lavoro da un settore all'altro o da
un impiego all'altro. In cambio di una relativa sicurezza in termini
di reddito e in termini sociali, il lavoratore si presta a una totale
disponibilità nei confronti del datore di lavoro (che può licenziarlo
senza giusta causa monetizzando la sua uscita dall'impresa) o
dell'agenzia di ricollocamento (che può a sua volta allontanarlo se non
viene accettata una proposta di impiego). Occorre infatti chiarire che
l'agenzia di collocamento (pur avocando a sé la funzione finora di
natura pubblicistica svolta dai Centri per l'Impiego) agisce con
strumenti senz'altro privatistici ed è orientata al profitto (prima
riesce a ricollocare il lavoratore e più guadagna); il rapporto che la
lega al lavoratore licenziato è di diritto privato, esercita su di lui
un potere direttivo e può licenziarlo a sua volta se il lavoratore non
si mostra abbastanza disponibile. Non è preso in considerazione nel
progetto di legge alcun parametro idoneo a definire la "congruità" della
proposta di impiego offerta al lavoratore dall'agenzia (anche se su
questo aspetto non è da escludere lo svilupparsi di una contrattazione
collettiva di un certo interesse), e ciò perché se il lavoratore lo
desidera può sottrarsi dal rapporto che lo lega con l'agenzia (e in tal
caso, se ne ha diritto, continuerebbe a percepire il sussidio di
disoccupazione pubblico). L'effetto finale della riforma sarebbe però di
fatto quello di consegnare anche i sussidi esistenti (magri certo, ma
pur sempre a carattere pubblico) nelle mani dell'agenzia privata. Di
fatto, anche se il "contratto di transizione" prevede tutele crescenti
al protrarsi del rapporto, è facile ipotizzare un uso strumentale e
distorto nel nuovo potere di licenziamento offerto alle imprese, che
risulterebbero incentivate a modificare continuamente la composizione
della forza lavoro per eludere i maggiori oneri conseguenti
all'allungamento del periodo di presenza del lavoratore all'interno
dell'azienda. Non sembra peregrina l'eventualità di una strategia
aziendale improntata a una gestione "duale" della manodopera, con un
nucleo di lavoratori fissi e di fatto inamovibili, da affiancare a un
segmento in continua fuoriuscita dopo brevi esperienze occupazionali.
6) Comprensibilmente in questo disegno non c'è spazio per un'idea esigente di reddito minimo
- e questo non perché, banalmente, un tale proposito sarebbe fuori tema
rispetto all'oggetto specifico del ddl in questione. Il tema del
reddito minimo come diritto soggettivo (e in generale quello dei diritti
sociali di cittadinanza) non c'è perché scardinerebbe tutta la
filosofia dell'intervento: se il disoccupato potesse svicolarsi dal
rapporto contrattuale con l'agenzia e transitare in un sistema di
garanzia pubblico più liberale e adeguatamente generoso, non vi
sarebbero margini plausibili per l'accettazione e la diffusione del
"contratto di transizione".
In definitiva l'elemento di criticità che più vistosamente emerge dalla lettura della proposta risiede nel feticcio della ricollocazione a tutti i costi,
rapida ed efficiente del lavoratore disoccupato, come se la mera
introduzione di incentivi economici e di criteri d'azione
imprenditoriali in luogo di quelli pubblicistici potesse da sola tenere
luogo a una politica industriale degna di questo nome. La risposta
alla crisi produttiva e alla conseguente moria di posti lavoro sta
dunque nella mera attivazione, su un piano volontaristico,
dell'attitudine del lavoratore a rendersi disponibile a nuove
esperienze formative e/o di impiego. Si dovrebbe vedere abbastanza
chiaramente l'insufficienza di tale impostazione. Di fronte alle
minacce di una povertà di massa, esposti ai venti di una crisi
galoppante, nella spirale di provvedimenti che conducono allo
smantellamento della tutela pensionistica, la prima e irrinunciabile
esigenza per la preservazione dei nostri sistemi sociali sta nella
garanzia universalistica, di base, tendenzialmente incondizionata dei
mezzi di esistenza. Adempiuta questa assoluta priorità si potrà
affrontare forse più serenamente il capitolo della riforma del mercato
del lavoro.
Nessun commento:
Posta un commento