Ma
fra gli stessi israeliani il fronte non è compatto. Non tanto quello
dell’opinione pubblica che, secondo recenti sondaggi, appoggerebbe solo
al 40% un’azione armata pur rivolta contro i presunti centri di
produzione dell’arma atomica. Anche diversi strateghi militari di Tel
Aviv temono la risposta dei generali iraniani. Seppure non dotata della
potenza aerea e balistica della IAF le testate missilistiche della
Repubblica Islamica possono raggiungere le città israeliane con
conseguenze disastrose per la popolazione. Ecco perché la componente
occidentale, pur sempre militarista, facente capo al Pentagono resta
cauta di fronte a un passo che spargerebbe non soltanto morte e
distruzione nel piccolo territorio del grande alleato ebraico ma
infiammerebbe un’area già ampiamente sotto pressione. L’effetto domino
di una guerra locale coinvolgerebbe altre nazioni arabe amiche
dell’Occidente (Arabia Saudita, Kuwait, Emirati Arabi, Bahrain) con una
ripercussione su rifornimenti e mercati energetici, con ricadute sulla
certezza e sulla possibilità di estrazione e distribuzione di petrolio e
gas nonché sui costi di quelle merci pregiate. Una simile mossa
potrebbe provocare sì nuovi interventi della Nato in una regione
vastissima; a Russia e Cina non basterebbe alcun veto e forse
neanch’esse potrebbero rimanere immobili.
Col
grande Medio Oriente trasformato in un gigantesco Iraq riaffiorerebbe
l’incubo dal quale le truppe statunitensi si sono appena sganciate e che
temono maggiormente: l’intervento di terra. Già difficile in Iraq, e
ancor più in Afghanistan, quel passo diventa proibitivo sul territorio
iraniano difficilmente conquistabile al suolo per la conformazione
montuosa dei confini e le zone centrali paludose e desertiche.
Bombardare non vuol dire occupare né piegare, l’Enduring Freedom
insegna. Chi vuol mettere in ginocchio l’Iran dovrà misurarsi con la
compattezza difensiva del suo Esercito, l’attuale arma migliore assieme
allo spirito nazionale che sempre si ricompatta di fronte al pericolo
dell’attacco straniero. Quest’ultimo, infatti, è considerato da diversi
analisti (cfr. dossier Ispi) un passo falso che ridarebbe spazio
all’allarme politico (peraltro non fantasioso) dell’assalto alla
Repubblica Islamica per mano delle storiche forze reazionarie
dell’imperialismo, cementando così l’orgoglio persiano con quello delle
altre comunità etniche della nazione. Senza contare che, dopo un simile
assalto, dal punto di vista giuridico risulterebbe legittimata ogni
ricerca rivolta alla realizzazione dell’arma atomica, tendenza finora
esclusa dalle autorità di Teheran. Perciò altre armi che sono già
apparse nello scenario politico estero e interno iraniani (embargo
internazionale e manipolazione di rivolte locali e sociali) possono
risultare più utili al disegno destabilizzante. Certo negli ultimi due
anni sia le ribellioni e gli attentati in Baluchistan, sia le proteste
anche violente del “movimento verde” hanno prodotto solo marginali crepe
nel controllo che gli ayatollah continuano ad avere sulla maggioranza
della popolazione.
Ma c’è chi ritiene
necessario applicare il logorio di lungo corso che potrà produrre
cambiamenti endogeni senza lasciarsi influenzare dall’ossessione
dell’atomica. Per molti aspetti questo terribile strumento continua a
essere un deterrente in campo geo-strategico, non un’arma da usare.
Israele, che la possiede, punterebbe a colpire i centri nucleari
iraniani con bombe potentissime (bunker buster) evitando la follìa di
dotarle di uranio o plutonio. La “detestata” dittatura familiare
nordcoreana dei Kim Jong con l’atomica ha conservato il suo sistema di
potere perpetuando un’infinita “Guerra fredda” ma non ha sganciato alcun
ordigno su Seoul. Gli strateghi dell’imperialismo ancora in corso
d’opera che siedono al Pentagono e alla Casa Bianca e gli omologhi di
Mosca, Pechino o Delhi sanno che questa tattica può ripetersi ad
libitum. Mantiene alta la tensione rispetto alle scadenze interne.
Sicuramente fare la voce grossa può pagare: oggi serve a Netanyahu, un
po’ meno ad Ahmadinejad (per i problemi che spieghiamo), servirà a
Romney per lanciare il suo sprint alla White House e a Obama per
respingerlo, ma i gesti avventati hanno ricadute più ampie di talune
fughe in avanti. E se conta comprendere anche ciò che accade in casa del
nemico, alcuni risvolti del panorama iraniano appariranno già con le
politiche di primavera. Esse dovrebbero ratificare la rottura definitiva
fra il potere clericale e il presidente Ahmadinejad, respinto da tutti
gli ayatollah anche dall’ultracoservatore Yazdi un tempo suo mentore. Il
presidente-basij cerca di difendersi dal trappolone dello scandalo
finanziario in cui è finito un suo uomo, nonché suocero, Esfandiar Rahim
Mashaei accanto al Ministro dell’Economia Mohammadi. Entrambi sono
accusati di una frode di 2.6 miliardi di dollari che inevitabilmente
coinvolge la gestione presidenziale.
E
nel ridisegnato quadro interno si vede sempre più il potente partito
dei militari - ai tempi di Khatami in attrito col clero - riavvicinarsi
alla Guida Suprema che non discute lo strapotere economico delle loro
bonyad e sostituisce, nel cuore e sulla scena politica, “l’eretico”
Ahmadinejad con un nuovo uomo delle Guardie della Rivoluzione: Mohammad
Ghalibaf. Come l’attuale presidente anche Ghalibaf passa attraverso la
carica di sindaco della capitale, ma col suo passato da ufficiale è ben
più dell’ex basij sangue e carne dei pasdaran. Ghalibaf sarà il
candidato su cui clero e laici punteranno alle presidenziali dell’anno
venturo e sotto la minaccia d’un intervento straniero c’è da giurare che
tanta gioventù persiana gli sorriderà. Magari anche certi contestatori
di Ahmadinejad.
Nessun commento:
Posta un commento