L'embargo all'Iran non funziona. Sfidando il divieto di
Washington, Islamabad ha confermato il 1° marzo che completerà la
costruzione del gasdotto Iran-Pakistan. La Russia ha espresso interesse a
partecipare al progetto. La Cina ha firmato in febbraio un accordo con
Teheran, che prevede di aumentare le forniture a mezzo milione di barili
al giorno entro il 2012.
Sul palcoscenico di Washington,
sotto i riflettori dei media mondiali, Barack Obama ha declamato: «Quale
presidente e comandante in capo, preferisco la pace alla guerra». Ma,
ha aggiunto, «la sicurezza di Israele è sacrosanta» e, per impedire che
l'Iran si doti di un'arma nucleare, «non esiterò a usare la forza,
compresi tutti gli elementi della potenza americana». Comprese quindi le
armi nucleari. Parole degne di un Premio Nobel per la pace. Questo il
copione. Per sapere come stanno veramente le cose, occorre andare dietro
le quinte.
Alla testa della crociata anti-iraniana vi è
Israele, l'unico paese della regione che possiede armi nucleari e, a
differenza dell'Iran, rifiuta il Trattato di non-proliferazione. Vi sono
gli Stati Uniti, la massima potenza militare, i cui interessi politici,
economici e strategici non permettono che possa affermarsi in Medio
Oriente uno Stato sottratto alla loro influenza. Non a caso, le sanzioni
varate dal presidente Obama lo scorso novembre vietano la fornitura di
prodotti e tecnologie che «accrescano la capacità dell'Iran di
sviluppare le proprie risorse petrolifere».
All'embargo hanno aderito
l'Unione Europea, acquirente del 20% del petrolio iraniano (di cui
circa il 10% importato dall'Italia), e il Giappone, acquirente di una
quota analoga, che ha bisogno ancor più di petrolio dopo il disastro
nucleare di Fukushima. Un successo per la segretaria di stato Hillary
Clinton, che ha convinto gli alleati a bloccare le importazioni
energetiche dall'Iran contro i loro stessi interessi.
L'embargo,
però, non funziona. Sfidando il divieto di Washington, Islamabad ha
confermato il 1° marzo che completerà la costruzione del gasdotto
Iran-Pakistan. Lungo oltre 2mila km, è già stato realizzato quasi per
intero nel tratto iraniano e sarà terminato in quello pakistano entro il
2014. Successivamente potrebbe essere esteso di 600 km fino all'India.
La Russia ha espresso interesse a partecipare al progetto, il cui costo è
di 1,2 miliardi di dollari. Allo stesso tempo la Cina, che importa il
20% del petrolio iraniano, ha firmato in febbraio un accordo con
Teheran, che prevede di aumentare le forniture a mezzo milione di barili
al giorno entro il 2012. E anche il Pakistan accrescerà le importazioni
di petrolio iraniano.
Furente, Hillary Clinton ha intensificato la
pressione su Islamabad, usando il bastone e la carota: da un lato
minaccia sanzioni, dall'altro offre un miliardo di dollari per le
esigenze energetiche del Pakistan. In cambio, esso dovrebbe rinunciare
al gasdotto con l'Iran e puntare unicamente sul gasdotto
Turkmenistan-Afghanistan-Pakistan-India, sostenuto da Washington. Il suo
costo stimato è di 8 miliardi di dollari, oltre il doppio di quello
iniziale. Prevale però a Washington la motivazione strategica. I
giacimenti turkmeni di gas naturale sono in gran parte controllati dal
gruppo israeliano Merhav, diretto da Yosef Maiman, agente del Mossad,
uno degli uomini più influenti di Israele.
La realizzazione del
gasdotto, che in Afghanistan passerà attraverso le province di Herat
(dove sono le truppe italiane) e Kandahar, è però in ritardo. Allo stato
attuale, è in vantaggio quello Iran-Pakistan. A meno che le carte non
vengano rimescolate da una guerra contro l'Iran. Anche se il presidente
Obama «preferisce la pace».
Fonte.
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